Che fine hanno fatto gli allenatori inglesi: viaggio al centro della crisi

Ci sono quattro italiani, due scozzesi, un francese, un portoghese, un cileno, uno spagnolo e un tedesco. Sembra l’inizio di una barzelletta, ma negli stadi inglesi non fa ridere per nulla. Infatti è l’elenco dei paesi di provenienza degli allenatori che negli ultimi 32 anni hanno vinto il campionato inglese: e tra loro, appunto, nessun rappresentante di quella terra, dove l’ultimo a trionfare è stato Howard Wilkinson con il Leeds nel 1992, quando la Premier si chiamava ancora First Division. Una specie di Brexit della panchina, con gli inglesi anche stavolta nella parte delle vittime con riflessi persino sulla Nazionale: per trovare il sostituto di Gareth Southgate per la terza volta hanno dovuto rivolgersi, come dicono loro, ‘Across the Channel’, Oltremanica. Passi per Sven Goran Eriksson e Fabio Capello, ma l’idea di far accomodare in panchina Thomas Tuchel, appare durissima da digerire per un popolo che, usando un sottile eufemismo, non ha grandi sentimenti di simpatia per i tedeschi. Il problema è che gli allenatori inglesi, da tempo, sono spariti dai radar dei club più importanti. Oggi in Premier ce ne sono solo quattro, quello posizionato meglio in classifica è Eddie Howe nono con il Newcastle. Nessun inglese allena squadra di vertice in Europa, né una Nazionale di primo piano: Steve McLaren, ex ct dei Tre Leoni, oggi allena la Giamaica, incarico di grande prestigio nel cricket e per gli sprinter dell’atletica leggera, ma nel football al limite del folkloristico. Scoprire i motivi per cui siano spariti gli strateghi inglesi nel calcio sarebbe difficile persino per un loro celebre connazionale residente a Londra in Baker Street: Sherlock Holmes. Il calcio l’hanno inventato loro e in passato hanno avuto autentici luminari del gioco, da Herbert Chapman inventore del Sistema con l’Arsenal al genio di Brian Clough capace di vincere due coppe dei Campioni con il Nottingham Forrest, ma ci deve essere una ragione per cui la bacheca della loro nazionale è ridotta all’osso della coppa Rimet del 1966. C’era Alf Ramsey, ct forse più fortunato che abile: miglior fortuna, probabilmente, l’avrebbe meritata Bobby Robson. A Nord del Vallo di Adriano si fa notare, con orgoglio, che molti dei più grandi tecnici britannici sono scozzesi. Come Matt Busby e Alex Ferguson, accumunati da un totale di 50 anni di successi con il Manchester United con cui hanno vinto 18 dei 20 titoli della storia del club. O Bill Shankly, capace di costruire il grande Liverpool poi dominatore in Europa tra gli anni ’70 e ’80. E ancora Jock Stein con l’impresa incredibile del Celtic: vincere una coppa dei Campioni schierando solo giocatori nati in un raggio di 30 miglia da Glasgow. L’Inghilterra ha, per distacco, il miglior campionato e, di conseguenza, la possibilità di attirare i migliori giocatori al mondo. Ma se questo ha fruttato un netto miglioramento nel livello tecnico della nazionale, due finali agli Europei e buonissime prestazioni al mondiale sotto Southgate, non altrettanto è accaduto con gli allenatori: prima di Tuchel l’interim come ct era stato dato a Lee Carsley, che aveva vinto l’Europeo Under 21, ma che nessun club di Premier aveva mai considerato. Salvo clamorosi imprevisti anche quest’anno la Premier sarà un affare tra il catalano Guardiola con il City, il basco Arteta con l’Arsenal, l’olandese Slot con il Liverpool, forse lo spagnolo Emery con l’Aston Villa e magari il greco-australiano Postecoglou con il Tottenham. L’ultimo inglese ad avercela fatta resterà ancora Wilkinson, nell’anno del Signore 1992. Per dire quanto tempo è trascorso basta ricordare che il buon Howard, il prossimo 13 novembre, spegnerà una torta con 80 candeline.

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