Il trionfo del calamaro: la pazza storia del Platense, campione dell'Apertura in Argentina

C'è stata un'altra finale nel weekend de ‘La Finale’. Una finale inedita, o quasi. Una finale che si è piazzata praticamente al polo opposto rispetto a quella di Monaco di Baviera, non perché assegnasse un titolo di secondo piano, ma perché ci arrivavano due outsider impronosticabili, con le loro storie, le loro particolarità, e in definitiva il loro fascino, molto più popolano che non patinato. Stiamo parlando della finale del Torneo Apertura 2025, che sarà anche stato l'ennesimo stravolgimento nei format sempre più macchiettistici che caratterizzano l'attuale calcio argentino ma che, forse paradossalmente e persino involontariamente, ha riportato quel fútbol unico al mondo a riproporre un gusto forte, antico, totalmente proprio. L'unico peccato, stando su questa linea sentimentale, è che Platense-Huracan si sia giocata a Santiago del Estero, in uno stadio bello, capiente e moderno, ma distante un migliaio di chilometri dal cuore di Buenos Aires dove albergano i fieri, caratteristici e a loro modo storici quartieri che rappresentano il mondo di questi due club. Ma anche questo è stato un neo coperto molto presto dall'entusiasmo popolare, perché lo spettacolo offerto sugli spalti dalle tifoserie del Globo e del Calamar è stato totale. E sul prato si sono intrecciate una miriade di vicende che val la pena di assaporare... tra cavalli e calamari Huracan-Platense, si diceva. La finale. La partita secca che assegna il titolo dopo un tabellone a eliminazione diretta in cui tutti i pronostici sono saltati, e di fatto è successo anche nell'ultimo atto… perché ci si aspettava probabilmente che a vincere il trofeo potesse essere l'Huaracan di Kudelka, club di solida tradizione e che grazie al calcio fine e profondo promosso dal suo tecnico è riuscito ad andare oltre le difficoltà economiche ormai croniche, arrivando a novanta minuti dal poter tornare a conquistare un campionato che gli mancava dal Metropolitano del 1973, da quello straordinario trionfo targato Flaco Menotti, Alfio Basile, Miguel Brindisi, Carlos Babington. E che continua a mancargli, perché la finale dell'Apertura 2025 l'ha invece vinta il Platense, ottenendo il primo alloro della sua storia. Una storia iniziata esattamente centoventi anni fa, nel 1905, grazie a un sogno e a una scommessa fortunata: un gruppo di ragazzi di Recoleta – quartiere elegante e dall'architettura molto parigina del centro di Buenos Aires – si era messo in testa di fondare un club calcistico. Mancavano però ovviamente i fondi necessari e il piano per trovarli fu quantomai ardito: andarono all'Ippodromo Nazionale del quartiere di Palermo e puntarono tutti i loro averi sul cavallo Gay Simon. Che vinse la sua corsa, lasciando ai ragazzi una cifra tale da poter comprare una muta di maglie, un pallone e una pompa per gonfiarlo. Le maglie originali erano rosse e nere come la giubba del fantino che aveva guidato Gay Simon al trionfo, poi però furono scelte delle divise che riprendevano il colore della scuderia proprietaria del cavallo vincente, dando così alla loro squadra quella maglia bianca e marrone più unica che rara nel mondo del calcio. E anche il nome della scuderia che aveva trasformato il loro sogno in realtà: Platense, appunto. Una genesi da romanzo, ma di storie così se ne trovano un po' scavando nel calcio degli albori. È molto più difficile trovare un soprannome, un apodo come quello che quasi subito fu affibbiato al club: el Calamar, il calamaro. Questo perché, una volta fondata la squadra, definite le divise e gonfiato il pallone, il Platense doveva trovarsi un campo di gioco, e la scelta cadde obbligatoriamente su di un terreno situato ai bordi di un corso d'acqua. Che nei giorni di pioggia esondava, rendendo il campo assai fangoso. Leggenda vuole che in quelle condizioni i giocatori del Platense dessero il meglio di sé, tanto da spingere un cronista locale