La storia e il significato dei capitani nel calcio

C’è capitano e capitano, nel calcio. Lo è stato Vinnie Jones, ricordato per la sua ferocia, la sua cattiveria, la sua mancanza di rispetto per autorità e autorevolezza altrui ma evidentemente dotato di capacità di condottiero e leader, se gli venne data la fascia allo Sheffield United, nonostante le sole 35 partite giocate, poi al Wimbledon, al suo ritorno nel 1992, e persino nel Galles, solo sette presenze ma elevazione al ruolo di maggior responsabilità al debutto da titolare, su votazione dei compagni di squadra interpellati dall’allenatore Bobby Gould. Che magari tanto neutrale non era, in quanto era stato tecnico del Wimbledon in occasione della prima permanenza di Jones nella squadra della Londra meridionale che aveva sconvolto equilibri e gerarchie, arrivando a vincere un indimenticabile FA Cup nel 1988 contro il favoritissimo Liverpool. Quel giorno, terminati in campo i festeggiamenti in cui Jones aveva portato Gould in braccio per qualche metro, il capitano era stato il portiere, Dave Beasant, e anche questo aveva costituito un elemento dirompente, non solo perché in quella finale Beasant aveva parato un rigore, prima volta che ciò avveniva in una finale a Wembley: ma Jones aveva dato i segnali di aggressività e capacità di farsi sentire in uno spogliatoio e in campo, anche se la sua immagine è viziata dalla foto in cui stringe i testicoli a Paul Gascoigne, emblema di un’epoca che nel suo caso è diventata anche emblema di una carriera. Capitani anomali, o forse no. Perché per essere capitani serve soprattutto essere “un leader assonante, aggregante, riconosciuto da tutto il gruppo e naturalmente dall’allenatore. Che sia empatico e che abbia voglia di mettersi sempre in gioco per proteggere i suoi compagni”. Sono le parole di Paolo Di Canio in uno dei momenti più significativi dello speciale, con l’aggiunta però di una precisazione sul fatto che le regole moderne suggeriscono l’opportunità di dare la fascia ad un centrocampista, più vicino al cuore del gioco e più in grado di accorrere dall’arbitro a dialogare, in modo esclusivo secondo le norme utilizzate durante Euro 2024. Regole moderne che riflettono, curiosamente, incroci particolari nati molto dopo la codifica del calcio. Perché se è vero che la figura del capitano fu tra le prime ad essere delineata nella consuetudine, quella dell’arbitro arrivò molto dopo e ne fu, curiosamente, influenzata. Agli albori del football infatti gli eventuali contatti di gioco esagerati venivano valutati proprio dai due capitani, che discutevano sulla soluzione da adottare. In seguito, furono impiegati due ‘umpire’, uno per ciascuna squadra , dotati di potere decisionale, ma si passò poi alla presenza di un ulteriore giudice, situato sulla linea laterale, al quale si faceva capo per la decisione finale. Quella specie di… Var dell’epoca, proprio dal verbo, divenne il ‘referee’, l’attuale arbitro, che è quindi una sorta di figlio spurio del ruolo di capitano. Ruolo che nel calcio è del resto salito a immediata importanza per influenza del cricket, dove il capitano, dagli inizi, sceglieva i lanciatori, l’ordine di battuta e la posizione degli esterni , oltre al controllo del rispetto delle regole, anche di quelle non scritte. E dal cricket è discesa anche la centralità del capitano come detentore di autorevolezza e influenza, prima di tutto morale: non per nulla, una ricerca di qualche anno fa sui capitani di 39 squadre del nordest inglese rivelò che tra il 1876 e il 1883 21 di loro erano insegnanti, nove curati o parroci, quattro medici, un chiarissimo segnale che per la figura di ‘captain’ si cercava chi avesse, nella pratica di tutti i giorni, l’abitudine a gestire persone o portare con sé un alto livello di responsabilità. Un tema che da etico è diventato estetico: perché l’uomo giusto veniva designato dai compagni di squadra o dall’allenatore per