Messico ’68, anno Dominis: a sei metri dal Novecento

“I didn’t think it was a big news event. I was expecting a normal ceremony. I hardly noticed what was happening when I was shooting” – John Dominis, fotografo di LIFE Magazine “It was a cry for freedom and for human rights. We had to be seen because we couldn’t be heard” – Tommie “Jet” Smith “What we do to our native Australians, our own indigenous people, is nothing short of horrific” – Peter Norman “I went up there as a dignified black man and said: ‘What’s going on is wrong’” – John Carlos C’è un altro John, oltre all’indomito Carlos su quel podio, dietro e dentro quell’icona del Novecento. Non è fisica, ma immanente la presenza di John Dominis, per oltre vent’anni storico fotoreporter di Life magazine, che quell’istantanea – alle 20:41 del 16 ottobre 1968 allo stadio Olimpico di Città del Messico – l’ha scattata. E che di riflesso lo ha reso immortale come l’attimo fuggente che lui ha saputo cogliere, quasi inconsapevolmente, a sei metri dal podio dei 200 metri piani della gara maschile ai Giochi della XIX Olimpiade. Qui non raccontiamo la storia , i molteplici significati e le conseguenze del gesto epocale di Tommie ‘Jet’ Smith, Peter Norman e John Carlos, ma di chi e come lo ha immortalato. “Non pensavo fosse un grosso evento di cronaca”, ammetterà Dominis nel 2008 a David Davis della Smithsonian magazine, la rivista fondata a Washington nel 1970 per l’omonima istituzione da Edward Kramer Thomson, un ex redattore di Life già in pensione. “Mi aspettavo una normale cerimonia . Quasi non mi ero accorto di cosa stesse succedendo mentre scattavo”. Parafrasando Hannah Arendt, la banalità del Bene, una volta tanto nel secolo delle due guerre mondiali e delle dittature. Anche se poi di Male – per i tre su quel podio e i loro cari – ne sarebbe seguito a iosa. Persino in modalità insospettabili. Col senno di poi, tutti concordi nel definire ‘iconica’ quell’istantanea. All’epoca, però, un po’ meno. A cominciare dai media cosiddetti mainstream . La stessa Life magazine, nel numero del 1° novembre 1968 con in copertina le nozze ultra-glamour di Jackie Kennedy-Onassis, aveva relegato quella foto in bianco e nero in un riquadrino in alto a destra, a pagina 64C, nel servizio a sei colonne di Jeremy Larner e David Wolf dal titolo “Amid Gold Medals, Raised Black Fists”. Un pezzo piuttosto critico, sin dall’occhiello, riguardo “A stubborn protest jars the Games”, una “ostinata protesta che ha messo in crisi i Giochi”. LIFE magazine era però in qualificata compagnia. Joseph M. Sheehan, allora corrispondente da Città del Messico per il New York Times, scrisse che la cerimonia del 16 ottobre “passò inosservata nello stadio Olimpico gremito”. Peccato che quando il commento di Sheehan fu pubblicato, tre giorni dopo, l’evento fosse diventato non solo una notizia da prima pagina ma, nonostante si fosse epoca pre-web e social, di risonanza globale: perché su pressione del Comitato Olimpico Internazionale, presieduto dallo statunitense Avery Brundage, i dirigenti del Comitato Olimpico USA non solo avevano sospeso i medagliati Smith e Carlos e ritirato loro gli accrediti, ma li avevano puri espulsi dai Giochi e costretti a lasciare – entro 48 ore – sia il Villaggio Olimpico, sia il Messico. Hemingway a tracolla Nato il 27 giugno 1921 a Los Angeles da immigrati croati, John Dominis aveva studiato cinematografia alla University of Southern California, e un occhio privilegiato per lo sport lo aveva sin dai tempi del college. Per i Trojans aveva giocato tight end e disputato il Rose Bowl del 1944. L’anno prima aveva però lasciato la USC per arruolarsi come