5 ottobre 2014: l'incidente di Jules Bianchi, il pilota che ha vissuto il suo sogno

È una bella città, Nizza. Capitale economica e culturale della Costa Azzurra. Situata fra il mare e le montagne, turistica e commerciale, luogo di villeggiatura invernale ed estivo amatissimo non soltanto dai francesi, famosissima per la lunga e illuminata Promenade des Anglais che costeggia la baie des Anges, il lungomare cittadino che negli anni’60 rivaleggiava per notorietà con la mondanità chic della romanissima via Veneto, in un derby cinematografico per paparazzi fra la vicinissima ‘Croisette’ di Cannes e l’invidiatissima ‘Cinecittà’. È una città moderna, Nizza. Forse un po’ decadente come gran parte dell’occidente, ma ci si vive ancora bene e non ci si cresce male. C’è l’università, ci sono i musei, c’è un teatro, un’opera, un conservatorio, sale concerto e biblioteche. E se hai delle passioni le puoi coltivare, anche se un po’ particolari. In poco più di mezz’ora, percorrendo l’A8 si arriva a MonteCarlo e nel Principato già c’è tutta un’altra aria: aria di motori. Se poi quell’aria dei motori l’hai respirata già in famiglia, da bambino, non è difficile credere che presto Montecarlo possa diventare la seconda casa per un ragazzo che ha voglia di correre, sentire il vento fra i capelli, che ha talento e soprattutto desiderio di diventare qualcuno al volante. Jules Lucien André Bianchi, di chiare origini italiane, famiglia di radici lombarde, milanesi, era stato allevato a latte e benzina, essendo all’anagrafe nipote di Mauro Bianchi e consanguineo di Lucien Bianchi. Gli amici uno se li può scegliere, i parenti no. Lucien era mezzo italiano e mezzo belga, nato nel capoluogo meneghino alla fine si era ritrovato naturalizzato a nord della Senna e della Marna dove si era trasferito da bimbo con la famiglia. Il papà era un meccanico sportivo e ben presto lo avviò alle corse. Nel 1962 vinse una 12h di Sebring in coppia con lo svedese Jo Bonnier e nel 1969 una 24h di Le Mans con il messicano Pedro Rodriguez de la Vega. Ma si dedicò anche ai rally e approdò persino in Formula 1. Nel 1969, ancora a Le Mans, uscì di pista e morì in prova, dopo aver colpito un palo del telegrafo, nella sua Alfa Romeo T33 incendiatasi. In quanto al nonno Mauro, anch’egli milanese ma naturalizzato francese, nel 1965 aveva vinto una 500 km sul vecchio tracciato del Nurburgring proprio insieme al fratello maggiore Lucien, un GP di Macao l’anno dopo e aveva partecipato a ben sei edizioni della 24h di Le Mans. Abbandonando le corse dopo la morte di Lucien, per fare il collaudatore per il marchio Venturi. Con il sacro fuoco delle corse nel sangue, Jules Bianchi ebbe il destino segnato - nel bene e nel male - sin dalla più tenera età, distinguendosi nella pre-adolescenza alla guida dei go-kart e conquistando due secondi posti nel 2004, all’età di 15 anni, nei campionati di Francia e d’Europa e finendo sulle agendine dei più attenti talent scout del mondo dei motori, ai quali non sfuggirono i progressi negli anni successivi, salendo di categoria, a cominciare dal titolo di Campione Asia-Pacific e da una serie impressionante di risultati culminati nel titolo WSK International 125 Super-ICC. Così, il ragazzo fu giudicato pronto per passare alle monoposto e la grande occasione arrivò con le Formula Renault nel 2007. Alla prima stagione si laureò campione di Francia con 5 pole position, 5 vittorie e 11 podi. L’anno dopo conquistò a Zolder, il maledetto tracciato sul quale l’8 maggio del 1982 era morto in prova Gilles Villeneuve, i Masters di Formula 3 in Euroseries al volante di una ART GP, sotto l’ala protettrice di Nicholas Todt. E nel 2009 -insieme- conquistarono il titolo F3 Euroseries con 6 pole, 9 vittorie e 12 podi. Per tutti fu evidente che era arrivato il momento di fare il gran salto e approdare in cadetteria. Tra il 2009 e il 2010 Jules chiuse quarto in classifica generale la sua prima esperienza in GP2. Ma intanto la Ferrari prese a convocarlo a Maranello inserendolo in un