Pantani, quel 5 giugno 1994: la nascita del mito che tenne insieme nonni e nipoti

per sempre marco

Alberto Andrea Pontara

5 giugno 1994: Marco Pantani, dopo il successo il giorno prima a Merano, si impone nella tappa con arrivo ad Aprica dopo aver scalato Stelvio, Mortirolo e Santa Cristina. Fa quasi saltare il Giro d’Italia e irrompe nel cuore di tifosi e appassionati di ciclismo, unendo nonni e nipoti. Quel giorno come una rivelazione: niente fu come prima. Anche per un mito come Charly Gaul. Un racconto personale ma che riguarda, in fondo, almeno tre generazioni

PANTANI PER SEMPRE: LO SPECIALE

I pomeriggi tra maggio e giugno, profumo di primavera, giornate che si allungano. Tanta voglia di diventare grandi, di crescere in fretta. A 13 anni ogni cellula del tuo corpo vuole esplodere, entrare il prima possibile nel mondo degli adulti. Stavo preparando, stancamente, gli esami di terza media in quel giugno 1994. Da un lato, il sogno di avere già 14 anni per avere il primo motorino, dall’altro un attaccamento all’infanzia inconsapevole e tenace. La bicicletta come strumento di scoperta e di libertà: simbolo del rapporto padre-figlio. Papà che t’insegna ad andare senza rotelle: diventerà un ricordo dolce. Ma a 13-14 anni vuoi la libertà e con la bici ti spingi proprio dove i tuoi genitori ti vietano, superi quei confini che i tuoi ti hanno indicato come limite invalicabile. Cerchi la tua strada. E siccome a 13 anni si pensa di essere già grandi ma si è ancora bambini, ti identifichi con i corridori. Chiappucci e Bugno che sfidano Indurain. Avevo una polo rosa e quando la indossavo mi piaceva immaginarmi di essere il Diablo. Ogni cavalcavia dell’hinterland diventava per me un Mortirolo in cui staccavo Indurain. Quando incontravo stradoni lunghi (all’epoca senza rotonde) sognavo a occhi aperti di essere Bugno che finalmente superava a cronometro il fenomeno spagnolo. E poi c’è il nonno. Il rito irrinunciabile era guardare con lui le tappe del Giro e del Tour, in pomeriggi che scorrono dolcemente e per fortuna lentamente come quelle salite in cui vorresti esserci, a bordo strada. Il cerimoniale era più o meno sempre identico. Andavo da mia nonna e le chiedevo: «Dov’è il nonno? Sta per cominciare la diretta della tappa». E mia nonna solitamente rispondeva, in veneto: «Xe drìo dire el rosario in garage». Sì, perché mio nonno, come molti altri, era un operaio in pensione che passava i pomeriggi a costruire e riparare nel suo garage-officina, e ogni tanto, anzi ogni spesso, qualche improperio in dialetto diciamo che gli scappava, con quel particolare rapporto che tanti veneti hanno con la blasfemia. Tutte le mie biciclette le ha costruite lui: era uno di quegli operai capaci di «fare i baffi alle mosche», così si diceva per descrivere la maestria della nostra mitica classe operaia. E soprattutto, come tanti altri nonni, era un grande appassionato di ciclismo. Era anche stato un corridore in gioventù, poi la guerra e una pleurite ne avevano spento le velleità agonistiche. Sapeva leggere le tappe e i protagonisti in modo preciso e risoluto. C’è una data che più di altre resta impressa nella mia memoria: il 5 giugno 1994. Il giorno prima al Giro aveva vinto un giovane corridore della Carrera, un certo Marco Pantani. Aveva un ciuffo che gli dava dieci anni in più di quelli che aveva: se lo sarebbe tolto più avanti, diventando il Pirata. 