esperienza, carisma, affidabilità, ma l’abitudine a vederlo uscire per primo dal tunnel, pallone in mano come si fece a lungo, lo rese presto un simbolo di stile a prescindere dalle abitudini personali e dalla cura del proprio aspetto. In questo, esemplare Billy Wright, che ha indossato la maglia del Wolverhampton e della nazionale inglese per un totale di 595 partite: la maggior parte delle quali da capitano, 90 con l’Inghilterra, record poi uguagliato da Bobby Moore. E la sua immagine, chioma bionda ondulata e il sorriso pronto, ha costituito per anni, soprattutto in un periodo in cui le foto erano rare e ognuna di esse lasciava una traccia, l’emblema di una leadership decisa ma non ostentata, ancora più efficace se si pensa che il Wolves, con Wright come ‘skipper’, vinsero tre campionati e una FA Cup, e pazienza se proprio nel suo periodo la nazionale ebbe risultati inferiori alle attese, quando non deludenti, ai Mondiali 1950, 1954 e 1958 e nella celeberrima doppia sfida del 1953 contro l’Ungheria. In occasione della prima, il 25 novembre a Wembley, l’indimenticabile 6-3 a favore degli ospiti, Wright fu sì l’orgoglioso primo giocatore della fila di ingresso in campo, accanto al collega Ferenc Puskas, ma fu anche il malcapitato protagonista del gesto forse più famoso, il gol in cui proprio Puskas, ricevuta la palla verso la linea di fondo dal lato destro, la controllò con il sinistro, portandosela indietro, per colpire a rete sempre con il medesimo piede. Wright, simboleggiando al tempo stesso l’irruenza e l’impreparazione inglese - che Puskas fosse mancino era abbastanza risaputo, a chi studiava - si era gettato in scivolata per impedire un rapido tiro di destro e di fatto fece una figuraccia, rialzandosi e voltandosi a osservare la battuta a rete dell’avversario senza poter più fare nulla. Qualche mese dopo, in occasione della celeberrima amichevole Wolves-Honved, un’occasione ripresa e fotografata come poche altre in quegli anni, Wright e Puskas scesero in campo ancora fianco a fianco, contribuendo quindi alla creazione di un mito, quello dei capitani, identificabili per il volto e non per altro. Identificabili? Ecco, allora… “Lei non sa chi sono io”. La frase della peggiore prepotenza, autoreferenzialità, sfacciataggine. Una frase che nella realtà non viene quasi mai pronunciata con queste esatte parole, ma viene più spesso recitata, vissuta, interpretata, da chi si autoinvita a eventi, da chi esprime un parere senza essere interpellato, da chi ti manda link a propri articoli senza nemmeno chiedersi se ti interessino. Nel calcio, per parecchi decenni, il lei-non-sa-chi-sono-io poteva valere anche per i capitani delle squadre nelle mischie intorno all’arbitro: perché non esisteva la fascia e dunque nel caos al direttore di gara poteva essere sfuggita nel caos del momento l’identità del ‘captain’, che aveva comunque il compito del dialogo molto prima che le recenti regole, e solo parzialmente, glielo assegnassero in esclusiva. È interessante, la storia della fascia: secondo una ricerca del collega Paolo Maggioni, infatti, il primo esempio di obbligatorietà risale alla Serie A 1949-50, ma della ‘armband’ non ci sono tracce costanti in Inghilterra per parecchi decenni. La mise solo saltuariamente il già citato Wright, in nazionale, ma la mise poco o nulla anche uno come Puskas, che nella copertina del libro chiamato ‘Captain of Hungary’ figura come capitano non per la fascia ma perché… sta stringendo la mano al solito Wright. E ad esempio la foto più celebre del più prestigioso successo inglese - più prestigioso e pure unico - ovvero quello del Mondiale 1966, ritrae Moore, il Capitano per antonomasia del calcio inglese, con le maniche della bella maglietta rossa non disturbate da alcun tipo di fascia. Per paradosso, in occasione di grandi partite di club o nazionali l’identificazione del capitano avveniva per il gagliardetto che portava con sé, e che