fotoreporter nelle Army Air Forces, l’aeronautica USA. Prestato servizio in Giappone fino al congedo nel 1946, aveva lavorato da freelance per varie riviste, tra cui The Saturday Evening Post, Collier’s e LIFE magazine. Da quegli scatti giapponesi trarrà anche un libro di ritratti di bambini intitolato The Forbidden Forest . Fosse stato per lui sarebbe anche rimasto, ma all’epoca in Giappone l’attività di freelance non era riconosciuta né legale, e così se n’era tornato in patria, dove aveva cominciato a collaborare con LIFE. Nata nel 1883 come periodico umoristico, Henry Luce , direttore di Time, dal 1936 la trasformò nell’archetipo del magazine di fotogiornalismo. Pubblicata come settimanale fino al 1972, poi come speciali senza una cadenza fissa, mensile dal 1978 al 2000 e infine come supplemento settimanale dal 2004 fino alla chiusura nel 2007, ha scritto essa stessa pagine di Storia documentando – sotto la direzione di John Morris e gli scatti di Robert Capa – eventi bellici epocali quali lo sbarco in Normandia. E proprio in occasione di un conflitto era decollata – oltremare – la carriera di Dominis. Nel 1950 era stato inviato di guerra in Corea – che guerra vera fu, altroché Fredda –, e per coprire crisi varie nel sud-est asiatico era poi tornato più volte, come pure in Africa e in Europa. Tra i suoi scatti più famosi – a celebrities inavvicinabili per chiunque altro non godesse della loro fiducia, e avesse i suoi contatti e soprattutto il suo modus operandi – i Kennedy, Frank Sinatra, Steve McQueen, Muhammad Ali e mille altri. Non per niente c’era lui a immortalare John Fitzgerald Kennedy durante il suo comunque memorabile ‘Discorso di Berlino’ del 26 giugno 1963. Quello della presunta gaffe “Ich bin ein Berliner”, pronunciato 149 giorni prima che il Presidente venisse assassinato il 22 novembre a Dallas, di fronte al Texas Book School Depository, a un rimbalzo da casa del baby Dennis Rodman, che a due anni – al suono delle sirene spiegate – piangeva spaventato in braccio a mamma Shirley. “Two thousand years ago, the proudest boast was civis romanus sum. Today, in the world of freedom, the proudest boast is ‘Ich bin ein Berliner!’ All free men, wherever they may live, are citizens of Berlin, and therefore, as a free man, I take pride in the words ‘Ich bin ein Berliner!’” Gran chiosa per i posteri. Ma è una leggenda metropolitana , tramandata per decenni, quella secondo cui JFK avrebbe in realtà detto “Anch’io sono un Krapfen” anziché un “berlinese”. In molti continuano a ritenere che fosse stato il suo fidato interprete, Robert H. Lochner, a incappare – come spesso accade ad alti strateghi USA specie in delicati ambiti overseas –in un clamoroso false friend. Il ‘falso amico’ incubo di ogni traduttore, e più facilmente evitabile se si conoscono realtà, costumi e usanze locali. L’ambiguità – che in verità nessun berlinese nel 1963 avrebbe mai percepito come tale – nasce dal duplice fatto che in tedesco, per indicare la propria provenienza, secondo alcuni si dovrebbe dire “Ich bin Berliner” ; e che a Berlino il dolce Pfannkuchen viene abbreviato in Berliner. Di lì il falso storico che in piazza Rudolph Wilde Platz si fossero sprecati sorrisetti, risolini e dài-di-gomito in scherno per quella frase che Kennedy si era diligentemente appuntato su un foglietto, e non proprio il massimo per uno statista. Quel che però conta, in questa storia, è che Dominis fosse là, con l’inseparabile Nikon ‘F’ a tracolla pronta all’uso. Accomodante, disinvolto, di aspetto prestante, Dominis veniva in genere incaricato di ritrarre persone che preferivano non essere fotografate, o più spesso ancora