a scrivere che “in mezzo a quell'acquitrino, quei giocatori insozzati dal fango si muovevano con sorprendente agilità, como un calamar en su tinta”. Come un calamaro nel suo inchiostro. Da lì, per tutti e per sempre, El Calamar. I centoventi anni di storia calcistica del Club Atletico Platense hanno avuto momenti di legittimo orgoglio, anche se con il passare degli anni la sede del club si è spostata dal centro della capitale ai suoi bordi, e ormai dalla fine degli anni '70 è fissata nella zona nord della Provincia di Buenos Aires: ha avuto giocatori importanti come Claudio Borghi, il ‘Feo’ Larbuna e Gonzalo Bergessio; ha dato i natali sportivi nientemeno che a David Trezeguet che nel club ha fatto tutto il settore giovanile e il debutto professionistico; ha giocato numerose stagioni in Primera; ha anche all'attivo una storica vittoria a San Siro contro il Milan del trio svedese nei primi anni '50 e più volte ha sfiorato la gloria nazionale. Senza però mai centrarla, fino alla sera del 1 giugno 2025. La finale contro l'Huracan è un inedito assoluto se parliamo di tornei ufficiali, anche se un precedente che merita di essere raccontato c'è: i due club si erano già sfidati nell'atto conclusivo della Copa Adrian C. Escobar del 1943, un torneo lampo che in quel tempo di disputava nel giro di qualche giorno a Buenos Aires. Aveva, questo torneo, il riconoscimento della federazione ma proponeva regole piuttosto particolari: le partite si giocavano sulla distanza di due tempi da venti minuti, in caso di pareggio erano previsti due tempi supplementari da dieci minuti ciascuno e in caso di ulteriore parità non si procedeva ai tiri di rigore, bensì veniva dichiarata vincitrice la squadra che avesse ottenuto il maggior numero di calci d'angolo. E così fu in quella finale Huaracan-Platense del '43: 0-0 e coppa al Globo, che nei sessanta minuti di calcio giocato aveva ottenuto quattro corner contro uno. Diciamo che la propensione degli argentini a sperimentare parecchio con i format e le regole in tema di calcio ha radici molto antiche... Protagonista… in bicicletta È stata invece un finale con tutti i crismi quella che ha portato il Calamar a vincere il suo primo titolo nazionale. Una bella partita, molto argentina, con intensità costante, un bel po’ di botte, momenti di buon calcio e tanto cuore. L'ha decisa peraltro un gol splendido, un formidabile tiro all'incrocio dell'ala destra Guido Mainero a metà secondo tempo. Mainero è un trentenne cordobese, cresciuto nel mito dell'Instituto di Cordoba e nel sogno di poterci un giorno giocare. Sogno però foderato di senso pratico, perché è vero che dopo aver fatto tutte le giovanili nel club del suo cuore – peraltro negli stessi anni in cui vi cresceva anche Paulo Dybala – era persino riuscito a debuttare in prima squadra nella seconda divisione argentina. Però le cose non si stavano mettendo molto bene: il progetto del nuovo allenatore non sembrava comprenderlo, e lui – che pur essendo un calciatore professionista ormai di vent'anni andava tutti i giorni al campo di allenamento con la sua bicicletta gialla – aveva già organizzato il piano B: la mattina si allenava e il pomeriggio lavorava in una fabbrica di guarnizioni. Era il 2016, anno in cui di fatto cambiò tutto. Perché l'allenatore – a causa di risultati disastrosi e della crescente ira della piazza – fu quasi costretto ad affidarsi ai talenti del vivaio: Mainero sfruttò bene il suo momento, l'Instituto gli fece un nuovo contratto, il lavoro in fabbrica diventò presto un ricordo, la bicicletta gialla finì in garage al fianco della sua nuova auto e meno di un decennio dopo tutto il mondo ha visto le sue lacrime di gioia al termine di una finale vinta grazie a una sua prodezza. Anche se le parole a caldo sono state tutto tranne che una celebrazione della sua conquista personale: “No, non l'ho vinta io questa partita, l'ha vinta un gruppo straordinario”. Il gruppo del grande capitano ‘Nachito’ Vazquez, leader