©Getty

La 'pazza' discesa di Merano

Aveva sorpreso tutti a Merano grazie alle sue capacità da discesista, qualità che a noi ragazzini costò più di una sbucciatura di gomiti e ginocchi, pantaloni e magliette distrutti, nel tentativo di imitarlo ovunque la strada scendesse in picchiata. Come planava lui, con quel modo di mettere il sedere fuori di sella, spericolato e al tempo stesso micidiale come un motociclista in pista al mondiale. Se per gli addetti ai lavori il talento di Pantani era già noto, noi ragazzini e semplici spettatori ancora non sapevamo. Era un’epoca senza social, senza internet e senza quella miriade di informazioni di cui oggi disponiamo in modo totalizzante. Per fare un esempio: che Sinner avrebbe vinto uno slam ce lo hanno previsto con anni di anticipo, Pantani quando apparve a noi, il famoso pubblico a casa, non si sapeva chi fosse. Pensammo che fosse un exploit di un giovane talento e nulla più. Noi che tifavamo Bugno e Chiappucci, i due alfieri italiani che tentavano disperatamente di battere il moloch spagnolo, quel concentrato di doti fisiche e capacità serafica di gestire le corse che era Miguel Indurain, non potevamo sapere. 

Tappa da brivido: Stelvio e Mortirolo

Lo avremmo scoperto proprio quel 5 giugno. La tappa era di quelle da brivido: Stelvio, Mortirolo, Santa Cristina e arrivo ad Aprica. Non pensavamo che quel Pantani avrebbe bissato il successo del giorno prima, mai avremmo immaginato che lo avrebbe fatto con una prova di estrema maturità e talento assoluti. Mai ci saremmo immaginati che avrebbe quasi fatto saltare il Giro, spazzando via i piani di Berzin, Indurain e Chiappucci. Mio nonno guardava la tappa e per una volta lo vidi meno tranquillo, si agitava sulla poltrona come mai prima. Lui tendeva a smorzare i miei entusiasmi con commenti tecnici quasi sempre infallibili. Quel giorno, invece, si lasciò andare a un entusiasmo fanciullesco. Pantani è stato questo, per la mia generazione: l’unione di nonni e nipoti. Noi trovammo, come un’epifania, una rivelazione, l’idolo che ci avrebbe fatto restare bambini ancora per un po’, che ci avrebbe fatto sbucciare ancora gomiti e ginocchi, che ci avrebbe tenuto lontano dai motorini e ancora fedeli ai pedali. I nostri nonni respirarono l’aria dei campioni per cui avevano trepidato da giovani. Coppi, Bartali e un altro, che italiano non era. Mio nonno me lo disse mentre Pantani, sul Mortirolo, scattava e dava quelle sparate che lo avrebbero reso celebre. “Mi ricorda Charly Gaul”. Non sapevo chi fosse e quindi lui, paziente, mi raccontò chi era stato, “L’Angelo della Montagna”.

