Tutti danno per spacciati i Celtics, ultimo ostacolo rimasto lungo la strada che conduce alla più scontata delle finali tra Cleveland e Golden State: cosa può inventare coach Brad Stevens per ribaltare un pronostico a detta di molti scontato?
Recuperare quando si è sotto 1-3 in una serie playoff è un’impresa ardua, ma non impossibile, come i Golden State Warriors hanno dimostrato la scorsa stagione ben due volte, travolgenti prima contro gli Oklahoma City Thunder in finale di conference e travolti poi dai Cleveland Cavaliers durante le Finals. Il personale a disposizione delle due squadre favorite per il titolo però, ha aiutato non poco in quei casi ad accendere la miccia che ha ribaltato quelle due serie dopo gara-4. L’assenza di Isaiah Thomas poi non rende di certo più agevole il compito, nonostante le parole di Tyronn Lue delle scorse ore sembrassero lasciare intendere altro: “Da quando non c’è più Thomas, il loro attacco è diventato più imprevedibile”, è stata una delle frasi che più hanno fatto storcere il naso e battere le dita sui tasti dei loro pc ai tanti cronisti presenti all’allenamento dei campioni NBA in carica. Provocazione o meno, l’allenatore dei Cavs ha poi sottolineato come “difendere contro Boston sia più difficile che contro Golden State”. Un’esagerazione che nasconde una verità: se i Celtics voglio regalarsi una chance per provare a riaprire i giochi, devono rimettersi in moto soprattutto nella metà campo offensiva e fare leva su alcune delle cose che fino a oggi non hanno funzionato.
Il fattore TD Garden
Al momento la miglior squadra della Eastern Conference al termine della regular season non è riuscita a sfruttare il vantaggio conquistato con così tanta fatica nel corso della stagione: il fattore campo. I Celtics infatti si sono rivelati inconcludenti in attacco (ma non solo) nelle due sfide casalinghe, chiuse con un eloquente -57 combinato nei due incontri. Due imbarcate belle e buone, le prime di questa dimensione incassate in post-season, nonostante contro Chicago fossero già arrivate due sconfitte casalinghe in apertura di serie. Un’incapacità di imporsi figlia prima di tutto di un attacco apparso imballato, non in grado di andare oltre i 94.8 punti prodotti per 100 possessi (alla Quicken Loans Arena sono stati 112.3), dovuto a un combinato disposto di concause, tra le quali l’imprecisione nella gestione del pallone: le palle perse infatti schizzano a 17.5 di media nei due match al TD Garden rispetto alle dieci messe a referto sul parquet di Cleveland. La difesa, allo stesso tempo, non sembra aver garantito maggiore permeabilità in casa, anzi. Gli esagerati 120 punti di rating difensivo concessi in trasferta sembrano quasi un dato accettabile rispetto al 129.6 delle prime due sfide: così diventa davvero impossibile pensare di garantirsi almeno una possibilità.
Il fattore LeBron James
Tutto giusto, certo, ma quando ti trovi ad affrontare i campioni NBA, non sempre l’andamento della partita dipende esclusivamente dalla tua capacità di performare. Fare del tuo meglio non è detto basti se dall’altra parte il migliore giocatore del mondo decide di dettare la sua legge. Nelle prime due sfide LeBron James è stato stellare, un concentrato di efficacia ed efficienza contro cui sono via via rimbalzati i vari Crowder, Horford, Green e Brown. A Cleveland però, qualcosa è cambiato; come ha raccontato Al Jefferson (con qualche giorno di ritardo) a pesare sulla rivedibile prestazione in gara-3 di LeBron James è stata la sua non perfetta condizione fisica, tenuta volutamente nascosta dal numero 23: “So bene che lui non avrebbe voluto parlarne, ma questa mattina [ieri, ndr] Deron Williams ha saltato l’allenamento a causa di un malessere, un virus che lo ha svuotato di tutte le energie. È lo stesso problema che LeBron ha avuto in gara-3, ma nonostante tutto non si è tirato indietro. Adesso ne stiamo discutendo perché Marcus Smart ha tirato 7/10 da tre regalando il successo ai Celtics, altrimenti nessuno si sarebbe mai posto il problema”. Vedere James chiudere una partita sotto i 15 punti ai playoff in effetti è un evento più unico che raro; per quello diventa difficile confidare nel fatto che ricapiti nuovamente nelle prossime sfide.
Il fattore attacco
Impossibile trovare un antidoto a LeBron? Conviene allora concentrarsi sull’attacco il quale, privo di punte di diamante di rilievo, dovrà cercare di tirare il prima possibile ogni volta che ne avrà l’opportunità. Le percentuali realizzative di Boston infatti subiscono una trasformazione evidente quando i ragazzi di coach Brad Stevens masticano un po’ troppo l’attacco, cincischiano e si trovano ad affrontare la difesa schiarata. I dati ci vengono in supporto e sottolineano questo aspetto: si passa infatti dal 57.5% di percentuale effettiva quando il tiro arriva nei primi sei secondi di possesso, al 35.2% raccolto quando sul cronometro mancano dai sette ai quattro secondi allo scadere. A questo va poi sommata la necessità di arrivare a concludere il più possibile in maniera corale: i tiri tentati senza essere preceduti da alcun palleggio trovano il fondo della retina nel 49.2% dei casi; quelli dopo sette o più palleggi soltanto nel 30%. Gli isolamenti infatti non sono il pezzo forte di una squadra che ne gioca meno di tutte in questi playoff (il 5.1% dell'attacco dei bianco-verdi arriva da lì, contro il 15% dei possessi conclusi dai Cavaliers, primi in questa classifica sia per quantità che per punti per possesso ottenuti). Last but not least, i tiri così detti “wide open”, quelli aperti in cui il difensore è talmente lontano (oltre i 2 metri) da non essere più un ostacolo: in gara-3 sono andati dentro con una percentuale effettiva del 66.8%, ben al di sopra del 53.5% messo a referto nel resto della serie. Dunque, toccherà segnare ogni volta che la difesa dei Cavaliers concederà un tiro del genere, anche perché il basket resta uno sport semplice. Alla sirena finale vince sempre chi fa almeno un punto in più dell’avversario.