Inter, Inzaghi e uno scudetto che sa di svolta epocale: il confronto con la storia

stelle e storia
Alessandro Biolchi

Alessandro Biolchi

Scudetto e seconda stella: non è solo questo a far entrare nella storia nerazzurra Simone Inzaghi. Perché l'Inter plasmata dall'allenatore piacentino è un segno di clamorosa discontinuità rispetto alla storia del club. All'insegna del bel gioco e del divertimento. L'analisi e il confronto con la storia

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Esiste un tratto genetico in ogni azione umana, in ogni sconfitta, in ogni vittoria. Ed è un principio che sembra valere sia nella storia di ogni individuo, sia in quella di ogni organismo sociale. Le società di calcio non fanno eccezione, tantomeno l’Inter, da sempre definita “pazza”, quasi a voler sottolineare una caratteristica che ne permea la natura, ineliminabile e ambivalente. E basta guardare la parabola nerazzurra dalla prima alla seconda stella per rendersi conto che i fattori genetici hanno un peso: sono cambiati presidenti, allenatori, giocatori, si sono succedute generazioni di tifosi, eppure ogni vittoria, ogni scudetto ha avuto un marchio coerente con la storia dell’Inter. Un allenatore pragmatico, un giocatore geniale e in grado di accendere la fantasia, una teoria di gioie costruite più sull’anima che sull’estetica. E una follia di fondo che sublima in trionfo solo nei momenti in cui compaiono una serie di variabili capaci di irrigimentarla, contenerla, incanalarla. E così Herrera ha armonizzato le giocate di Suarez, Corso e Mazzola con l’intelligenza di Facchetti e la garra di Burgnich e Picchi. Forgiando, con la sua personalità, una squadra capace di vincere tutto, prima stella compresa. Schema concettualmente ripetuto da quasi tutti i successori scudettati: allenatori pragmatici, ingegneri dell’equilibrio basato su una dimensione difensiva convincente, maestri nell’enfatizzare le doti dei loro “pezzi” più pregiati. Invernizzi, chiamato a rimettere ordine in uno spogliatoio solo potenzialmente vincente, si appoggiò alla vena di Boninsegna e Domenghini nel ’70-71, Bersellini costruì il tricolore intorno alla diade Altobelli e Beccalossi nel 79-80, il Trap mise Mattheus e Berti al centro della Inter dei record 88-89, Mourinho fece il suo molteplice capolavoro con Milito e Eto’o, Conte nel 20-21 fuse insieme le doti di Lautaro e Lukaku. Tutte squadre solide, feroci, senza sbavature. E completate dalle virtù (spesso potenti ed esplosive) dei leader qualitativi. Squadre muscolari, prima che belle. E belle proprio perché muscolari, efficaci. L’etica prima dell’estetica, lo spessore caratteriale al servizio del talento. Unica parziale eccezione Roberto Mancini, personaggio che sfugge alla galleria dei pragmatisti e che provò, inizialmente con alterne fortune, a modificare quei tratti genetici attraverso una filosofia più votata alla proposizione che all’equilibrio. Ma che alla fine vinse soprattutto grazie alle doti straordinarie di Ibra supportate dalla qualità innervata di animus pugnandi dei vari Zanetti, Cambiasso e Stankovic.

