Rassegnarsi non è da pilota

Con Marc Marquez al comando, in gara, nella classifica del mondiale, in frenata, in curva e forse pure alla cassa del supermercato, è un po’ come reggere Sinner senza Alcaraz, Coppi senza Bartali, Senna senza Prost. Perché nessuno dei suoi avversari è ancora in grado di arrivare dove lui si è messo e dove madre natura l’ha aiutato ad arrivare. Ma rassegnarsi non deve far parte del vocabolario. Ripensiamo intanto a chi ci ha combattuto quando era più giovane e sfrontato. A Lorenzo, a Rossi, a Dovizioso quando gli tenevano le ruote davanti dando vita ad un tipo di qualità in corsa che ancora oggi è un riferimento. Più mille punti, postumi, per loro che ormai si sono ritirati! Se con la Honda Marquez non aveva necessariamente tra le mani la moto perfetta, oggi invece ce l’ha. È perfetta, la Ducati, questa Ducati. Per lui è perfetta. Per gli altri, Pecco e Diggia, pare di no. Ma la storia è la solita, non si scappa: se il riferimento è Marquez è a Marquez che bisogna puntare. Non è valido e non è da pilota il ragionamento per cui se lui vince così allora la sfida è disperatamente persa e bisogna godersi quello che succede dietro come se fossero due campionati distinti. Può valere per chi sta a casa, non per chi va in pista. Un pilota, qualunque pilota, deve pensare di essere il migliore anche se non lo è per davvero. Il mantra di Melandri, una specie di autodifesa delle proprie capacità quando certi avversari sembravano imbattibili, era “anche lui ha due braccia e due gambe come gli altri”. Convincersi di questo era un modo di non rinunciare a niente e di tenere l’obiettivo di migliorarsi nel mirino delle ambizioni. Rossi e Lorenzo, anche nei loro momenti difficili, non si esprimevano come Melandri, ma la pensavano allo stesso modo e lavoravano di conseguenza fino a sfinirsi, puntando al meglio, anche a costo di far passare un sacco di tempo prima di vedere i risultati. Non è semplice, ma è così che bisogna pensare, anche perché i dati di Marquez sono a disposizione e, quindi, tecnicamente e teoricamente replicabili. La frustrazione cresce in chi a quel livello ci è stato e usa la stessa moto, tipo Bagnaia, che tra i problemi adesso ha anche quello di fare fatica a stare non con Marquez, ma pure con chi gli arriva dietro. Anche ammettendo che un avversario così come compagno tolga convinzione, distragga su di sé le attenzioni del team e faccia sembrare tutto più semplice di quello che è, c’è da credere a chi pensa che la Ducati da un anno con l’altro sia cambiata, magari poco, ma cambiata. Una piccola variazione oggettiva nel feeling e una grande variazione nelle classifiche generano una preoccupazione che può impattare sui risultati. L’inverno ha vissuto dei test in cui Marquez andava, andava e andava e Bagnaia, per loro stessa ammissione, provava mille soluzioni diverse, con il rischio che in pochi giorni a disposizione e mille variabili da sperimentare, i tempi non arrivassero e le idee si confondessero per presentare il conto solo a mondiale iniziato. Quelli dei ducatisti rossi sono pregi opposti: Marquez si adatta, Bagnaia è perfezionista. Se poi però la perfezione manca, Bagnaia paga, Marquez va. Guardandoli guidare una cosa si nota molto più delle altre, quella che denuncia Bagnaia da inizio mondiale, e si è vista benissimo al Balatonpark ungherese: quando Marquez frena, forte, non sfonda mai nell’eccesso. La sua Ducati continua ad accarezzare l’asfalto con la ruota dietro dissipando la sua velocità prima di entrare in curva senza traumi. La Ducati che ha sopra Bagnaia invece si ritrova con il posteriore per aria e tutto il peso sul davanti, che è proprio il peggio che possa capitare quando devi fermare la moto per mandarla in curva. Fino allo scorso anno l’italiano innescava una derapata progressiva in ingresso curva che lo indirizzava nel verso giusto, in una