non volevano saperne proprio. Nel 1963 trascorse un mese con l’attore Steve McQueen, la cui passione per le corse automobilistiche rivaleggiava in ferinità con la sua idiosincrasia per la pubblicità. Dominis, per nulla scoraggiato, per ingraziarselo affittò una Jaguar. E alla fine riuscì a immortalare il ‘King of Cool’ nell’intimità di casa insieme con la prima moglie Neile Adams. Il buon John, oltre a far colpo, sapeva dove – e come – colpire. Nel 1965 di mesi con Frank Sinatra ne passò addirittura tre, assecondandone anche la più assurda richiesta e calandosi appieno nel relativo, equivoco entourage di ‘The Voice’: amici, parenti, autisti, maneggioni assortiti e alcool a fiumi. A quello stesso anno risale un’altra sua iconica immagine dello sport USA: l’ormai declinante Mickey Mantle che, frustrato per la sua pessima prestazione in battuta, lancia con sdegno il caschetto. E a proposito di baseball, era invece del 1954 quella di Willie Mays, star dei New York Giants, che si rade in spogliatoio. Inviato al seguito dell’epocale viaggio presidenziale di Richard Nixon in Cina, sigaretta all’angolo della bocca durante il volo del 1° febbraio 1972 per Pechino, John studiava il mandarino col vicino di posto Dirck Halstead, suo collega a Time-LIFE. Di certo non poteva immaginare il nuovo scenario globale che si sarebbe dipanato sulla scia della Ping-pong diplomacy, iniziata nell’aprile 1971 con la storica tournée a Pechino, Shanghai e Tianjin della nazionale USA di tennistavolo. E proseguita con una riproduzione della Huangshan su seta donata da Zhuang Zedong, il pongista cinese tre volte campione del mondo, al collega statunitense Glenn Cowan, che aveva perso il bus della squadra americana e a cui Zedong aveva offerto un passaggio su quello della nazionale cinese. Era, è bene ricordarlo, la Repubblica Popolare del Premier Zhou Enlai. Dalla Rivoluzione cinese del 1949, tra le due superpotenze non c’erano più stati legami diplomatici e gli scambi commerciali erano limitati. Yao Ming in NBA era ancora parecchio di là da venire, ma il seme era stato gettato. Diventato direttore della fotografia a People magazine nel 1975, e con un ruolo simile dal 1978 al 1982 a Sports Illustrated, Dominis ha vissuto una vita davvero hemingwayana, senza però la tragica fine che ‘Papa’ Ernest ha voluto infliggersi, e conclusa a 92 anni, il 30 dicembre 2013, per un infarto, come comunicato dalla figlia Dori Dominis Beer. Asta la vista Quanto alla sua arte – perché di questa si tratta – nella sua foto più celebre risaltano alcune caratteristiche, immediatamente riconoscibili, che ne riassumono stile, filosofia e carriera. L’inquadratura è stretta, non ci sono distrazioni in primo piano o sullo sfondo, né altre figure, niente di superfluo. Tommie Smith al centro del podio è a figura intera, dal pugno guantato del Black Power ai piedi, scalzi, simbolo della povertà della comunità nera. Posizionato a sei metri dal podio, Dominis si trovava abbastanza vicino per vedere e mettere a fuoco bene le medaglie, gli stemmi ricamati sulla tuta della nazionale e le spille dell’Olympic Project for Human Rights , indossata per solidarietà anche dall’australiano Peter Norman, medaglia d’argento; la collana di pietruzze ; la sciarpa di Smith e la giacca aperta della tuta di Carlos. L’illuminazione è ideale, e persino i guanti neri spiccano nel cielo già scuro dell’imbrunire. Sul retro dell’originale, stampato su carta Kodak, sono ben leggibili le sue annotazioni scritte a mano: Mexico City - Olympic racial protest - Extending black-gloved hands skyward in racial protest, American Negro runners Tommie Smith, center, + John Carlos stare downward during playing of Star-Spangled Banner after receiving gold + bronze medals, respectively, for their performances in 100 meter run. At left is Peter Norman of Australia who took silver medal. 