Frank McAvennie, il bomber 'sconosciuto'

Un lampo biondo, un sorriso smagliante. Ray Winstone, l’attore londinese specializzato in parti ruvide e grande tifoso del West Ham, quel tardo pomeriggio del 20 agosto 1985 ebbe un pensiero spontaneo, forse politicamente scorretto ma all’epoca la definizione di politicamente scorretto, fortunatamente, non esisteva: “Ma per l’attacco abbiamo preso una ragazza?”. La ‘calciatrice’ era Frank McAvennie, 25 anni, attaccante scozzese arrivato poche settimane prima dal St.Mirren, squadra in cui aveva segnato 48 in 135 partite nel giro di cinque anni. Deciso a farsi notare a tutti i costi, in ossequio ad una personalità estroversa e folgorante, McAvennie si era tinto i capelli di un biondo vivo e si era fatto lucidare i denti, tanto che Winstone, con esagerazione non incoerente con il personaggio, aggiunse di essersi dovuto mettere gli occhiali da sole per non essere accecato dal riflesso del sole su quegli incisivi così brillanti. Iniziò la partita, contro il Queens Park Rangers, e McAvennie segnò dopo soli 10 minuti, aggiungendo un altro gol al 66’: lancio lungo del terzino sinistro Steve Walford, corpo a corpo vinto con Terry Fenwick, difensore anche della nazionale, e palla depositata alle spalle del portiere Peter Hucker. In più, un momento che molti, compreso il diretto interessato, ricordano come decisivo: ad un certo punto, McAvennie, stanco dei continui calcetti che gli aveva dato il difensore Ian Dawes, approfittò di un’uscita di quest’ultimo palla al piede per una carica che lo spedì in mezzo al pubblico della Chicken Run, il settore di rettilineo, dal lato opposto della tribuna principale, che accoglieva alcuni dei tifosi più caldi. Dawes ci mise qualche secondo ad alzarsi e a liberarsi dall’abbraccio non proprio affettuoso dei supporter del West Ham e McAvennie fece capire ai suoi nuovi ammiratori di non essere solo un ottimo realizzatore ma anche un guerriero, uno che sul campo dava tutto. E per la maggior parte dell’esistenza del calcio inglese, prima della standardizzazione operata dai tempi moderni, quello era uno dei requisiti principali per entrare nel cuore e restare nella memoria dei tifosi. ‘Macca’ - soprannome tutt’altro che originale - capì e agì: prima di ogni partita diceva ai due difensori centrali, Alvin Martin e Tony Gale, di effettuare nei primi minuti di partita un lancio lungo, così da permettergli di entrare in modo deciso sul portiere avversario e fargli capire che quella non sarebbe stata una giornata comoda. “A quei tempi era quasi impossibile che l’arbitro ammonisse o espellesse qualcuno a partita appena iniziata, per cui io potevo caricare il portiere sperando che all’occasione successiva ci avrebbe pensato due volte prima di uscire - rivelò anni dopo a Tony McDonald e Danny Francis, autori del libro ‘Boys of ’86’ - Funzionava quasi sempre, anche se che qualche volta sono stato io ad avere la peggio, contro portieri grandi e grossi”. Nacque così la leggenda, perché leggenda davvero è stata, di Frank McAvennie, 26 gol in quella che si rivelò la miglior stagione nella storia del West Ham in campionato: a lungo primo in classifica, poi terzo, anche se all’ultima giornata c’era ancora la possibilità aritmetica della conquista del titolo. Arrivato come centrocampista offensivo, di supporto alla coppia di attaccanti formata da Tony Cottee e Paul Goddard, a causa dell’infortunio di quest’ultimo alla prima partita fu avanzato a seconda punta e lì esplose, formando con Cottee - 20enne di Forest Gate, dunque piena zona di tifo West Ham, 20 gol - una miscela inarrestabile nel 4-4-2 di John Lyall, con l’unico altro nuovo arrivo, Mark Ward, 23 anni, a creare opportunità sulla fascia destra e Alan Devonshire dal lato opposto. Neil Orr, scozzese, era il centrocampista di copertura, Ray Stewart il terzino destro, grande rigorista, tra i pali Phil Parkes, il 35enne baffone arrivato nel 1979 dal QPR per 650.000 sterline, all’epoca record mondiale per un portiere. Nove giocatori scesero in campo come titolari per almeno 38 delle 42 partite, tre di loro in tutte e 42, Walford in 27, il centrocampista Geoff Pike in 10 e tutti gli altri solo in una o due occasioni, con Lyall che oltretutto faceva un uso parsimonioso anche dell’unica sostituzione possibile: solo 17 volte su 42 ci furono cambi in corso, e quasi sempre per problemi fisici, essendo pressoché sconosciuta la teoria della modifica tattica tramite introduzione di un giocatore di abilità differenti. Per assurdo, accadde in quella prima partita, il 17 agosto a Birmingham: uscito Goddard al 65’, come avete letto fu avanzato McAvennie e il suo ruolo da incursore centrale fu preso da Alan Dickens, che lo mantenne poi per 40 delle successive 41 gare. Con questi giocatori, con queste