combinazione di movimenti che era perfetta. È proprio quella la dinamica che Bagnaia ha perso e che lo sta obbligando a cercare, forzandosi, un nuovo modo di guidare. Mica banale. Bagnaia, va detto, cade pochissimo. Cadere non piace a nessuno ed è il motivo per cui nonostante undici GP vinti contro tre di Martin, lo scorso anno perse il mondiale per un pugno di punti. Domanda senza risposta: Bagnaia dovrebbe rischiare di più? Il clima è onestamente pesante. Da una parte del box si festeggia, dall’altra è piombo. I vertici della Ducati si barcamenano tra applausi, baci, abbracci e pacche consolatorie. Non è da escludere che Bagnaia, che ha ancora davanti la fine del 2025 e tutto il 2026, si senta un po’ solo ed isolato. È naturale e capirlo e difenderlo - come ha fatto Dall’Igna- è un atteggiamento virtuoso. A volte è arrabbiato, come in Austria, si lascia prendere la mano e dà sfogo nelle interviste a caldo, a dei “dico-non-dico” che sull’orgoglio della Ducati pesano per forza. La classica situazione in cui tutti devono imparare qualcosa: Bagnaia a controllare gli impeti e a mettersi in discussione, la Ducati a non fargli mancare il supporto e a evitare che l’ebbrezza da Marquez li mandi fuori strada per il futuro, come accadde con la Honda, che da moto per tutti diventò moto per Marquez e poi - con il suo infortunio - indigeribile persino a lui. Ma la suggestiva e diffusissima teoria del sabotaggio che sostengono certi tifosi, no. Quella proprio no. Non c’è un motivo valido per cui la Ducati dovrebbe essere contenta di perdere Bagnaia o di vederlo andare indietro. Per i soldi che lo pagano, per quanto è importante per loro offrire al mercato l’idea di una moto versatile, di un team unito, per i dubbi che emergerebbero se nella situazione di Bagnaia si trovasse un altro pilota - magari più giovane - che dovesse prendere al suo posto. Non è una difesa della Ducati - che come Bagnaia qualche merito e qualche colpa di sicuro li conta in questa situazione - ma una difesa del buonsenso fino a prova contraria. Molto più liberi e fiduciosi nel loro inseguimento a Marquez ci sono gli altri, quelli delle altre moto e delle altre case. Sanno che questo mondiale è aritmeticamente segnato, ma lavorano per il dopo e credono nel dopo. Marco Bezzecchi con l’Aprilia si butta libero e a testa bassa nel lavoro e nella velocità. Con Marquez è quello che ci prova di più. Sia in Austria che in Ungheria è quello che ci ha lottato finché ce n’era, pur sapendo che da un certo punto della gara non ce ne sarebbe stato più. È quello che ha provato a usare la pressione, quello che ha provato a stare addosso per indurre all’errore e si è preso il podio. Atteggiamento giusto di uno che con l’Aprilia sta costruendo un miracolo. L’Aprilia funziona, molto meglio, tanto da aver restituito alla gioia e alla commozione anche Jorge Martin, appena giù dal podio in Ungheria, ma felice come un bambino a Natale. Anzi, è proprio come se si fosse ricreduto su quei dubbi manageriali che ne avevano devastato la primavera e la convalescenza. La KTM, andando onestamente sulla strada indicata dal gruppo dei tecnici italiani che poi erano stati mandati via, ha smesso di perdere tempo su modifiche continue del telaio e del motore, ha fatto ordine, ha varato una nuova aerodinamica che funziona e adesso i suoi piloti vanno tutti forte anche su piste diverse. Honda e Yamaha, ancora impegolate nelle rispettive rivoluzioni tecniche, si alternano in situazioni che mostrano miglioramento. Quartararo ha segnato pole consecutive, Marini in Ungheria ha finito una gara regolare e bellissima. Nessuno di loro ha dati della Ducati su cui fare confronti interni, nessuno di loro vive Marquez come un incubo. Ognuno di loro lavora per sperare, prima o poi, di prenderlo.

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Rassegnarsi non è da pilota

Guido Meda