Diana: "Non sopporto la pigrizia, a Brescia parlo in dialetto. La B? Non è un'ossessione"

La sua voce non è sconosciuta: il passato da calciatore di Aimo Diana è certamente noto, con più di 300 partite in Serie A tra Palermo, Sampdoria, Torino, Verona e quel Brescia che ora rappresenta da allenatore. La sua voce non è sconosciuta, si scriveva, e quell’accento bresciano fa capire subito cosa stia vivendo Diana in questa stagione. “Sai, a volte capita che tra i tifosi ci parliamo in dialetto…” Ma dialetto, dialetto? “Proprio così. Io sono bresciano, il mio accento lo rimarca molto bene. A volte, dietro alla rete del campo di allenamento, quella che separa dagli spalti, capita che parli con qualche tifoso. E mi rendo conto di usare il bresciano al posto dell’italiano. Non sempre, ma capita” Ma che emozione è stata, per lei, sapere che l’Union Brescia sarebbe ripartita con Aimo Diana come allenatore? “Fortissima. Ero già alla Feralpisalò e quando si vociferava quello che è poi davvero successo in estate l’adrenalina mi saliva a mille. Ne parlavo spesso con Emanuele Filippini, anche lui bresciano doc e nel mio staff: ‘Chissà se veramente toccherà a noi…’. È successo. La società si chiama Union Brescia, certo. Ma è il Brescia a tutti gli effetti. All’inizio quasi non te ne rendi conto, poi giorno dopo giorno realizzi che sei effettivamente lì, che la pelle del Brescia non è cambiata, che lo spirito è quello e l’entusiasmo anche. Bisogna farci l’abitudine e soprattutto rimanere lucidi: è sempre il campo che decide tutto” Ecco, il campo. La vittoria contro l’AlbinoLeffe vi porta al secondo posto. Le ambizioni sono quelle? “Sì, la squadra è costruita per fare bene e per provare a essere protagonista. Dobbiamo mantenere l’asticella alta” Ma lei si sentirebbe pronto per allenare una squadra in Serie B? “L’ho raggiunta, la B. Con la Reggiana. Ma poi ci siamo separati” Come mai? “Perché non è un’ossessione per me. La categoria certamente vale, ma dipende anche come la fai, con chi la fai. E se la fai, le scelte che prendi. Il mio sogno è quello di portare la mia città in Serie B. Che poi, a dirla tutta, la Serie B è una categoria superiore alla C. Se parliamo di sogni, credo che ogni allenatore ambisca sempre alla Serie A. C’è chi ci arriva, chi no. Per come la vedo io, dipende dal come: se si è la prima scelta, se si è parte integrante di un progetto. Se no, arrivarci tanto per arrivarci, non vale molto la pena” Il progetto prima di tutto, quindi? “Assolutamente sì. È importante avere rapporti con una società che permetta di lavorare bene con la squadra. Contano molto il contorno e le condizioni che si creano per raggiungere determinati risultati. Quindi, ripeto: la B è uno step che voglio raggiungere, ma senza alcuna ossessione. Ora faccio una battuta: per noi allenatori giovani , la cosa importante è pensare al percorso da fare per raggiungere l’obiettivo. Non la tappa finale” A proposito di allenatori giovani: come si misura la modernità di un allenatore? “Io ho avuto tanti maestri. Penso a Mazzone, per citarne uno su tutti. C’è chi si concentrava molto sulla gestione del gruppo, chi sull’aspetto tecnico-tattico. C’era l’amico o il sergente di ferro. Oggi non è più possibile essere solo una cosa, ma bisogna avere un linguaggio che avvicini ai giocatori. Bisogna essere duri quando è necessario, ma anche molto comprensivi. I giocatori sono molto giovani, affrontano le difficoltà di tutti i giorni, soprattutto in un campionato come la Serie C, dove non ci sono tanti soldi: c’è chi ha appena compiuto 18 anni, chi invece è padre di famiglia” E lei, come si è adeguato? “Io ho la fortuna di avere un figlio di 18 anni. Qualche ‘bro’ ogni tanto lo sento. Così come quella musica che non capisco, che è un po’ strana. Ma mi avvicina a quel mondo. Non uso i social, ho imparato a isolarmi. Perché è inutile dire il contrario: un allenatore li guarda, legge i commenti e possono influire. Danno fastidio in certi casi, soprattutto se si ritengono ingiusti. Starne fuori aiuta a essere più lucidi nelle decisioni. Ma d’altra parte, se si vuole essere vicini ai più giovani, è evidente che non se ne possa fare del tutto a meno. Ci si adegua…” Ha un motto particolare? “Non è un motto, è una frase. Dico sempre ai miei giocatori di non essere pigri. Lo ripeterò decine di volte al giorno. E poi diventa quasi come a scuola, quando il professore ripete quella frase come un mantra e gli studenti si guardano, scambiando qualche risolino. Me ne accorgo, ma ci rido su anche io. A volte, a fine allenamento, i giocatori vengono da me e mi chiedono: ‘Mister, siamo stati pigri oggi?’. Mi fa capire che in qualche modo il messaggio è passato” Diceva del suo percorso. Cosa pensa di aver imparato in questi anni da allenatore? “Che paradossalmente la cosa più semplice è allenare la squadra. La butto un po’ come una provocazione ma lo penso anche: è più complicato gestire tutto quello che sta attorno alla squadra, dai media, ai tifosi fino anche alla dirigenza. Ha tutto il giusto peso e bisogna fare in modo di essere misurati perché la stagione sia buona. E non dimentichiamoci che siamo in Serie C, cioè la terza categoria: ci sono meno mezzi, è fondamentale coinvolgere tutti per raggiungere l’obiettivo finale” Si sente migliorato? “Sì, senza dubbio. Ma non è tanto una questione tattica o di metodologie. Quanto proprio di consapevolezza. Ho capito che ogni realtà fa storia a sé, che non esiste più, se mai è esistito davvero, il concetto del ‘sono così e va fatto così’. Ogni allenatore deve capire bene dove si trova, quali sono le esigenze e quali le criticità. E deve capire soprattutto la squadra che ha di fronte per attuare la strategia migliore: sia di relazione con i giocatori, sia di modulo. Bisogna essere flessibili. È la cosa più importante”

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Valentino Della Casa