combinazioni, il West Ham, che l’anno precedente si era salvato solo alla penultima giornata, grazie ad un gol di Cottee, contese ad Everton e Liverpool il titolo fino all’ultimo, compilando nel frattempo una serie indimenticabile di partite, in condizioni difficili. Per il maltempo e per gli impegni di FA Cup, nella quale il West Ham arrivò agli ottavi ma dovendo giocare tre volte contro l’Ipswich Town e due contro il Manchester United, si accumularono i recuperi e gli Irons dovettero giocare, senza mai lamentarsi del carico di lavoro, sei partite nel giro di 15 giorni: persa il 15 aprile la prima contro il Chelsea, che si vendicò così di un clamoroso e spettacolare 0-4 di due settimane prima a Stamford Bridge, il West Ham ne vinse cinque di fila tra 19 e 30 del mese, una delle quali un clamoroso 8-1 sul Newcastle United, passato alla storia perché Martin, il difensore centrale, segnò una tripletta a… tre portieri diversi. Ovvero, il titolare Martin Thomas, Chris Hedworth e Peter Beardsley, e qui probabilmente vi si sarà accesa una lampadina in testa: solo Thomas infatti era un portiere, che però si fece male e, in assenza di un vice in panchina, fu sostituito all’intervallo dal difensore centrale Hedworth, a sua volta rimpiazzato al 75’, per infortunio, dall’attaccante Beardsley, a rendere ancora più anomala la giornata. Sabato 3 maggio si giocò la partita numero 42 per Liverpool e la numero 41 per Everton e West Ham , che dovevano recuperare due giorni dopo proprio il confronto diretto a Goodison Park. Il Liverpool giocava a Stamford Bridge contro il Chelsea, il cui allenatore John Hollins aveva dichiarato “faremo di tutto per vincere, speriamo così che il West Ham riporti il titolo a Londra”, l’Everton era in casa contro il Southampton e il West Ham era al The Hawthorns contro il già retrocesso West Bromwich Albion. Everton-Southampton finì 6-1, West Brom-West Ham finì 2-3 ma negli spogliatoi i giocatori di entrambe le contendenti appresero che, contrariamente a quanto trapelato dagli spalti . Le trattative erano andate avanti per mesi senza sbocchi, e la stagione 1985-86 era partita senza alcun tipo di diffusione televisiva, per la prima volta dal 1983. Un accordo si trovò poi verso Natale, 1,5 milioni per 15 partite e una manciata di rubriche, a cui se ne aggiunsero quattro di FA Cup e, altro contratto ancora, la finale di Coppa dei Campioni Steaua-Barcellona, vinta poi dai rumeni ai rigori grazie alle parate del portiere Helmuth Duckadam. In più, Inghilterra-Scozia, che per decenni era stata assieme alla finale di FA Cup l’unica partita trasmessa integralmente. Ma tutto questo cosa c’entra con McAvennie? C’entra, perché la convergenza di fattori negativi che portò al mancato accordo televisivo per i primi mesi fu per l’attaccante scozzese, come si diceva, al tempo stesso un vantaggio e uno svantaggio. Un vantaggio perché, in assenza di una costante consuetudine di osservazione degli avversari capitava che le sue caratteristiche non fossero molto note e quindi che i difensori avversari non avessero idea di come affrontarlo, uno svantaggio perché nel momento in cui le sue prestazioni e quelle della squadra salirono, dopo una partenza incerta, McAvennie si trovò nella curiosa situazione di essere un nome notissimo ma un volto sconosciuto. Tanto che un giorno un quotidiano lanciò un sondaggio tra i propri lettori: che aspetto ha, secondo voi, Frank McAvennie? Nel suo libro, ‘Scoring, an expert guide’, titolo volutamente ambiguo sul quale torneremo, il diretto interessato ha ironizzato sulle risposte: "in genere dicevano ‘è grande e grosso, capelli rossi, feroce’, a dimostrazione che, nel dubbio, si puntava sui luoghi comuni, anche perché, diciamolo pure, nel calcio inglese di scozzesi che rispondevano a quella descrizione ce n’erano stati fin troppi". Quello che incuriosisce, del sondaggio, è che è vero che mancavano le immagini televisive, ma nessuno aveva fino a quel momento impedito ai quotidiani stessi di pubblicare foto di McAvennie: solo che, pur essendo storicamente il West Ham un club abbastanza popolare presso i media londinesi e pur avendo sede a Londra la maggior parte dei quotidiani nazionali, c’erano Liverpool, Everton, Arsenal e Manchester United a dominare le scelte fotografiche. Un giorno, poi, il telecronista Martin Tyler fece un esperimento, accompagnando l’attaccante scozzese lungo il Waterloo Bridge, trafficatissimo ponte londinese, per vedere se qualcuno lo riconoscesse: e vide che solo un taxista si accorse chi era quel biondino, mentre tutti gli altri tirarono dritto senza nemmeno dargli una seconda occhiata. Per paradosso, McAvennie fu poi in realtà individuato da Billy Connolly, all’epoca 43enne, celeberrimo comico scozzese, che stava entrando negli studi