di una difesa dai numeri straordinari che meno di due settimane prima era diventato virale per la protesta più composta e allo stesso tempo impattante dei tempi recenti: dopo l'1-1 nei quarti di finale contro il River, nel momento del sorteggio per definire l'ordine di battuta dei rigori, il capitano del Platense ha partecipato al rituale senza mai rivolgere né la parola né lo sguardo allo sbigottito arbitro Yael Falcon Perez, reo – a suo parere – di aver regalato al poderoso River Plate il penalty della salvezza in pieno recupero. Per poi presentarsi per primo sul dischetto con l'espressione da Terminator, scaricare in porta un tiro furibondo capace di piegare le mani del portiere Armani, e sfogare il tutto con un urlo a pugni stretti rivolto verso il direttore di gara. Più che un'esultanza, un grido di guerra. Guardatevi il video di quei momenti: capirete subito il carattere, lo spirito ma anche la fortissima carica umana del capitano del Platense e di tutta la sua banda... Due allenatori Una banda orchestrata da un corpo tecnico che a sua volta presenta una particolarità notevole. Perché il Platense non ha un allenatore: ne ha due. Alla pari. Sono Sergio Gomez e Favio Orsi, diversissimi nell'aspetto ma praticamente gemelli in tutto il resto. Si sono conosciuti nel 2011, entrambi reduci da carriere calcistiche molto lontane dai grandi livelli. A unirli fu tal Oscar Santangelo, che nel 2011 aveva firmato come allenatore del Fenix nella quarta divisione del calcio argentino: stava formando il suo staff e li inserì entrambi. Poco più di un anno dopo, Santangelo fu esonerato e la squadra passò a loro, che sempre in simbiosi hanno prodotto una straordinaria cavalcata salendo in terza divisione, poi in seconda. Fino ad arrivare al 2022 con l'opportunità di allenare in Primera: gliela fornirono il Godoy Cruz, che riuscirono a risollevare anche grazie a una grandiosa vittoria per 2-0 sul River Plate al Monumental. Accompagnata da questa dichiarazione: “Se non vinci in campi come questi non riesci a salire di livello, perché, alla fine, di quello che perde non parla nessuno”. Una sentenza che fotografa solo una parte del modo di essere di Gomez e Orsi. Quella della preparazione e della convinzione che tramite essa si possa superare qualsiasi limite. Cosa che peraltro il loro Platense ha fatto ripetutamente in questo semestre storico, visto che la fase a eliminazione diretta dell'Apertura lo ha visto eliminare in serie tre grandi del calcio argentino come Racing, River e San Lorenzo prima di battere l'Huracan in finale. Il tutto subendo un solo gol in quattro partite, peraltro su rigore inesistente. La sincerità dell’essere campioni Ma non bisogna pensare che ci sia arroganza dietro a questa convinzione. Al contrario, c'è un atteggiamento sempre molto umano, sincero, inevitabilmente attaccato alla sostanza delle cose prima che alla loro forma. Lo hanno confermato in modo lampante anche i giorni più importanti della loro carriera e della storia del club che hanno portato alla massima gloria, ovvero quelli che hanno preceduto la finale. Giorni in cui le conferenze stampa sono state sempre rilassatissime e tutti gli allenamenti aperti a stampa e tifosi, cementando e mostrando quell'ambiente familiare che è stata la chiave primaria grazie alla quale il Platense è diventato campione d'Argentina. Con due allenatori, un goleador ciclista e operaio, i colori e il nome di una scuderia di cavalli di oltre un secolo fa, un soprannome tanto ridicolo da diventare un vanto e centoventi anni di esistenza. Iniziati grazie a una scommessa vinta da dei ragazzi all’ippodromo e culminati in una storia che ci ricorda come il calcio, anche quando sembra diventare sempre più show o addirittura business, rimane sempre, a tutti i livelli, il gioco della gente.

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Il trionfo del calamaro: la pazza storia del Platense, campione dell'Apertura in Argentina

Stefano Borghi