Un biglietto di andata e ritorno per l'inferno

Accadde in un torrido pomeriggio d’estate trascorso al mare con la famiglia, lo sguardo fisso su un televisore portatile bianco e nero Rex Zanussi dallo schermo piccino e avveniristico, modello ‘Space Age’, che di spaziale aveva solo le bestemmie quando faticava a ricevere il segnale. E precisamente fu quando dall’abitazione accanto si levò un urlo: "Minchia, alla miniera è andato a sbattere. Mischino… morto è…". Che, essendo i nostri vicini degli amabili emigrati di ritorno dalla Germania, più o meno voleva significare. "Minchia, alla curva di Begwerk è uscito di strada. Povero… Un grave incidente…". Alle 14.30 sulla Rai era da poco iniziata la diretta del Gran Premio di Germania di Formula 1, decima prova del campionato. E nonostante fosse il 1° agosto, neppure l’alta stagione aveva distolto gli appassionati dall’avvincente rivalità fra l’austriaco della Ferrari Niki Lauda -campione in carica- e il britannico James Hunt, stella della McLaren-Ford Cosworth. Pochi minuti prima della partenza la pioggia aveva fatto capolino sul tracciato che si snoda intorno al Castello di Nürburg, un cumulo di rovine di un’antica fortezza dominante la catena montuosa dell'Eifel. E la pista era ancora bagnata quando, appena al secondo giro, Lauda era transitato a 200 km/h alla curva Bergwerk con gomme slick ancora fredde e in condizioni di scarsa aderenza. Ecco, quel che successe dal momento dell’ingresso in curva di Lauda sulla sua Ferrari 312 T/028, una monoposto praticamente nuova, prima utilizzata soltanto a Brands Hatch, corrisponde praticamente all’inferno in terra. Una toccata di troppo sul codolo contribuì a fare scartare la macchina verso destra fino a colpire la rete di protezione esterna e una roccia per poi rimbalzare in mezzo alla pista. E in una frazione di secondo la fuoriuscita di benzina e la combustione trasformarono macchina e pilota in una unica indistinguibile palla di fuoco. Niki Lauda rimase intrappolato nell’abitacolo della sua Ferrari, privo del casco, volato via. Immobile come un martire che si immola sul rogo, esposto ai gas tossici e alle beffe della morte pronta a ghermirlo. Intorno all’uomo fattosi torcia imperversò per lunghi istanti la macabra e disperata danza dei primi soccorritori, a metà in preda al panico a metà agitati alla ricerca di una miracolosa soluzione. Ma fu dopo qualche attimo di comprensibile concitazione, quel giorno io capii che anche la situazione più angosciante puo’ -chissà come- trovare una svolta. Guy Edwards, che aveva evitato l’auto in fiamme, Harald Ertl e Brett Lunger, che non erano riusciti a schivarla, e Arturo Merzario, fermatosi appena sopraggiunto, girarono intorno al fuoco come in un sabba propiziatorio. Poi dopo svariati tentativi andati a vuoto, Ertl con l’estintore aprì come un sentiero fra le fiamme e Merzario ed Evans slacciarono le cinture di sicurezza e riuscirono a estrarre Lauda dalla vettura. Adagiato sull’erba, Lauda venne soccorso, ferito e ustionato. Aveva inspirato un cocktail letale di idrocarburi, monossido di carbonio, cianuro di idrogeno, acido cloridrico, azoto diossido che non avrebbe dovuto lasciare scampo ai polmoni. In condizioni disperate venne trasferito dapprima all’Ospedale San Joseph di Adenau, poi all’ospedale militare di Coblenza, quindi al Trauma Clinic di Ludwigshafen, che ne dispose il passaggio allo Städliche Krankenanstalten di Mannheim. Già il primo referto fu esplicito: ustioni di 1° e 3° grado al volto, alle orecchie, al gomito e alla mano sinistra. Frattura allo zigomo sinistro. Lieve contusione