L'Inter di Inzaghi un clamoroso segno di discontinuità

Se questo è lo scenario, l’Inter di Inzaghi rappresenta un clamoroso segno di discontinuità, una svolta epocale che la storia riconoscerà all’allenatore piacentino. E’ vero che anche ora esistono leader carismatici e qualitativi, ma è innegabile che questa vittoria sia stata costruita su presupposti del tutto nuovi, frutto di una filosofia visionaria che rappresenta un meraviglioso strappo nei confronti della tradizione. L’Inter di Inzaghi è la squadra che dribbla meno in tutta la Serie A, segno che non si basa affatto sulle giocate dei singoli. E’ una squadra che attacca a pieno organico confondendo ruoli e posizioni, mettendo i “braccetti” difensivi a disposizione della fase offensiva e chiedendo ai finalizzatori uno sforzo costante di pressing e conquista della palla. La sua essenza è fluida e sfuggente, il suo equilibrio è basato su meccanismi di intercambiabilità, il suo gioco è velocità geometrica e armonica, dosaggio di controllo e accelerazioni. In una parola, quest’Inter non è solo vincente, è proprio bella. Una riconversione filosofica che supera il dualismo kantiano e ripropone su basi moderne la visione antica del mondo. Con Inzaghi finisce la contrapposizione etica/estetica e torna la kalokagathia greca. Ciò che è bello è anche buono, lo spessore etico si fonde con la bellezza sensibile dando vita a una creatura artistica. Una bella rivincita per un allenatore cui, per lunghi tratti, sono stati attribuiti limiti creativi: mai nessuna lettura fuori dagli schemi, si è detto, cambi sempre conservativi, disequilibrio latente e incorreggibile. Insomma: bravino, sì, ma i grandi allenatori sono un’altra cosa. E invece Simone ha tenuto fede alle sue idee, le ha limate e fatte evolvere senza snaturarle, ha preso in mano l’Inter un minuto dopo l’addio di Conte e Lukaku, i dioscuri dell’ultimo scudetto, e l’ha forgiata su nuove basi con pazienza e fiducia. Ha vinto Coppe Italia, Supercoppe, ha graffiato la Champions dimostrando che il suo calcio in Europa ha cittadinanza. E infine ha conquistato la seconda stella con determinazione. Per tutta la stagione si è avuta l’impressione che l’unico obiettivo fosse il tricolore: lo si è visto nelle scelte di formazione tra le varie competizioni e nella costanza che ha saputo imporre nel torneo lungo, quello che, dopo lo scudetto perso nel 21/22 di fronte al Milan, sembrava il suo tallone d’Achille. La sua Inter non sembrava adatta alle lunghe percorrenze ma alle avventure brucianti, immediate, agli scatti di bellezza finalizzata al breve periodo. Con lui, per un attimo, l’Inter è tornata pazza. Con lui, nella lentezza di un percorso quasi sotterraneo, l’Inter si è scoperta bella e vincente, di nuovo Beneamata. Inzaghi non ha ottenuto benefici su cui altri suoi colleghi, in giro per l’Europa, hanno potuto contare. Il mercato nerazzurro, nei suoi anni di guida tecnica, non ha potuto investire cifre astronomiche. Ma grazie alle intuizioni societarie ha portato giocatori poco costosi che Simone ha reso funzionali dopo un’inevitabile sperimentazione e gavetta tattica. E così Calhanoglu non è stato il tappabuchi di Brozovic, ma la sua evoluzione vincente. Lautaro è diventato leader completo e non solo deliziosa spalla di Lukaku. Barella si è allontanato un poco dalla porta avversaria, ma è diventato architrave di un centrocampo dominante. Mkhitaryan ha vissuto una seconda giovinezza mettendo la sua qualità nell’origine della costruzione e non solo nella finalizzazione. Bastoni e Dimarco sono cresciuti a livelli esponenziali, tanto da diventare termini fissi della Nazionale spallettiana. Cosa si deve chiedere a un allenatore se non di valorizzare le qualità dei singoli all’interno di un contesto corale armonico e convincente? L’Inter della seconda stella è tutto questo: il prodotto di una società capace, di un allenatore visionario, di giocatori in grado di ragionare come un unico soggetto. Non stiamo parlando necessariamente di genialità, ma di serietà e capacità di innovazione. Una famosa frase di Sant’Agostino recita “Novum in vetere latet, vetus in novo patet”. Si riferiva all’Antico e Nuovo testamento, materia decisamente più alta. E tuttavia è una considerazione perfetta anche nel prosaico calcio: Inzaghi ha saputo prendere il nuovo che già esisteva in latenza e ha saputo “disvelare” la tradizione nel nuovo progetto vincente. Ma potremmo dirlo in modo più popolare: Simone ha seguito le sue idee e il suo cammino, dritto fino al mattino. Ed è arrivato all’Isola. Che ora c’è.