"Il basket, la chiesa mormone e il mullet": Zac Seljaas si racconta

Bisogna ammetterlo, certe volte è il look la prima cosa che viene notata. Se sei uno sportivo, in determinate occasioni l'aspetto viene anche prima delle performance. Così il profilo dell’Asvel prima e quello dell’Eurolega poi, hanno celebrato il trionfo dei francesi contro Dubai il 23 ottobre. Lui è Zac Seljaas, giocatore statunitense della compagine di Tony Parker, un centro alla prima stagione Eurolega dopo qualche anno in giro per l’Europa. Per essere la sua annata d'esordio nel massimo torneo per club, non sta andando affatto male, viaggiando a 9.8 punti di media e 9.5 di valutazione. Eppure, è il suo taglio di capelli, un mullet molto anni ‘80, a parlare prima delle sue statistiche. La chiacchierata con lui parte da qui: “Mullet? Ho visto molte foto di mio papà e dei suoi coetanei, sono stati loro ad ispirarmi ma immagino che vedere un mullet nel 2025 sia un po’ strano. So che a volte il mio taglio di capelli e il mio look ricevono più attenzioni delle mie performance cestistiche ed è divertente anche solo da pensare. Il taglio, e il baffo, mi rispecchiano. Dicono esattamente chi sono io e mi differenziano dagli altri”, racconta. Un taglio di capelli che nasce da una foto di famiglia. Tutto parte da qui. Questo dice veramente chi è Zac Seljaas. “La mia è una famiglia di cestisti. Ho un fratello e due sorelle, tutti maggiori. Mia sorella ha giocato al college ad alto livello e ora è un’allenatrice, anche se dice di essere una tiratrice migliore di me. Mio fratello è uno psicologo dello sport e lavora con tanti cestisti. Mio padre ha giocato, mio nonno giocava al college. C’è tanto basket nella mia famiglia ma è anche bello essere il primo professionista in casa. Avere queste esperienze vicine mi ha aiutato tanto nella mia carriera”. Suo nonno, Carlos Asay, ha giocato per la University of Utah, i “Running Utes’ che militano oggi in Division 1. Sua sorella Nancy ha giocato per la BYU, i "Cougars", lo stesso college e la stessa squadra di Zac, 14 anni più giovane. BYU, sigla che sta per Brigham Young University e che ha preso il nome da Brigham Young, secondo presidente della Chiesa Mormone. “La BYU è un normale college di Division One. Una scuola privata fondata dalla Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni quindi sì, ci sono classi legate alla religione. Ma non si limita solo a questo, non è solo per i membri della comunità, è aperta a tutti. La chiesa mi permetteva di avere sia la vita scolastica che quella cestistica, era parte del mio percorso ed è stato bello poterla vivere così intensamente in quegli anni”, spiega. Ma come funziona un’università di questo tipo? L’apprendimento è la somma dell’istruzione accademica e dei principi della fede e della Chiesa. Chi si laurea in un’Università come la BYU sarà formato dunque su principi accademici ma anche su quelli spirituali e morali. Nelle università mormoniche, poi, si può scegliere di servire la causa religiosa, andando in missione: “Le missioni durano due anni, nel mio caso uno solo. Sono andato in Iowa, a De Moines. Trascorso l’anno, sono tornato subito al basket. La missione è stata importante, sentivo la necessità di farla. È stato l’anno più tosto ma decisamente il migliore della mia vita”. Ma in BYU, o in generale nelle università mormoniche, l’anno in missione sono paragonabili, con le dovute proporzioni, ad uno stage? “In missione, il nostro lavoro è di avvicinare la gente a Gesù Cristo, aiutiamo chi ha bisogno e chi vuole capire la sua storia. Non vogliamo convertire nessuno. Quando io l'ho fatta non potevo avere nessun tipo di comunicazione con casa se non una volta a settimana, via email. Oggi i tempi sono cambiati, puoi avere un cellulare, effettuare chiamate e mandare messaggi. Quindi sì, è stata tosta ma anche importante. Mi sono focalizzato sul processo e sul lato religioso, non su scuola, basket e lavoro. Aiutare gli altri ha aiutato me, ho capito che persona voglio essere e cosa voglio raggiungere nella vita. Andare in missione mi ha aiutato a diventare un giocatore migliore e infatti, due anni dopo la laurea e dopo la carriera del college, sono arrivato in Europa”. Dopo aver iniziato dalla Slovacchia, al primo anno da professionista nel 2020, essere passato in Georgia e in Germania, quest’estate è approdato all’Asvel di Pierric Poupet. “L’Eurolega è un grande passo nella mia carriera", spiega. "Il mio approccio è stato: “andiamo e vediamo come va, senza rimpianti”. Ho pensato che se ci riesco, posso continuare a farlo. Se fallisco invece ho comunque l’opportunità di giocare a questo livello e dare tutto”. In estate era stato avvicinato alla Virtus Bologna, ma erano soltanto dei rumors di mercato. Seljaas non ha mai parlato con nessuno della Bologna bianconera, anche perché, per lui e la sua famiglia, scegliere una squadra è una questione complicata. “Quando una squadra mi chiama perché interessata a me, sapere di avere una chiesa nei paraggi diventa un fattore. Perché io e la mia famiglia vogliamo continuare a sentirci a casa ovunque siamo. L’Asvel è stata una grande scelta. Ho sempre saputo che con la mia carriera avrei conosciuto posti e città nuove, ma ci sono sempre delle connessioni, dei legami, da mantenere. Ovunque io sia, ho bisogno di sapere che c’è una chiesa pronta ad aprirmi le porte, di sapere che c’è qualcuno pronto ad aiutarmi nel caso ne avessi bisogno. In quel caso mi sentirò a casa, ovunque il basket mi porterà". Il mondo è grande ma a volte è anche molto piccolo e le storie di basket, di sport in generale, ci insegnano che la capacità di adattarsi a luoghi, situazioni, culture è una dote da avere nella vita. Come canta una canzone: “You can change your hair, you can change your clothes, but you’ll always find a way back home”, tradotto: puoi cambiare taglio, puoi cambiare abbigliamento, ma si troverà sempre una via per tornare a casa. “Il mio look è cambiato e si è evoluto negli anni, al mio senior year al college ho iniziato con mullet e baffi. Ho dato un taglio drastico solo l’anno successivo, perché me l’ha chiesto mia moglie. Quando ci siamo trasferiti in Slovacchia, per il mio primo anno da professionista, ho tagliato ancora mullet e baffi e mi sono fatto crescere la barba ma non era “il mio”, quindi sono tornato al mullet. E se mia moglie dovesse dire qualcosa? Terrò il mullet. Mi rispecchia troppo”.

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Giulia Cicchinè