Premier, come Arteta sta uscendo dall'ombra di Guardiola. Domani c'è Arsenal-City

Di lui dicevano che fosse un ‘piccolo generale’, un ‘Napoleone’ lo chiamavano quando si piantava in mezzo al campo e distribuiva idee ai compagni insieme ai palloni. Tu qua, tu là, resta, sali, andiamo. Se un tipo così vede il gioco in quella maniera, tutti pensano che quando avrà smesso di tenere le scarpe ai piedi diventerà un allenatore, un grande allenatore. È un luogo comune nove volte su dieci. Mikel Arteta è stato la decima. Otto mesi dopo essersi seduto sulla prima panchina della sua carriera, stava già festeggiando una Coppa d’Inghilterra, nella stessa squadra dove gli davano del ‘Napoleone’. L’Arsenal non vince il campionato da vent’anni ma con Arteta c’è andato per due volte a tanto così, lui più vicino di tutti i suoi predecessori. Nel posto dove secondo la tradizione e secondo cori delle curve avversarie si giocava il calcio più noioso d’Inghilterra - Boring Boring Arsenal - ha portato il vento nuovo della tecnica e della creatività, un calcio senza paura, libero nei pensieri, un calcio che accetta e ama la sfida a campo aperto. I sogni di Mikel Arteta sono fatti della stessa natura dei sogni di Pep Guardiola, condividono la stessa idea del gioco, guidano le loro squadre come se fossero seduti davanti a una scacchiera, ma da tempo non è più il suo apprendista, da tempo è l’avversario che gli entra nella testa, sa come pensa, sa come prenderlo. È stato accanto a lui per tre anni e mezzo, nel suo staff, con gli occhi spalancati sin dal primo minuto. Arteta girava tra gli uffici all'interno dell'Etihad Campus del club per capire come funzionava ogni cosa, come poteva imparare un dettaglio da qualcuno, da chiunque. Portò a Pep uno studio di 80 pagine sulle tipologie di giocatori che meglio si erano combinate nelle grandi squadre, quelle che nella storia del calcio hanno stabilito un’egemonia. Una serie di istruzioni dettagliatissime su cosa l’area scout avrebbe dovuto cercare, questo sì, quello no. Convinse Guardiola a fidarsi dell’acutezza del suo sguardo nella scelta dei giocatori. Aveva l’intelligenza di muoversi con un passo leggero, senza pestare i piedi a Domenec Torrent, che all’epoca era il più stretto confidente e collaboratore di Guardiola. Era molto rispettoso, così divenne naturale diventare il collaboratore numero uno quando Torrent se ne andò per allenare il New York City, uno dei club gemelli del Manchester, stessa proprietà. È stato quello il momento dell’ultimo passaggio, il salto da una funzione supplementare a un’altra complementare, il balzo da aiutante a cooperatore. Era nota la freddezza di Guardiola verso i calci da fermo, ma Arteta riteneva che fossero un aspetto decisivo del gioco contemporaneo, un aspetto poco allenato al City. Spinse per l'assunzione di uno specialista. Andarono a prendere Nicolas Jover dal Brentford, in serie B, lo fece arrivare per un colloquio nella sua villa alle isole Baleari. Guardiola si fidò, come si fidò pure dei dati e del lavoro con cui Arteta dimostrava che più cresceva la difficoltà di una partita e il livello di una competizione, meno tempo c’era a disposizione dei giocatori per andare al tiro dalla zona in cui più spesso la squadra segnava un gol. Aveva calcolato i tempi variabili e aveva creato con un allenatore delle giovanili un esercizio per lavorarci in allenamento: gli attaccanti dovevano eseguire uno sprint ad alta intensità e poi eseguire un'azione all'interno di un quadrato, ovviamente sotto il pressing di tre o quattro difensori, entro un certo numero di secondi limitato. Gabriel Jesus passò nel giro di un anno da 7 gol a 13, Sané da 5 a 10, Sterling da 7 a 18. Fu una sera intorno a mezzanotte che Arteta andò a dire a Guardiola che il tempo era venuto, se ne andava. Lo sapevano tutt’e due che prima o poi sarebbe successo. Mancava una settimana al Natale del 2019 e il City era metà del volo di ritorno da Oxford, dopo una partita nei quarti di finale della Coppa di Lega. Avevano vissuto un primo tempo più complicato del previsto ma avevano finito per vincere abbastanza comodamente, 3-1. Eppure, c’era un'atmosfera piatta a bordo dell’aereo, quell’aria grave così tipica delle più inesorabili sconfitte. Nello spogliatoio si era sparsa una voce. L’Arsenal aveva esonerato Unai Emery, le sensazioni erano diventate sospetti, i sospetti erano diventate voci, le voci erano diventate una certezza. Tutto nel giro di tre giorni. Da Londra lo avevano chiamato, toccava a lui. La squadra si era immalinconita per la separazione da un vice allenatore che veniva considerato quasi come un compagno, aveva ancora un gioco di gambe e una velocità di pensiero impressionanti, durante gli esercizi e le partitine. Sulla soddisfazione per la vittoria prevaleva la consapevolezza dell'importanza della sua partenza. Arteta va alla sfida con due punti di distacco in classifica. Andrà a prendere il City con un pressing altissimo per non lasciarlo costruire da dietro, come quando mise Kieran Tierney uomo contro uomo su Rico Lewis. Aspetterà che il City lanci lungo su Haaland per saltare il pressing e chiederà alla sua coppia di centrali Gabriel-Saliba una battaglia fisica contro il norvegese. Arteta non è così incline a sorprendere, al contrario di Guardiola, nelle partite importanti. Oggi anche Jover lavora con lui all’Arsenal e dall’estate scorsa si è fatto raggiungere da Raheem Sterling, che il Chelsea non vedeva l’ora di mandar via. Lo ha usato per un paio di manciate di minuti contro il Tottenham e contro l’Atalanta. Ma verrà il momento in cui diventeranno quaranta, e poi sessanta, forse addirittura novanta. E forse verrà pure il momento in cui al Manchester ricorderanno quel vecchio studio, quel vecchio esercizio, la goccia quotidiana e costante con cui Arteta sta scavando dentro la testa di Guardiola.

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