televisivi in cui Tyler e l’attaccante stavano facendo ritorno. Tutta roba che divenne passato remoto una sera in cui, proprio per farlo uscire dall’oblio, gli autori di Wogan, un popolarissimo talk show in onda tre volte alla settimana sul primo canale della BBC, lo invitarono assieme ad un mito del calcio scozzese, Denis Law. La puntata fu vista da oltre 10 milioni di spettatori, presto edotti sullo stile di vita, l’abbigliamento vivace e la simpatia dell’attaccante, e la sua esistenza cambiò. Di sicuro, prima di Wogan, che aspetto avesse McAvennie lo sapevano sicuramente i locali notturni di Londra, specialmente il notissimo Stringfellows: era del resto un formidabile compagnone, uno che faceva amicizia con chiunque senza distinzioni, tanto che solo in seguito seppe che alcune delle persone che chiamava per nome proprio da Stringfellows erano in realtà vip di cui però non conosceva il cognome, e aveva presto capito che il suo aspetto, la sua personalità e la sua accessibilità erano irresistibili per molte ragazze: ‘scoring’, titolo del libro, si riferisce proprio all’essere - come dire? - molto attivo con l’altro sesso. Comprensibile, tutto ciò: solo sei anni prima ‘Macca’ non sapeva quale mestiere avrebbe fatto nella vita, dopo aver provato tra i riservisti dell’esercito, il fattorino, il cameriere, l’operaio in una fabbrica di tessuti, il meccanico e lo spazzino… per 20 minuti, prima di scoprirsi terrorizzato al pensiero che qualche amico, in una Glasgow dura e terribile con i ‘falliti’, potesse vederlo e prenderlo in giro a vita, ma quando era venuto fuori che era stato lui a rinunciare gli era stato tolto il sussidio di disoccupazione. A scuola, a calcio, era andato benino ma non al punto da suscitare interessi particolari, e solo per caso aveva ripreso, a 20 anni: un sabato mattina presto, sconsolato per il rinvio della partita del Celtic, di cui era tifosissimo, stava andando a giocarsi ai cavalli le ultime cinque sterline quando incontrò per caso un amico che stava portando la sua squadra amatoriale a giocare. Da cosa nacque cosa, McAvennie aveva giocato molto bene e superato più volte il suo avversario diretto, che alcuni osservatori erano andati a seguire: avevano dunque puntato gli occhi invece su di lui, aprendogli le strade di una squadra semi-professionistica, il Johnstone Burgh, e poco dopo di un provino con il Partick Thistle, la terza squadra pro di Glasgow. Lì però l’allenatore gli aveva detto, dopo tre partitelle, “non sarai mai un calciatore, ragazzo. Non hai speranze”, giudizio particolarmente pesante se si pensa che quell’allenatore era Robert ‘Bertie’ Auld, uno dei Leoni di Lisbona che nel 1967 avevano vinto col Celtic la Coppa dei Campioni, con un estasiato Frank, all’epoca bambino, a seguire la partita in televisione con il padre. Determinato a smentire il giudizio del suo ex idolo, aveva accentuato l’impegno e pochi mesi dopo il no del Partick era riuscito a farsi accettare dal St.Mirren, club della massima serie, per un altro provino, una partita a porte chiuse contro il Morton. Nel quale era stato… espulso: rientrato negli spogliatoi, mentre stava già sistemando le sue cose per andarsene si sentì dire dall’allenatore, Jim Clunie, “sapevo che avevi talento, ma ora ho visto che hai anche fegato. Ti prendiamo”. Sceso a Londra, questa infanzia e adolescenza di disagi si trasformarono, comprensibilmente, in eccessi, anche dal punto di vista dell’abbigliamento: Macca aveva sempre amato vestirsi alla moda o in modo vistoso, ma i mezzi modestissimi della sua famiglia glielo avevano impedito, e la maggiore umiliazione era stata il giorno in cui aveva scoperto che il giubbotto che aveva desiderato da mesi, e che a sorpresa la madre gli aveva dato una sera, era stato fatto dal padre, abilissimo tuttofare, con… la pelle del retro del divano di casa. Ecco allora gli eccessi londinesi, ecco le distrazioni da lui ammesse nel peregrinare tra il suo adorato Celtic, ancora il West Ham, l’Aston Villa, ancora il Celtic e altre, la sua personalità esagerata e candida lo ha anche messo nei guai a vari livelli, rendendolo forse un magnifico incompiuto, ma in quel 1985-86 fu il mistero più divertente e bizzarro del calcio inglese, una conseguenza del mancato accordo tv e di tempi davvero particolari: per paradosso, ci misero un po’ a riconoscerlo anche i tifosi del West Ham, dato che alle prime partite la presenza di pubblico fu piuttosto bassa, in linea con i tempi. Per dire, ai 15.530 dell’esordio contro il QPR seguirono 14.104 contro il Luton Town, nemmeno 20.000 persino contro il Liverpool, 12.125 contro il Leicester City e solo tra marzo e aprile, con la possibilità del titolo ancora viva, si andò regolarmente oltre i 25.000. Altri tempi, davvero, altri caratteri, davvero.