Il sorriso fragile di Ronaldinho compie 45 anni: tanti auguri a un campione infinito

Una volta la zona di Castelldefels, il borgo marinaro a sud di Barcellona in cui vivono molti giocatori del club blaugrana, venne spazzata da un temporale violentissimo che causò parecchi danni. Fra questi, il vento sradicò una palma nel giardino della villa di Ronaldinho, con grande spavento del giocatore che, una volta passata la buriana, telefonò ai pompieri per farsi mettere la proprietà in sicurezza. Questi arrivarono con la sollecitudine che si deve all’ospite più famoso della cittadina - anche Messi aveva casa a Castelldefels, ma non era ancora al livello di Dinho - segarono il tronco della palma in più parti, lo caricarono sul loro coloratissimo camion, il tutto seminando quella misteriosa allegria che i pompieri sempre suscitano nei bambini e negli animi sensibili. Ronaldinho all’epoca era un po’ entrambe le cose, e al momento dei saluti pregò i vigili del fuoco di restare a pranzo, perché si voleva sdebitare: ovviamente gli bastò una telefonata per fare arrivare il pesce più fresco della costa e imbandire una bella tavolata nel giardino rimesso a nuovo. Nel racconto che i pompieri fecero agli amici - e da lì la cosa arrivò alle orecchie della stampa catalana, che ne scrisse - Ronaldinho non ne voleva sapere di lasciarli andare: cominciò a palleggiare per il loro divertimento, organizzò una partitella nel campo di calcetto della villa, raccontò storie del Barça e si fece raccontare dei salvataggi più spericolati e degli incendi più pericolosi. Occupò così quella che in tutta evidenza era una giornata libera dagli allenamenti, e nella quale non avrebbe saputo che altro fare. Perché Ronaldinho - notarono i pompieri - in quella grande tenuta era completamente solo. Naturalmente i particolari di questa storia, che in quegli anni viaggiava a Barcellona di bocca in bocca, vanno presi con beneficio d’inventario per l’impossibilità di avere un riscontro reale. Descrivono però l’animo di un campione grande ma breve nel suo picco di magnificenza, intimamente diverso dall’immagine di ostentata allegria che ha sempre dato di sé, e vicino piuttosto alla tristezza del clown dietro alla maschera. Sono stato testimone diretto di un altro momento in cui Ronaldinho liberò la sua umana amarezza, ma ve lo racconterò più avanti, in fondo a questo ricordo/augurio dedicato a un grande campione: oggi infatti compie 45 anni, li festeggerà da qualche parte nel mondo, che continua a girare portando la sua popolarità nelle amichevoli fra ex-giocatori di pregio che pullulano in giro, specie nei luoghi meno abituati al grande football. O magari sarà andato a trovare il figlio Joao Mendes, che dopo essere cresciuto nel Barcellona gioca ora nel Burnley, nella Championship inglese. La prima volta che ho visto Ronaldinho dal vivo è stato al Mondiale 2002, l’ultimo vinto dal Brasile, nel quale il suo talento da trequartista funzionava da sontuoso trampolino di lancio per Ronaldo e Rivaldo. I premi individuali di quella rassegna andarono a Ronaldo e a Oliver Kahn, il portiere della Germania , ma non è azzardato dire che Ronaldinho li avrebbe meritati di più, e non solo perché un suo gol su punizione permise alla Seleçao di prevalere sull’Inghilterra nel match più complicato del suo torneo, il quarto di finale. No, Ronaldinho fu un’inesauribile fonte di palle gol e giocate spiazzanti: nel primo tempo della finale di Yokohama servì a Ronaldo due assist visionari, due bombon che l’asso - all’epoca dell’Inter - non riuscì a convertire. Ma siccome tutto è bene quel che finisce bene, ricordo la lunga attesa del dopo-gara in zona mista, e infine l’uscita di Ronaldinho con un tamburo a tracolla, e dietro di lui veniva Kleberson con le maracas, e il concerto improvvisato dai neo-campioni del mondo resta davvero qualcosa di indelebile. Venne poi un’altra serata da sogno, forse la massima: il 19 novembre 2005 il Barcellona diede una lezione di calcio a casa del Real Madrid, 3-0 con gol iniziale di Eto’o innescato dal giovanissimo Messi, e doppietta celestiale di Ronaldinho. Due fughe sulla fascia mancina saltando avversari in quantità per poi convergere al centro e infilare Casillas, la prima volta sulla sua destra, la seconda sulla sua sinistra. E alla seconda immensa prodezza la gente del Madrid dietro alla porta, che l’aveva maledetto a suon di gestacci dopo la prima rete, si alzò in piedi per applaudire la grandezza di Ronaldinho, e poi si unirono i tifosi in tribuna, nell’altra curva, nell’intero stadio. Una standing ovation da parte del Bernabeu sconfitto è una medaglia rara, da conservare con cura come fanno i tre campioni italiani che l’hanno vissuta, Del Piero, Totti e Pirlo. Se ti succede con la maglia del Barcellona, l’eterno rivale del Real, è un privilegio ancora più significativo: prima di Ronaldinho era toccato a Maradona, poi soltanto ad Andres Iniesta, il cui gol mondiale gli vale un amore infinito in ogni angolo di Spagna. Quell’anno Dinho vinse il Pallone d’oro, che all’epoca si assegnava ancora nell’arco dell’anno solare, e non stagionale come in effetti è più opportuno. Buon per lui perché in fondo a quella stagione, ricca della Liga e della Champions vinta a Parigi in finale sull’Arsenal, venne la delusione che gli accorciò bruscamente la carriera, ovvero il Mondiale tedesco che doveva celebrare il “quadrato magico” del Brasile e si trasformò invece in un clamoroso flop. La spedizione si arrese nei quarti alla Francia di Henry e Zidane, e la filosofia dominante del “joga bonito” volse in breve in un processo alla dolce vita nel ritiro della Seleçao. Se si esclude Kakà, sempre distante da certi eccessi, il palmares festaiolo di quei campioni era notorio. Ne conseguì uno stigma che chiuse le varie carriere in nazionale , e psicologicamente costò molto a Ronaldinho, ancora all’altezza per un anno a Barcellona, e poi in rapida parabola discendente. Lo stesso passaggio crepuscolare al Milan, pur nobilitato da un gol decisivo in un derby, ha lasciato scarse tracce. Dinho arrivò in Italia nel 2008, dopo un’ultima stagione blaugrana di poche luci e tante ombre, alla ricerca di un se stesso perduto e che tanto lo angustiava. A questo proposito, un giorno di primavera aspettavo Iniesta per un’intervista fuori dalla sala Londres, nel ventre del Camp Nou. La posizione era esattamente sopra il camminamento che portava dagli spogliatoi al parcheggio dei giocatori, e a un certo punto Ronaldinho uscì con la sua borsa da toilette e si diresse verso la macchina. Sul percorso c’era una donna intenta alle pulizie, un’immigrata dal Sudamerica. Salutò il campione con un sorriso aperto - probabilmente lo incrociava quotidianamente lì - e Dinho si fermò a parlare con lei. Durò circa un minuto, e con una insospettabile confidenza la donna raccontò qualcosa della figlia che grazie ai suoi sacrifici poteva studiare, e lui ricambiò descrivendo la tristezza di non riuscire più a dare al Barcellona le giocate di un tempo. Un incontro breve fra la speranza e il magone, un incrocio superiore alla differenza di classe sociale, una sensibilità fragile e nascosta. Buon compleanno Ronaldinho.

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