Nonostante l'eliminazione al secondo turno, la stagione dei Jazz è stata un enorme successo, considerando anche l'addio estivo di Gordon Hayward e un record ampiamente perdente a metà regular season. Ci sono però delle questioni da risolvere in estate per continuare a costruire sul trio Mitchell-Gobert-Snyder
Per fare un bilancio della stagione degli Utah Jazz bisogna necessariamente partire dal 4 luglio 2017. Nel giorno in cui gli statunitensi festeggiano l’Indipendenza, Gordon Hayward decide di mollare Salt Lake City e trasferirsi a Boston alla corte del suo mentore ai tempi del college, Brad Stevens. Un addio arrivato dopo quattro anni in cui il biondino dell’Indiana era migliorato costantemente stagione dopo stagione, partita dopo partita, diventando il punto di riferimento indiscusso dei Jazz.
È stato senza dubbio un duro colpo per Utah, che sulla conferma di Hayward aveva puntato molto se non tutto per continuare il percorso verso l’élite della Western Conference. Le mosse precedenti alla decisione del prodotto di Butler andavano nella direzione di creare un ambiente ancora più idoneo alle sue qualità: lo scambio per arrivare a un creatore di gioco come Ricky Rubio e il rinnovo del contratto di Joe Ingles (che ormai non è più solo il migliore amico di Hayward ma un giocatore che incide sui due lati del campo) andavano chiaramente in quella direzione. Nulla da fare: il richiamo dei Celtics e di Stevens è stato troppo forte.
La reazione è stata in linea con la lucidità che ha contraddistinto questi anni nella città dei mormoni per eccellenza. Panico? Disperazione? Niente di tutto questo. Dimenticare in fretta il passato e voltare pagina: è stato questo il mantra dei Jazz, aiutati dal fatto di avere in panca un allenatore estremamente pratico come Quin Snyder e un abile General Manager come Dennis Lindsey.
Giusto per farsi un’idea di cosa fosse Hayward per i Jazz
L’incrollabile identità difensiva di Utah
Difesa, difesa, difesa. Ripartire da qui era un obbligo per i Jazz visto che già l'anno scorso è stato il punto di forza e l’attacco, che già con Hayward faceva fatica dovendosi appoggiare alle ultime cartucce di Joe Johnson nei playoff, era da reinventare. In questa stagione il lavoro nella propria metà campo è diventato un fattore determinante tanto che la squadra ha chiuso seconda per rating difensivo a 101.6 (appena un decimo di punto in più rispetto a Boston) ma non solo. Sui 36 minuti Utah ha chiuso quarta per recuperi (6.5), seconda per punti concessi su seconde opportunità (8.1, meglio solo Charlotte), primi per minor numero di punti concessi in contropiede (7.1), secondi per minor numero di punti concessi nel pitturato (31.2, meglio solo Philadelphia). Una difesa che ovviamente ha girato per gran parte intorno alla figura di Rudy Gobert e alle sue capacità di coprire una quantità di spazio enorme sotto canestro; ma anche una fase difensiva di squadra attenta ed equilibrata che raramente si è fatta trovare impreparata.
Tutti fattori che si sono acuiti in maniera esponenziale dal 24 gennaio in poi. Il record da quella data alla fine della regular season è stato 29-6 con due strisce di vittorie consecutive da 11 e da 9. In questo arco di tempo i Jazz hanno avuto la miglior difesa della lega (96.5 di defensive rating), il miglior Net Rating (+12) e catturato l'80.7% di rimbalzi difensivi. Soprattutto quest’ultimo è il dato che pesa maggiormente, perché per una squadra che per struttura fatica ad avere un numero di possessi elevati – il “pace” di questa stagione è stato 97.78, 25° in NBA, comunque migliore del 93.62 del 2016-17, dato peggiore di tutte – avere il controllo dei rimbalzi è questione di vittoria o di sconfitta.
Diverse tessere hanno contribuito a questo puzzle. Innanzitutto il ritorno di Rudy Gobert, che delle prime 44 partite di stagione ne ha giocate solo 18 per rocamboleschi infortuni al ginocchio. Il francese è indiscutibilmente il centro difensivamente più determinante della lega: entrare nel pitturato con lui presente è un rischio enorme perché la combinazione di velocità, tecnica e lunghezza lo rende uno Zoncolan da scalare a piedi. Ci sono più di 7 punti di differenza nel rating difensivo tra Gobert in campo (97.7) e Gobert fuori (105.0).
L’esplosione di Mitchell e la consacrazione di Snyder
Poi la crescita esponenziale, costante, inesorabile di Donovan Mitchell. Aver sacrificato Trey Lyles pur di accaparrarsi il prodotto di Louisville era parsa una decisione intrigante già prima della partenza di Hayward: alla fine della giostra si è rivelata una delle scelte più illuminate degli ultimi anni, non solamente limitandoci a Utah ma considerando tutta l'NBA. La stagione da rookie del prodotto di Louisville è stata strabiliante, sia per come si è caricato la squadra sulle spalle sia per come ha fatto salire il proprio livello nei playoff come fosse un veterano navigato.