68 - 10/16 “Città del Messico - Protesta razziale alle Olimpiadi - Con le mani guantate di nero protese verso il cielo in segno di protesta razziale, gli sprinter americani neri Tommie Smith, al centro, e John Carlos abbassano lo sguardo durante l’esecuzione dell’inno nazionale Star-Spangled Banner, dopo aver ricevuto la medaglia d’oro e quella di bronzo, rispettivamente, per le loro prestazioni nei 100 metri piani. A sinistra l’australiano Peter Norman, che ha conquistato la medaglia d’argento”. Se vi state chiedendo quanto possa valere, quell’originale, sappiate che nel 2022 l’esemplare a colori è stato venduto per la cifra-record di 45.000 dollari. Una copia conforme, il 5 maggio 2024, è stata battuta all’asta a 10.065. Probabilmente chiunque sa che di originali ne esistono due versioni, una appunto a colori e una in bianco e nero, quella che LIFE, non rendendosi conto della portata dell’evento, schiaffò in un riquadrino nelle pagine interne del numero uscito il 1° novembre 1968. Magari non tutti sanno che in realtà ne circolò una terza, inspiegabilmente ritoccata. E in tempi non sospetti, quando ancora non esistevano programmi di fotoritocco digitale e certi ‘aggiustamenti’ redazionali venivano fatti a mano. Se fate bene attenzione, vi salterà all’occhio un elemento in particolare: la scatola contenente il ramoscello d’ulivo tenuta con la mano sinistra da Tommie Smith. Nella versione ‘ritoccata’, è stata rimossa una parte: l’ultimo terzo della scatola, nello spazio del podio fra Smith e Carlos. Ci sono cascati, si presume inconsapevolmente, il New York Times – che questa versione alterata l’ha pubblicata addirittura tre volte, nel 2014, nel 2017 e nel 2021; e, tra gli altri, persino la stessa LIFE. A New York negli archivi dell’International Center of Photography , la principale istituzione mondiale del settore, è conservata una stampa che rivela chiaramente l’approssimativo lavoro manuale con pennellatine di SpoTone. Si vede a occhio nudo, basta osservarle disposte tutte e tre una accanto all’altra. C’è infine un ulteriore dettaglio che merita una precisazione. Dell’immagine a colori, in alcune pubblicazioni appare la versione in cui sia i piedi scalzi sia la scarpa Puma di Smith, appoggiata accanto sul podio, sono tagliati. Non si tratta di un errore involontario né di una scelta voluta di Dominis, bensì di impaginazioni redazionali. Basta guardare la copia venduta a 10.065 dollari. Dominis si è occupato molto di politica, celebrities, natura e animali, cibo. E in un’epoca – avventurosa e irripetibile – che aveva ancora un che di pionieristico, di americanamente selvaggio. Per certi versi, di ultima Nuova Frontiera. L’esperienza accumulata andando a caccia dei soggetti più riottosi gli era tornata utile, alla lettera, per il suo famoso ‘The Great Cats of Africa’, la serie che gli aveva fruttato un premio, pur non facendo ancora parte del giro, ma anche qualche critica per essersi ‘preparato’ la celebre scena del leopardo che attacca il babbuino. John però non l’ha mai negato. “In tutta onestà, è stata una montatura”, aveva ammesso. “A quei tempi non si era contrari nell’allestire delle immagini impossibili da ottenere in altro modo”. Nulla invece ha dovuto ‘addomesticare’ per quel suo scatto, quasi inconsapevole, fatto a sei metri dal Novecento e che lo ha reso immortale. La Storia era già tutta lì. In posa, nuda e pronta a concedersi ai suoi riflessi. Great job, Mr. Dominis.