programma giovani ancora allo stato embrionale per fargli provare prima a Jerez la F60 e poi -un anno più tardi- la F10 a Yas Marina, con il compito di effettuare test sui nuovi pneumatici Pirelli. Una vera e propria anticamera da terzo pilota. Jules era entrato nell’orbita del ‘pianeta rosso’ e già si incominciava a parlare di lui come il pilota del futuro per la scuderia del cavallino. Nel 2011 arrivò secondo nel mini campionato asiatico della GP2, partendo poi tra i favoriti della nuova stagione della GP2 Europa. Ma non andò esattamente come ci si attendeva, troppi up and down, troppi errori e troppi incidenti. Tuttavia l’anno dopo approdò ugualmente in Formula 1, grazie alla Force India, da terzo pilota, spesso impiegato nelle prove libere. Fino a un nuovo test di fine estate al volante di una Ferrari nel corso del quale stupì tutti segnando il miglior risultato cronometrico. Il 1° marzo 2013 arrivò il contratto con il Team Marussia, nato sulle ceneri sportive della Manor Racing, una scuderia britannica che per motivi di sponsorizzazione prima venne denominata Virgin Racing, poi Marussia Virgin Racing e infine assunse il nome definitivo. Jules venne presentato al posto del brasiliano Luiz Razia - i cui sponsor si erano tirati indietro - per affiancare il britannico Max Chilton. Bianchi sapeva che la monoposto del team diretto da Dave Ryan non fosse molto competitiva, ma aveva voglia di dimostrare talento e determinazione. In parte ci riuscì mettendosi subito dietro il compagno di scuderia. La Ferrari lo teneva d’occhio con attenzione, tanto che a fine 2013 gli aveva affidato il compito di testare le gomme per l’anno successivo insieme a Pedro De La Rosa. A Montecarlo Jules andò forte conquistando i primi punti del mondiale per la squadra. Poi proseguì il lavoro migliorando costantemente e progressivamente le posizioni in qualifica. La Ferrari sapeva di poter contare sul giovane nizzardo e ogniqualvolta si presentava un’emergenza ecco che scattava immediatamente la convocazione per Bianchi per partecipare alle attività della rossa. La stampa specializzata e i tifosi incominciavano a credere che oramai fosse quasi prossimo il momento in cui presto o tardi Jules sarebbe approdato a Maranello e Fiorano in tuta Ferrari, ma da pilota ufficiale. Molto amato dai tifosi, Jules ricambiava affetto e simpatia. Nella prima settimana di ottobre del 2014 il calendario propose il Gran Premio del Giappone. Non è una novità che a Suzuka ci si imbatta in condizioni meteo incostanti e al limite del proibitivo. Ecco, quel giorno, il giorno della gara, fu una giornata di quelle. Si trattava del quindicesimo appuntamento stagionale. Nella prefettura di Mie si trova uno dei tracciati più tecnici e spettacolari sui quali correre, grazie alla varietà delle curve, alla sua conformazione, alla difficoltà di sorpasso. Suzuka è stato spesso determinante per assegnare il titolo della Formula 1. Qui nel 1987 Nelson Piquet diventò campione del mondo aiutato dall’incidente che mise fuori gioco Nigel Mansell nelle prove; fra il 1988 e il 1990 Alain Prost e Ayrton Senna diedero spettacolo ruota a ruota e non senza polemiche; nel 1991 Senna piegò la resistenza tenace ancora di Mansell, fuori pista dopo pochi giri; nel 1996 Damon Hill e Jacques Villeneuve se le diedero di santa ragione in un derby in casa Williams valido per il titolo; nel 1998 e nel 1999 Mika Hakkinen beffò prima Michael Schumacher e poi Eddie Irvine; nel 2000 tornò s sorridere la Ferrari e aprì uno straordinario ciclo proprio il tedesco in rosso… Quel giorno di ottobre pioveva che Dio la mandava giù a secchi. C’era un fortissimo allarme per l’avvicinamento alle coste asiatiche di un super-tifone - Phanfone - che più avanti, in novembre, avrebbe prodotto disastri e lutti. Già si succedevano venti a folate da 130 km/h e piogge molto intense. Anche in quella domenica del Gran Premio che, nonostante lunghe discussioni e preso atto dei rischi, tuttavia non fu cancellato. Si decise piuttosto di avviare la