lo segnalava come addetto ai convenevoli con arbitro e collega avversario a portata di macchine da presa e fotogratiche. La fascia ce l’aveva Beasant, quel giorno di maggio del 1988 a Wembley: nera sulla maglia gialla, a ricevere così la coppa dalle mani della Principessa del Galles, Lady Diana, a cui il portiere del Wimbledon diede la mano destra, dalla quale si era rispettosamente tolto il guanto, rimasto invece nell’altra. Un gesto di riguardo per la Casa Reale che contrastò per un attimo con l’immagine anarchica della squadra, nata per caso e divenuta, in un’epoca in cui ancora non era chiara la potenza dei termini e della pratica, uno strumento di marketing, una brand identity - Vinnie e colleghi avrebbero peraltro giustamente preso a calci nel didietro chi avesse usato questi termini - protratta nel tempo con grandi risultati promozionali. Era il tempo in cui, appunto, la fascia cominciava a comparire sempre più spesso, anzi a diventare obbligatoria: e ora il regolamento della Premier League dice “il capitano di ciascuna squadra deve indossare una fascia, fornita dalla lega, che lo identifichi come tale”, e che è poi diventata nel tempo anche strumento di messaggi di vario tipo. Ma anche, come si diceva, un’aggiunta estetica di peso, tale da evidenziare ancora di più l’importanza di chi la veste. Con il paradosso che da sempre contraddistingue l’utilizzo di vesti, divise o abiti, a partire dell’antichissima pratica dei bersekir, i guerrieri nordici capostipiti dei cavalieri mediovali, di indossare pelli di animali feroci: ti senti un’orso dentro ma per farlo sapere ti vesti da orso, così il messaggio è chiaro. Poi, e lo dimostrano sia la storia sia un interessantissimo libro del giornalista Sam Walker, ‘The Captain Class’, autore di una ricerca dettagliata, il capitano non è necessariamente il leader più genuino, il giocatore migliore, il compagno di squadra più disponibile o educato. Non è nulla di preciso, anche se spessissimo risponde ai capi di favore elencati da Paolo Di Canio. E c’è poi la distinzione, importante, tra club captain e team captain. Il club captain rappresenta il club in campo ma anche fuori: le regole della Premier League ad esempio ne richiedono la presenza, assieme a quella dell’allenatore, all’incontro organizzato prima del via della stagione, e a volte anche a metà, in cui si delineano i principi e le nuove norme, alla giornata di riprese televisive che faranno da archivio per tutta l’annata e a qualsiasi udienza disciplinare riguardante un qualsiasi altro giocatore. Il team captain invece è quello che scende in campo con la fascia: può essere che i ruoli siano ricoperti dalla stessa persona ma nel frequente caso di indisponibilità subentra il vicecapitano, in entrambe le situazioni. E poi, per tornare al titolo dello speciale, c’è la prospettiva dello ‘skipper’: termine usato come sinonimo e che è decisamente rappresentativo del ruolo e del prestigio. È il capitano della barca, quello che la timona attraverso mari agitati e la conduce in porto. È anche, in teoria, l’ultimo ad abbandonarla in caso di guai, ed è anche per questo che l’espulsione di uno ‘skipper’, in una partita, rischia di avere contraccolpi pesanti. Se poi esce dal campo per scelta tecnica, e passa la fascia, allora la responsabilità è dell’allenatore. Che sul capitano conta molto: in un suo libro Alex Ferguson, il cui Manchester United era spesso composto da almeno 6-7 potenziali capitani, scrisse nel 2015 “sul campo, la persona che ha la responsabilità di far agire 11 giocatori come una squadra è il capitano. Anche se penso che alcuni vedano il ruolo come semplicemente onorifico, non lo è per niente. In termini aziendali, un capitano scelto per trasmettere al gruppo le idee dell’allenatore è l’equivalente di un dirigente di settore o caporeparto, responsabile dell’attuazione dei piani aziendali”

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