al torace con difficoltà respiratorie. Polmoni compromessi, uno dei quali forse irrimediabilmente. Commozione cerebrale. Prognosi riservata. Alle 22.10 Lauda entrò in coma. Impossibile dimenticare quel 1° agosto 1976 e quel limbo nel quale Niki Lauda restò sospeso per qualche giorno, col suo possibile biglietto A/R per l’inferno appeso al collo. Impossibile dimenticare la sua furiosa rincorsa fino all’arrivo sulla Nordschleife, il rombo della sua rossa, lo stridore dei freni, il fragore sordo dello schianto, il levarsi delle fiamme gialle e rosse, poi il crepitio, le urla, il fumo, le sirene, la confusione e la nuova fasulla normalità di una gara che deve continuare. A tredici anni imparai la crudeltà del sacro principio di realtà: ‘The Show Must Go On’. GIà, lo spettacolo deve continuare, mentre in un ospedale qualcuno già avvisa un prete per un’estrema unzione. La vita prosegue, all’ingresso di una curva a sinistra che si percorre a 240 km/h in quinta marcia, mentre in tipografia i giornali battono in prima pagina: “LAUDA E’ IN PERICOLO DI VITA”. Quando estrasse Lauda dal rogo, Merzario per farlo stare tranquillo gli disse: “Non resterà alcun segno, fidati”. In realtà non andò proprio così. Lauda stupì tutti e quattro giorni dopo quel terribile incidente venne dichiarato fuori pericolo. E la prima cosa che fece fu verificare se Merzario gli avesse detto la verità. Capì subito che non fosse così. Ma disse anche che la voglia di vivere era più forte di quella di morire e lo dimostrò in fretta. Acquistando il famoso biglietto di ritorno. Il suo cammino sarebbe stato difficile, ma non si sarebbe tirato indietro. Pulì i polmoni con pratiche dolorose, raddoppiò gli sforzi e i programmi indicati dai medici, provò tormenti lancinanti ogniqualvolta riprese a indossare e togliere il casco. Anzi, lo fece modificare. Fece togliere parte dell’imbottitura per ridurre lo sfregamento sulle ferite non ancora rimarginate e limitare i sanguinamenti sul volto e sulla testa. E per quanto martoriato e sfigurato, Niki Lauda si ripresentò nel paddock di Formula 1 dopo soli 42 giorni da un incidente spaventoso. Orgoglioso delle sue ustioni e delle sue cicatrici. Delle sue ferite mai nascoste e sempre esibite. E a chi gli avrebbe chiesto negli anni a venire perché non ridurne l’evidenza con una plastica, avrebbe risposto sorridendo con i suoi incisivi da coniglietto impertinente ben in vista “perché tanto la macchina non si guida con la faccia, ma con il culo”. Ai box per correre il Gran Premio d’Italia, arrabbiato con Enzo Ferrari che non lo aveva aspettato, Niki Lauda arrivò 4° in gara. Dimostrando di essere sempre lui. Prima ritirarsi in Giappone, al Fuji, davanti a una pioggia torrenziale, di fatto cedendo il titolo mondiale a James Hunt. In seguito, Niki Lauda vinse ancora due titoli mondiali, poi diventò testimonial, manager, imprenditore di successo, uomo immagine, ambassador, commentatore tv. Crebbe cinque figli ed ebbe due mogli. Conseguenze di quell’incidente furono in seguito il trapianto dei due reni. E nel 2018, quello di un polmone. Ma il volto devastato rimase il suo marchio di fabbrica e l’inseparabile cappellino rosso, col quale copriva le cicatrici, ne divenne il simbolo. Vide morire tanti suoi colleghi ed ex colleghi. Senza mai capire perché solo a lui la vita avesse concesso un biglietto andata e ritorno per l’inferno in quel pomeriggio d’estate di quarantotto anni fa. Una volta mi disse: “Ho avuto fortuna. E la fortuna è come una moglie, devi sapertela tenere stretta”. Mi manchi, Niki. Ma dillo a me, che sono al terzo matrimonio…