Cara Nba, per i tuoi problemi di pubblico la risposta non sono le risse

“La cosa più importante che abbiamo tolto alle persone dal punto di vista dell'intrattenimento è che non ci si picchia più. Cosa c'è di più divertente di una piccola rissa?” La frase che leggete qui sopra va attribuita a Joe Mazzulla. L’ha detta poco più di una settimana fa durante un programma radiofonico di un’emittente di Boston. L’allenatore campione NBA con i Celtics non si è nemmeno fermato lì, aggiungendo che il basket come l’hockey dovrebbe adottare situazioni di power play . Mazzulla ci porta sul piatto un tema caldo che poco ha a che vedere con le risse di una volta che lui, un po’ superficialmente, vorrebbe riportare in vita. Spoiler, non accadrà. E il perché ce lo ha ricordato Simone Fontecchio durante l’ultima chiacchierata: “I giocatori non vogliono perdere soldi”. Con questa uscita Mazzula denuncia invece un problema chiaro legato all’appeal della NBA oggi. I 76 miliardi di dollari messi sul piatto dal trio Disney/Comcast/Amazon per i prossimi 11 anni ci raccontano che almeno negli Stati Uniti il prodotto resta più che appetibile nonostante i recenti dati di ascolto indichino un trend negativo. L’ultima finale NBA tra Boston e Dallas ha raccolto le attenzioni di 11 milioni di telespettatori medi sulle cinque partite. Per fare un paragone col passato, la finale più vista di sempre, la gara 6 del 1998, l’ultimo atto Jordaniano in maglia Bulls, fu seguita da 35 milioni di telespettatori per una media di 29 milioni sulle sei partite. Un paragone inutile nell’epoca della digitalizzazione in cui impazzano League Pass, YouTube e i social network, dove la sola NBA come numero di followers tra Tik Tok, Instagram, Facebook e Twitter arriva a quasi 200 milioni, spazzando via tutte le altre leghe americane. Non è un caso che quando Adam Silver cominciò a parlare del nuovo contratto non lo definì più televisivo, bensì “media”. La NBA a oggi è la lega più globale, da subito ha cominciato a disegnare il suo prodotto affinché potesse essere di appeal in ogni angolo del mondo. Se negli Stati Uniti vogliono più rissa e sangue non è detto che la stessa cosa valga per gli utenti dell’Asia o dell’Europa. Per tornare invece agli ascolti TV, la NBA continua a cercare soluzioni che possano alzare quei dati, soprattutto in Regular Season, dove l’introduzione dell’ In-Season Tournament ha comunque portato un tiepido interesse in un momento della stagione in cui succede poco. Da un punto di vista di ascolti la NFL gareggia da sola. Il solo Super Bowl ha tenuto incollati davanti agli schermi più di 120 milioni di telespettatori, complice anche l’onda che l’effetto Taylor Swift si è trascinata dietro e sulla quale la NFL ha surfato alla grande. Paragonare il successo televisivo tra uno sport che gioca una volta alla settimana per 17 settimane e l’altro che arriva a 50 partite in sette giorni è quanto mai inutile. Il football è una religione, si gioca quasi esclusivamente di domenica all’ora di pranzo con la famiglia riunita attorno al tavolo in una giornata non lavorativa. Se provassimo a fare una stagione NBA da 20 partite credete che gli ascolti non schizzerebbero all’improvviso? Nelle provocazioni, perché tali sono, che ci ha lasciato Mazzulla è nascosta anche la questione legata alla fisicità del gioco. La NBA è una lega che ha cominciato a cambiare a metà degli anni ’80 con l’arrivo di David Stern, che prima ha ripulito e poi raddrizzato la lega attraverso multe e imposizioni sul dress code. Senza dimenticare lo spartiacque tecnico alla fine degli anni ’90, quando venne introdotto il cosiddetto hand-checking, una limitazione al contatto fisico difensore-attaccante sdoganato definitivamente nel 2004. Da quel momento in poi la NBA è diventata la lega degli attaccanti e delle superstar. A queste prime correzioni negli anni si sono poi aggiunti i casi da Instant Replay per le valutazioni dei flagrant, o dei flagrant per atterraggio sul piede del difensore. Insieme ad altri correttivi per diminuire il contatto fisico in campo o quanto meno per ridurne la durezza. Quando parlo con amici coetanei, che come me ricordano il periodo in cui la NBA fu visibile in Italia a metà degli anni ’80, intravedo in loro una sorta di malinconia verso quella pallacanestro estremamente fisica. Io non lo so se è meglio ora o se mi piaceva di più una volta, certo il tiro da tre punti ha cambiato il gioco portandolo a limiti estremi che verranno ulteriormente superati, ma a qualcuno piace anche così. Aggiungiamo che gli atleti di oggi hanno skills fisiche e tecniche che quelli di una volta si sognano, l’evoluzione della specie porta giocatori a prendere un palleggio-arresto-tiro da nove metri dopo aver fatto quattro crossover sul posto con la mano del difensore davanti alla faccia. Sono fenomeni del parquet fedeli a quell’algoritmo che dice che se usi bene e tanto il tiro da tre, hai più possibilità di vincere. Ma la pallacanestro è da sempre uno sport fisico, quindi senza arrivare alle auspicate risse di Mazzulla, forse anche io vorrei vedere maggiori contatti in campo, tornando a concedere qualche sportellata in più. Il tema del numero delle partite in virtù del nuovo accordo da 76 miliardi non è negoziabile. Quelle 1230 gare di regular season spalmate su 6 mesi devono restare. Dunque una proposta potrebbe essere: se la NBA aumentasse le franchigie, quel numero pur rimanendo tale andrebbe a impattare meno sulla singola squadra che giocherebbe una stagione da 72 partite. Noi potremmo goderne meglio tenendo le risse lontano dai campi, con buona pace di coach Mazzulla.

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