Lo sport di fronte al bivio del climate change

Prima del malore di Jannik Sinner in finale, al torneo di Cincinnati si erano già ritirati in sette. Nessuno aveva mangiato la sua stessa torta. Qualche mese fa a Madrid era stato eguagliato il record nell’era Open del tennis: in nove non avevano finito la partita. Si gioca tanto, si dice. Come nel calcio. I Masters 1000 hanno allungato la loro durata fino a quasi due settimane. Il torneo di Cincinnati è cominciato quando quello di Toronto non era ancora finito. C’è poco spazio per recuperare, per riposare, per dormire bene. Tutto vero. Eppure, c’è dell’altro. Lo dicono certe scene viste in Ohio. Daniil Medvedev è corso a mettere la testa nel frigorifero, Sascha Zverev si è dovuto sdraiare all’ombra, Arthur Rinderknech è andato a rifugiarsi a bordo campo con un asciugamano sulla faccia. Una quarantina di giorni fa, Aryna Sabalenka ha dovuto mettere la borsa di ghiaccio sulla testa tra un cambio di campo e l’altro a Wimbledon, sempre lei ha portato delle bottiglie d’acqua in tribuna per soccorrere una persona colta da un malore. A tennis si è sempre giocato sotto il sole, ma stare all’aperto oggi non è la stessa cosa di dieci, venti, trent’anni fa. Secondo i dati del servizio meteo nazionale USA, la temperatura media annuale a Cincinnati è cresciuta di 3 gradi rispetto al 1995. Il 2024 è stato l’anno più caldo nella storia della città. Paolo Bertolucci ha scritto su X che “i giocatori hanno le loro colpe. Accettano i tornei di 10 giorni in cambio di più soldi e giocano la finale alle 15 per raggiungere in serata New York e giocare il ricchissimo misto”. È lo sport ai tempi del cambiamento climatico. Il grande circo di palloni, macchine, moto, racchette sta facendo una grossa fatica a leggere e interpretare la nuova scena, a convivere con la sofferenza del pianeta, a far combaciare il vecchio schema di eventi e calendari con lo stravolgimento delle stagioni. La chiamiamo emergenza, ma gli esperti dicono che si tratta di una nuova normalità, siamo obbligati a prendere le misure Il comitato olimpico tedesco e il ministero dell’ambiente hanno organizzato nel mese di maggio una conferenza per discutere dell’adattamento alla nuova realtà. Non è solo una questione di colpi di calore. Le inondazioni in Germania hanno distrutto le strutture per la canoa e il canottaggio. La stagione di Coppa del mondo degli sport invernali è regolarmente stravolta per ragioni diverse e opposte, una volta per una tormenta, un’altra perché la neve è molle. La natura si è ribellata all’idea dell’uomo di organizzare gare transfrontaliere sul ghiacciaio di Zermatt, fra l’Italia e la Svizzera: ogni volta ne capita una. Secondo uno studio dell’Università di Waterloo, in Canada, entro il 2100 una stazione sciistica su otto in tutto il mondo potrebbe non avere neve: solo una delle 21 città sede dei Giochi invernali negli ultimi cento anni avrà ancora un clima adatto entro la fine del secolo. Le maratone dei grandi eventi si corrono ormai regolarmente nelle ore più fresche del mattino. Il calcio ha già dovuto accettare di far slittare un Mondiale in inverno, pur di andare a giocarlo fra i dollari del Qatar, dentro stadi con l’aria condizionata. Il ciclismo si è dovuto dotare di un protocollo che prevede la sospensione delle corse in caso di eventi climatici estremi. Ci sono perfino discussioni filosofiche intorno a certe vecchie abitudini linguistiche: oggi non “maltempo” solo una giornata di pioggia, oggi è “maltempo” pure una giornata sopra i 40 gradi. Secondo i ricercatori dell’Università dello Utah, le discipline estive all’aperto diminuiranno del 18 per cento nei prossimi trent’anni. Il surf è in pericolo per l’innalzamento e l’acidificazione degli oceani. Nel baseball discutono del fatto che la percentuale cresciuta di fuoricampo sia dovuta all’aria rarefatta: c’è meno resistenza al passaggio della palla. Il riscaldamento globale ha portato una media di 58 fuoricampo in più. Ci colpiscono le immagini di Zverev e Sabalenka, siamo scioccati dal malore di Sinner, ma se potessimo vedere in fotografia le condizioni di salute della Terra, il rapporto causa-effetto si invertirebbe. Non è solo la crisi climatica a condizionare lo sport, dicono gli esperti, bisogna anche chiedersi quanto lo sport stia incidendo sulla crisi climatica, e che cosa abbia intenzione di fare. Uno studio degli uffici dell’Unione europea ha appurato che le Olimpiadi di Rio del 2016 hanno rilasciato 3,6 milioni di tonnellate di CO2, i Mondiali di calcio in Russia del 2018 sono arrivati a 2,16 milioni. Equivalgono alle emissioni di gas serra di oltre 465.000 automobili in circolazione per un anno intero. Gli organizzatori sportivi più sensibili stanno provando a correggere le cattive abitudini. Le Olimpiadi di Parigi sono state le più attente al clima. I calendari della F1 e della MotoGP sono stati riscritti concentrando gli eventi vicini nello stesso periodo, per ridurre continui viaggi in aereo da un continente all’altro. António Gonçalves Pereira, ambasciatore per lo European Climate Pact, ha elogiato quelle categorie di motori che cominciano a usare auto ibride nelle competizioni. La canoista slovena Urša Kragelj ha incoraggiato atlete e atleti a impegnarsi di più. Le stelle dello sci hanno firmato un anno fa un documento per chiedere alla federazione internazionale di fare qualcosa. Gli otto ritiri di Cincinnati dicono che nessuno può più sottrarsi.

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Lavinia Esposito