La mia Atene 20 anni dopo: così ho vinto l'oro nella Maratona del 2004

Non mi piace guardare indietro, preferisco pensare al domani, e adesso la mia vita è quella di allenare atleti, anche della nazionale italiana, di telecronista e giornalista con Sky Sport. Chiarito questo, è però giusto condividere le emozioni con i tanti appassionati che tutt’oggi ricordano quanto accaduto il 29 agosto 2004. Già, sono passati, e molto in fretta, 20 anni dalla mia vittoria olimpica nella maratona, sullo stesso percorso di Filippide, il messaggero che secondo la leggenda corse fino ad Atene per annunciare la vittoria della flotta greca su quella persiana nella battaglia di Maratona. 2500 anni dopo gli organizzatori dei Giochi decisero di aggiungere ulteriore fascino alla prova simbolo delle Olimpiadi facendo gareggiare i 101 iscritti proprio sui 42,195 chilometri di strada che separano la piana di Maratona dalla capitale greca. Alla vigilia della gara ero molto fiducioso, il lavoro fatto in quota sotto la guida di Lucio Gigliotti aveva dato ottimi riscontri e proprio 'il Professore' era un'ulteriore garanzia: sedici anni prima aveva portato Gelindo Bordin a trionfare nella maratona ai Giochi di Seul 1988, senza poi contare i successi e le medaglie ottenute in pista con i tanti atleti che ha seguito nella sua inimitabile carriera. Ero alla mia terza esperienza olimpica, e non si può dire che le prime due fossero state felicissime. Ad Atlanta, nel 1996, avevo corso molto bene la batteria dei 10000 finendo sesto, ma in finale pagai la folle idea di andare in testa nei primi chilometri della gara. Ricordo la sfuriata del Direttore Tecnico Giampaolo Lenzi, che la sera me ne disse di tutti i colori. Finii diciottesimo a quasi due giri di distacco dai primi, ma con una soddisfazione: venni doppiato dalle due leggende Haile Gebrselassie e Paul Tergat proprio quando stavano lanciando lo sprint finale, così nella foto sembra che anch’io fossi in lotta per l’oro con l’etiope, che avrebbe vinto, e il kenyano. Non sapevo che, almeno nel caso di Paul, sarebbe stato un episodio premonitore. Quattro anni dopo a Sydney andò ancora peggio. Nel 1998 avevo vinto a Budapest il titolo di campione europeo di maratona, ma in Australia arrivai in condizioni precarie per un infortunio. Tenni duro venti chilometri, poi, staccato e sofferente, mi ritirai. Decisi di salire sulla vettura che raccoglieva i ritirati, come volessi punirmi per non aver ottenuto quanto volevo, e in effetti fu una vera tortura. L’autista doveva obbligatoriamente seguire la coda della gara e l’ultimo era un atleta che terminò in 3 ore e 9 minuti: proprio la sofferenza di quella via Crucis a bordo del pulmino l’avrei tenuta a mente. Ad Atene, dunque, mi ero presentato in ottime condizioni, anche per l’esperienza che avevo maturato: dopo la vittoria di Budapest erano arrivate due medaglie di bronzo ai campionati del mondo di Edmonton e Parigi. Non ero considerato il favorito principale, ruolo che di diritto spettava a Paul Tergat, proprio l’atleta che mi aveva doppiato ad Atlanta. C’erano altri grandi specialisti come il suo connazionale Erick Wainaina, già sul podio di Maratona sia ad Atlanta che a Sydney, l’americano di origine eritrea Meb Keflezighi, il gallese Jon Brown. Percorso duro, molto vallonato, che sommato ai 30 gradi di temperatura nella prima parte invitò alla prudenza. A rompere gli indugi fu il brasiliano Vanderlei De Lima, che poco dopo metà gara arrivò a guadagnare un discreto vantaggio. Dietro nessuno prendeva l’iniziativa, così intorno al trentesimo chilometro iniziai a forzare: più che inseguire il brasiliano, il cui ritmo stava calando e che sapevo avremmo raggiunto, volevo verificare come stavano i miei avversari. Soprattutto Paul Tergat, il più forte, il recordman mondiale di maratona. Mi accorsi che faceva fatica, lo sguardo basso sulle scarpe dei rivali come chi non ne ha più. In quel momento capii che il grande Paul, con cui sono rimasto tuttora amico, non sarebbe stato un fattore. Con me era rimasto solo Keflezighi, altro grande maratoneta, ma anche lui non riusciva più a darmi cambi. Davanti De Lima era ormai alla nostra portata, guadagnavamo 15 secondi a chilometro. Il predicatore pazzo irlandese che fermò il brasiliano al 35esimo chilometro, facendogli perdere una decina di secondi, non influì sull’esito della prova, che lo vide reagire a quel momento da grande campione. Intanto avevo staccato Keflezighi, raggiunsi De Lima al chilometro 38 e volai al traguardo. Non mi piace esagerare, ma il verbo in questo caso è davvero appropriato: percorsi gli ultimi cinque chilometri in meno di 14 minuti, più veloce di quanto fatto da Tola nell’ultima maratona olimpica di Parigi, in epoca di scarpe con il carbonio. Poi l’ingresso al mitico stadio Panathinaiko, quello della prima Olimpiade dell’era moderna, l’urlo mentre taglio il traguardo e un incidente tipico alla fine di una maratona. Mi ero inginocchiato per celebrare il successo, senza tener conto in quale stato fossero i miei muscoli: da quella posizione non mi sarei più mosso senza l’aiuto di una volontaria a cui chiesi una mano per rialzarmi. Mi chiedono spesso cosa sia rimasto di quel trionfo. La cosa più bella, rispondo sempre, sono i tanti che dopo quella gara hanno avuto l’ispirazione per iniziare a correre e magari tentare l’avventura della maratona e dello star bene grazie allo sport. A chi invece vuol sapere quali fossero i miei pensieri tagliando il traguardo, dico quanto non avevo previsto: vent’anni dopo, come telecronista di Sky, mi sarei trovato accanto Nicola Roggero. Felice o no, non potevo immaginarlo in quel 29 agosto 2004.

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