Ad aver influenzato il cambio di marcia e la scalata nella Western Conference è stato anche il mercato. Via Joe Johnson, che complici i problemi al polso non ha mai inciso e anzi avrebbe tolto palloni a Mitchell, e via Rodney Hood, che non ha mai fatto il salto di qualità sperato. Dal mercato è poi arrivato Jae Crowder, un 3&D voglioso di ritrovarsi dopo mesi tempestosi a Cleveland e che ha permesso a Snyder di schierare quintetti più versatili e difensivamente ancora più letali sui cambi difensivi. Ecco, il coach merita due considerazioni a parte: se già negli anni passati aveva dimostrato di avere idee chiare e capacità di incidere sulle partite, con il lavoro fatto negli ultimi 10 mesi si è superato. La capacità di combinare più difese in relazione ai propri punti di forza e alle caratteristiche degli avversari è uno dei talenti dell’ex assistente di Ettore Messina al CSKA. Aver rilanciato, in modo diverso, la carriera di Derrick Favors e Ricky Rubio, aver trovato un ruolo logico a Royce O’Neale e aver recuperato mentalmente e tecnicamente Alec Burks e Dante Exum dai loro calvari fisici sono tutti meriti da ascrivere a Snyder, nettamente uno dei candidati al premio di allenatore dell’anno.
Abbiamo dunque una squadra che, partendo da una situazione complessa dettata dall'addio della propria stella conclamata e dalla perdita di un altro giocatore importante come George Hill, ha chiuso la stagione esprimendo serissimi candidati a Difensore dell'Anno, Rookie dell'Anno e Coach dell'Anno. Inoltre ha disputato dei playoff strepitosi confermando il risultato dell’annata precedente, esaltandosi contro gli Oklahoma City Thunder e fermandosi solo davanti alla superiore completezza degli Houston Rockets. Giù il cappello.
Il manifesto della prepotenza fisica di Donovan Mitchell.
I nodi da sciogliere nel futuro dei Jazz
La stagione estremamente positiva e la presenza di molti punti fermi permette di operare con più tranquillità in off-season. Questo non vuol dire che non ci siano decisioni cruciali da prendere: non parleremmo di una franchigia NBA, altrimenti. Fermo restando che questa è e sarà la squadra di Mitchell e Gobert - l’ordine è interscambiabile in base alla metà campo di riferimento -, ci sono tre punti di domanda che aleggiano su Salt Lake City.
Il primo è Derrick Favors, free agent in estate. Contrariamente a quanto si pensava prima di questa stagione il lungo può giocare insieme a Gobert contro alcune squadre come ad esempio i Thunder (+23.9 di Net Rating in 132 minuti), ma è ovvio che la strutturazione con due lunghi sia sostenibile solo fino a un certo punto quando il livello si alza (-47 di Net Rating nei 30 minuti della serie contro Houston, nettamente la peggior combinazione di squadra). Nonostante i problemi della serie coi Rockets, Favors è comunque reduce da un’annata positiva: sostenuto anche da una certa integrità fisica, per la prima volta in carriera il rapporto assist/palle perse è stato superiore a 1 e in generale l’applicazione che ha messo sul parquet è stata notevole e sorprendente. Lui ha dichiarato che resterebbe volentieri in maglia Jazz ma il suo ruolo ideale in questa squadra al momento è riserva di Gobert, il che significa che se davvero la priorità è restare a lavorare con Snyder dovrà giocoforza ridurre le pretese economiche per lasciare margine di manovra alla franchigia senza che questa si appesantisca per una “riserva”.
Poi c'è Ricky Rubio. Lo spagnolo ha vissuto momenti di grande fiducia offensiva, tanto che la battuta “Toh, una tripla di Rubio” ha smesso presto di far ridere molto presto. I 16.1 punti a partita e il 35.2% su 4.4 tiri tentati per 36 minuti rappresentano i dati migliori della carriera NBA dell’ex enfant prodige di Badalona. La questione è se tutto ciò sia un’eccezione o possa invece essere l’inizio di un nuovo Rubio, non più battezzabile a cuor leggero e dunque coinvolgibile in attacco non solo come passatore. I miglioramenti al tiro piedi per terra (37.6% in stagione, 42% ai playoff) lasciano ben sperare in ottica di condivisione di spazio e palloni con Donovan Mitchell, anche se le percentuali nelle conclusioni dal palleggio rimangono drammatiche così come l’incapacità di chiudere al ferro. L’ex TWolves ha un altro anno di contratto a quasi 15 milioni di dollari: la dirigenza dei Jazz avrà quindi un ulteriore stagione per capire se vale la pena investire pesantemente su di lui, in pratica scommettendo sul proseguo dell’evoluzione offensiva di Rubio da fantasma a tiratore un minimo affidabile.
Infine Dante Exum, che ha un conto aperto con la sfortuna ormai da molto tempo. Quello che ha fatto intravedere nei playoff è il motivo per cui nel Draft 2014 venne spesa per lui la quinta chiamata assoluta. Basterà per convincere il GM Lindsey a offrirgli il rinnovo del contratto che scade a giugno? Il problema non sono le cifre, perché avendo saltato una stagione intera nel 2015-16 e gran parte di questa Utah può dargli poco più dei soldi che ha sborsato finora. La questione è più che altro tecnica e fisica, ovvero quanto una squadra che punta a fare il salto di qualità - leggi finale di Conference - possa permettersi di aspettare un giocatore potenzialmente di impatto, ma fragile più di un cristallo di Boemia avendone già un altro di questo tipo in Alec Burks, che il prossimo anno guadagnerà 11,5 milioni di dollari.
Australian Connection
Utah in questa eccellente stagione ha dimostrato di poter rimanere al vertice grazie alla lungimiranza, alla qualità del lavoro, al suo allenatore e all’abnegazione delle sue stelle nonostante aver ricevuto un colpo potenzialmente mortale durante la scorsa estate. Sono basi solide - unite alla capacità di reggere la pressione - su cui costruire un futuro che possa essere ancora più luminoso di quello che già sono riusciti a garantirsi in questa stagione.