L'Angelo della Montagna e il Pirata

Anni ’50, e due scalatori che resteranno per sempre nel mito: Gaul, appunto, e lo spagnolo Bahamontes, “L’Aquila di Toledo”. Amici e rivali. Con il lussemburghese che entrò nella storia l’8 giugno del 1956. Monte Bondone, tappa di quasi 250 km corsa nella neve e nel gelo, corridori congelati. Si narra che il direttore sportivo di Gaul, Learco Guerra, durante la fuga del suo corridore lo fece fermare in una baita: bagno caldo, divisa ad asciugare al fuoco, poi di nuovo in sella. Degli 86 corridori partiti ne arrivarono meno della metà, molti già quasi in ipotermia. Gaul taglia da solo al traguardo, gli occhi azzurri persi nel vuoto, spiritati dopo un’impresa tremenda, quasi tragica e per questo eroica. Mio nonno non sapeva che Gaul, dopo varie peripezie e drammi interiori, la depressione e l’alcolismo, proprio tra gli anni ’80/’90 si stava riprendendo ed era stato assunto al museo del ciclismo in Lussemburgo. E che avrebbe ritrovato un po’ di entusiasmo e passione per il ciclismo grazie a Marco Pantani. Lo considerava il suo vero erede. Si fece rivedere nell’ambiente proprio per via del Pirata. Una delle sue ultime uscite pubbliche fu al funerale di Marco in quel terribile febbraio 2004. Era presente, a onorare un suo pari, un sodale di fatiche e imprese. Mi piace pensare che anche per Gaul fosse stata così stupenda l’apparizione sulla scena di Pantani. Guardare quel volto dallo sguardo malinconico, altra caratteristica del Pirata, ma con quel sorriso buono, accogliente, di un animo fragile e gentile. Una volta Gianni Mura chiese a Marco: «Perché vai così forte in salita?» e lui gli rispose: «Per abbreviare la mia agonia». Forse è in questo che gli scalatori si riconoscono fra loro, si “annusano” l’un l’altro, si capiscono anche a distanza. Ed è per questo che siamo ancora così tanti a essere appassionati di ciclismo. Riconosciamo lo sforzo, perché sappiamo quanto è difficile pedalare, quando la strada inesorabilmente sale. C’è una “democrazia della fatica” che in altri sport manca: applaudiamo il primo che passa al Gran Premio della Montagna con lo stesso entusiasmo con cui incitiamo l’ultimo. Abbiamo rispetto per l’impegno profuso in qualsiasi condizione, caldo soffocante, pioggia a dirotto, il gelo di bufere improvvise in quota. Mi piace immaginare che anche Gaul fosse davanti al televisore quel 5 giugno del 1994. 

Niente fu come prima

Scollinato il Mortirolo, solo il Santa Cristina divide Marco Pantani dal traguardo dell’Aprica, dopo una tappa di quasi sette ore corsa all'attacco ma anche con intelligenza. In via Roma ci arriva da solo, braccia al cielo e quel ciuffetto di capelli che svolazza al traguardo. Il banco non salta ma poco ci manca, perché in quel Giro Marco si piazzerà secondo in classifica generale, dietro la maglia rosa Berzin e davanti a Indurain. Quel 5 giugno 1994 fu l’inizio, niente sarà più come prima: ci innamorammo perdutamente di Pantani, quel giorno. Non era ancora il Pirata, non sapevamo che avrebbe avuto davanti tanta sfortuna: investito da un suv alla Milano-Torino, il gatto nella discesa di Chiunzi a tagliargli la strada al Giro. Avremmo aspettato quattro anni per vedere quella splendida doppietta: Giro e Tour, 1998. In maglia gialla, un italiano 33 anni dopo Felice Gimondi. Quel 5 giugno 1994 ci ritrovammo, nonni e nipoti, uniti da quegli scatti indelebili, da quella capacità di “attaccare” la montagna, da quel modo di sorridere che ci conquistava, da quegli occhi lucidi di intelligenza e sofferenza. Ci riconoscemmo in quella fatica, nelle sue difficoltà e nella sua capacità di rialzarsi. Almeno tre generazioni unite in modo pressoché plebiscitario: eravamo tutti trepidanti per il Pirata o, come lo chiamava Mura, Pantadattilo. Un soprannome perfetto perché collocava Pantani in un mondo fantastico, riaccendendo l’epica di un ciclismo di epoche mitiche, perché lo estraniava dalle dinamiche spazio-temporali. Una sorta di fossile che riprendeva vita e forma, forza e presenza. Quanto amore Marco ci ha dato. Glielo abbiamo restituito, sempre. Chissà se ha mai avuto la consapevolezza di quanti nonni e nipoti tenne incollati alla tv, ad aspettare il suo scatto micidiale, formidabile, devastante. Verso la vittoria, verso l’impresa. Legando per sempre generazioni ed epoche, sotto una bandana immaginaria che ci teneva – e ci tiene – tutti uniti.