corsa dietro la Safety Car per garantire sicurezza al gruppo, evitando una partenza da fermo, eventuali aquaplaning o perdite di aderenza, eccessivi spruzzi e nebulizzazioni con gravi difficoltà di visibilità per chi da dietro -sopraggiungendo- avrebbe potuto ritrovarsi qualche macchina ferma davanti per improvvisi stalli. Durante il terzo giro sotto Safety Car ecco apparire però una bandiera rossa a interrompere la corsa. Dopo una nuova partenza in sicurezza, ci vollero nove giri completi perché venisse esposta la bandiera verde che, solo al decimo giro, autorizzò i piloti a sorpassare ed entrare in competizione fra loro. Il tutto con una bassissima visibilità e condizioni di aderenza sul tracciato davvero molto precarie. Al quarantaduesimo passaggio, il tedesco Adrian Sutil perse il controllo della sua Sauber C33 e andò a toccare lievemente le protezioni alla curva Dunlop, formate dalle pile di gomme messe all’esterno della pista, uscendo di traiettoria. L’accaduto venne immediatamente segnalato dai marshall e vennero esposte le bandiere gialle nel settore di corsa interessato, per segnalare ai piloti che sopraggiungevano di rallentare e procedere con una certa cautela per evitare rischi di aquaplaning in quella zona. La Direzione Corsa non ritenne tuttavia opportuno esporre la bandiera rossa e lasciò proseguire la gara, mentre nell’area del contatto intervenivano dei mezzi di soccorso. Tutte le monoposto completarono il giro ma Jules Bianchi fu l’unico a non transitare sul traguardo. E senza rispondere al contatto radio del suo muretto. Quel silenzio destò angoscia fra i tecnici e nei box, fino a quando non si comprese che la Marussia di Jules Bianchi era uscita di pista esattamente nello stesso punto nel quale era uscita la monoposto di Sutil pochi istanti prima. Solo che, questa volta, oltre la pila di gomme c’era una gru caterpillar che si stava accingendo a rimuovere la Sauber, proprio lungo la traiettoria della vettura di Bianchi. Precipitosamente venne esposta la bandiera rossa, nove minuti dopo l’incidente, sei dopo l’inizio dei soccorsi a Jules, e venne comunicata la sospensione definitiva della corsa. Le tv non trasmisero le immagini dell’incidente, che vennero invece successivamente diffuse da spettatori e tifosi che in maniera del tutto occasionale avevano ripreso la tragedia e l’attimo del violento impatto della Marussia di Bianchi che andava a infilarsi, nella zona del casco, quasi sotto uno dei profili del caterpillar prima di proseguire la sua corsa folle. Jules fu estratto incosciente dalla macchina e trasportato in ambulanza al Mie General Hospital di Yokkaichi per un intervento delicatissimo e disperato al cervello, in attesa dei familiari dalla Francia insieme allo stesso chirurgo che si era preso cura di Michael Schumacher, Gerard Saillant, un luminare della chirurgia, amico fraterno di Jean Todt e fondatore dell’Istituto del cervello e del midollo spinale . Sono passati dieci anni da quel giorno. Per Jules l’agonia si protrasse ancora fino al 18 luglio del 2015. Nove mesi di attese, speranze, sofferenze, dolore, rimpianti, per un giovane di venticinque anni ridotto a un vegetale, senza conoscenza, in coma, al quale sono stati fatali i suoi sogni. In un attimo, per il venticinquenne pilota di Nizza tutto è diventato buio, fra i rivoli d’acqua e gli errori umani, a centotrenta km/h tutto è diventato una nuvola vuota circondata da mille perché, che da quel giorno non hanno mai trovato una risposta certa. Ma in fondo delle risposte oggi non sapremmo più che farcene, sono stati trovati nuovi accorgimenti, nuove regole per aumentare la sicurezza. La morte dei piloti -se non altro- serve almeno a questo, a progredire nella ricerca di un margine di sicurezza che non eliminerà tuttavia mai il rischio, perché il rischio nei motori esisterà sempre e farà sempre parte delle corse. E chi corre lo sa e –a modo suo- senza dar l’impressione di volerlo considerare, lo accetta.

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