Perché Philadelphia ora è costretta a vincere

Non che prima ci fossero grandi dubbi, perché la situazione era già piuttosto delineata da un mercato vissuto a suon di colpi sensazionali e conferme importanti, ma dalle parti di Philadelphia c’è una data che tutti, pensando alla prossima stagione, ricorderanno: 20 settembre. È quello il giorno in cui Joel Embiid, stella indiscussa e ormai da tempo uomo simbolo della squadra, ha firmato una ricca estensione contrattuale che lo lega alla franchigia fino al 2029. Anche in questo caso non è che la sua permanenza ai Sixers fosse in bilico, perché a dispetto delle voci che l’avevano riguardato in passato, il giocatore aveva già più volte ribadito la sua intenzione di restare dov’è, e anche a lungo. La firma di Embiid, però, è stata sotto molti punti di vista l’ultimo passo di un percorso lunghissimo e che ora prevede un solo, possibile approdo: il titolo NBA. Un percorso cominciato ancor prima che il camerunese arrivasse in Pennsylvania ma di cui Embiid è ormai rimasto l’unico testimone diretto, come confermato dalla chiosa utilizzata per annunciare sui social l’estensione contrattuale con i Sixers: #Trust the process. Il “Process” e il suo ultimo ambasciatore Glorificato, deriso, romanzato e portato ad esempio di coraggio e creatività così come di mancanza di rispetto per il gioco e di superbia, il “Process” vissuto in casa Sixers è stato uno dei fenomeni più discussi e interessanti degli ultimi dieci anni in NBA. Iniziata nell’estate del 2013, la profonda ricostruzione della squadra è di fatto costata a Philadelphia almeno quattro stagioni in cui i risultati sul campo sono stati sacrificati in maniera a tratti imbarazzante in modo da riuscire a portarsi in casa il maggior numero possibile di giovani talenti attraverso il Draft. Tutte quelle sconfitte e tutti quei sacrifici hanno però lasciato in eredità il solo Embiid, perché quelle che avrebbero dovuto essere le altre due colonne della nuova versione dei Sixers, Markelle Fultz e Ben Simmons, sono da tempo emigrate altrove e si trovano fuori dalla NBA o potrebbero esserlo presto. E se Embiid rimane l’ultimo ambasciatore del “Process”, la squadra attuale è invece figlia della svolta maturata nell’estate del 2020 con l’arrivo di Doc Rivers in panchina e poi soprattutto con quello di Daryl Morey a capo della dirigenza. Una svolta che fin qui ha prodotto risultati modesti, ovvero tre eliminazioni al secondo turno dei playoff, costate poi il posto a Rivers, sostituito da Nick Nurse poco più di un anno fa, e quella più recente al primo turno per mano di New York. Una svolta che durante il mercato estivo ha vissuto la sua fase più attesa, vera e propria scalata verso la vetta della lega che ora apre la visuale dei Sixers al traguardo più ambito, quel Larry O’Brien Trophy che a Philadelphia manca dal 1983. Morey e una sola ossessione: vincere Quando gli hanno affidato le chiavi del front office nell’autunno del 2020, a Philadelphia avevano ben presente il curriculum e il modus operandi di Morey. Tra i dirigenti NBA più in vista, nella sua lunga permanenza a Houston l’ex General Manager dei Rockets si era fatto conoscere per la pressoché totale assenza di remore nel lanciarsi in trade e scelte di mercato spregiudicate, con l’unico obiettivo di vincere il titolo. Nemmeno la convivenza temporale con quella che, a torto o a ragione, viene considerata una delle squadre più forti nella storia del gioco, gli Warriors nella versione con Kevin Durant, aveva frenato i tentativi di Morey di giocarsela fino in fondo. La sua visione, insomma, era e rimane ciò che di più distante ci possa essere rispetto alle prerogative del “Process”. Fin dal suo arrivo, quindi, la frattura con la gestione precedente è risultata evidente e il piano architettato da Morey, passato anche attraverso fasi complicate come quelle relative alla gestione dei casi Simmons prima e Harden poi, ha trovato il suo compimento proprio nell’ultima sessione di mercato. Perché il rinnovo con Embiid è arrivato dopo quello con l’altra stella della squadra Tyrese Maxey e dopo il colpo con cui i Sixers si erano portati a casa Paul George, il vero pezzo pregiato tra i free agent dell’estate 2024. Tra nuovi contratti, ivi compresi quelli concessi a veterani come Eric Gordon e Andre Drummond e all’ex Miami Caleb Martin, e rinnovi, da giugno a oggi Philadelphia ha investito poco meno di 700 milioni di dollari. Una cifra che, anche in una NBA ormai abituata a stipendi astronomici, non può che porre la vittoria del titolo come unico obiettivo contemplato. E anche se le premesse per provare a detronizzare i Celtics campioni in carica sembrano esserci tutte, a proposito delle chance di vittoria dei Sixers permangono ancora diversi dubbi. Embiid, George e le incognite che restano Embiid e George hanno molte cose in comune, tra cui diverse convocazioni all’All-Star Game e numerose comparizioni nei quintetti All-NBA, ma condividono soprattutto la fama di stelle fragili. La carriera di entrambi, infatti, è caratterizzata da infortuni piuttosto frequenti, spesso arrivati nei momenti decisivi della stagione. Logico quindi che il fatto che Philadelphia abbia investito così pesantemente su di loro, sia dal punto di vista economico che da quello dell’importanza negli equilibri tattici di squadra, lasci più di qualche dubbio sul destino dei Sixers. Lo stato di salute di Embiid e George, soprattutto arrivati a primavera, sarà quindi il vero termometro in grado di misurare le reali possibilità dei ragazzi di coach Nurse di arrivare a giocarsi quelle Finals che in città mancano dal 2001, quando tutta Philadelphia era ai piedi di Allen Iverson. Oppure l’eventuale ricaduta di uno dei due potrebbe essere compensata da un ulteriore salto di qualità da parte di Maxey, al momento molto vicino a diventare una superstar a tutti gli effetti. Uno status che il playmaker dei Sixers potrebbe conquistare durante la prossima stagione, alimentando così ulteriormente le speranze di un nuovo trionfo. Di certo, tra tanti dubbi, c’è che per Philadelphia il tempo delle scuse o dei rinvii all’occasione successiva è finito: il momento di vincere è ora.

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