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NBA, l'infinito dibattito su chi sia meglio tra Donovan Mitchell e Ben Simmons

NBA

Nicolò Ciuppani

Mai come quest'anno le tifoserie si sono polarizzate per il premio di Rookie dell'Anno, dando vita a uno scontro accesissimo anche per via del coinvolgimento dei due protagonisti. Ma chi è davvero il migliore tra Donovan Mitchell e Ben Simmons?

La rivalità a distanza che mette uno contro l’altro Ben Simmons e Donovan Mitchell è uno degli argomenti più discussi di queste stagione, una di quelle cose di cui ciclicamente ci si ritrova ad affrontare con gli amici. E il fatto che le due fanbase e gli stessi diretti interessati abbiano abbracciato l’idea di questa rivalità ha reso tutto più interessante di quanto dovrebbe normalmente  essere una chiacchiera da bar.

Il culmine della rivalità si è toccato quando Donovan Mitchell si è esibito nella Tecnica della Scuola Divina di Russell Westbrook, utilizzando il proprio guardaroba per tirare frecciatine all’avversario. Il motivo del contendere è stata una felpa con su scritta l’esatta definizione di rookie: “Un atleta [...] che gioca nella sua prima stagione come membro di una squadra professionistica”. (A dirla tutta la definizione stessa andrebbe in favore di Ben Simmons, in quanto descrive esattamente la sua posizione, avendo saltato l’intera stagione passata per un infortunio al piede). L’idea della felpa è nata in risposta a una frase di Simmons, che sosteneva di preferire se stesso al 100% per il premio di Rookie dell’Anno, quanto non ci sono altri giocatori al primo anno ad averlo impressionato. Donovan Mitchell, dal canto suo, ha preso nota.

Su una rivalità del genere si è ovviamente buttata a capofitto il resto della lega, con i giocatori a schierarsi da una parte o dall’altra su social e davanti ai media, con entrambe le tifoserie a sostenere il proprio eroe. Lo scontro non è giustificabile solo dal trofeo di Rookie dell’Anno in palio, che conta oggettivamente molto poco, ma dal fatto che si affrontano due tifoserie - quelle dei Sixers e dei Jazz - che negli ultimi anni hanno ingoiato molti bocconi amari. Ora che i loro rookie stanno rendendo con gli interessi tutto ciò che hanno dovuto sopportare, facendoli risultare ai loro occhi ancora più fenomenali di quanto lo siano effettivamente (e lo sono, eccome!), diciamo che da una parte e dall’altra si è andati un po’ oltre.

Dopo un finale in regular season stellare da parte di entrambi che ha reso incerto il risultato delle votazioni di fine anno, bisognerebbe fermarsi un attimo a pensare a quando sia una vera e propria rarità che due rookie del genere siano ancora in campo a inizio maggio. Solitamente i migliori giovani vengono scelti in posizioni del Draft dove le squadre non sono ancora competitive per la post-season, passando diversi anni di purgatorio a farsi le ossa in roster perdenti. Vederne due non solo ai playoff, ma veri e propri trascinatori delle rispettive franchigie, è una cosa più unica che rara. E chi si aspettava che i numeri di entrambi sarebbero calati con le difese più attente e gli scouting report più dettagliati ha dovuto ricredersi: Simmons è riuscito a imporre il proprio gioco come ha fatto per gran parte della regular season, e Mitchell non ha rallentato di un solo passo rispetto al ritmo tenuto in stagione.

Entrambi i giocatori sono stati protagonisti di annate pazzesche: per mettere le cose in prospettiva, entrambi avrebbero probabilmente vinto il trofeo se avessero effettuato l’esordio in un qualsiasi altro anno degli ultimi 15-20, ma si sono ritrovati invece a contendersi un solo premio per la gioia dei nostri occhi. E per mettere le cose ancora più in prospettiva occorre però far chiarezza fin da subito: Ben Simmons finirà per vincere il trofeo, ma il solo fatto che Mitchell possa in qualche modo far nascere un dubbio a qualcuno fa capire su quale razza di gemma si siano imbattuti i Jazz.

La candidatura di Ben Simmons

Al netto della brutta gara-2 di stanotte, Ben Simmons ha fatto vedere di essere un giocatore generazionale, un talento irripetibile in grado di condizionare il Gioco nella sua accezione più grande. La produttività di Simmons in entrambe le fasi del gioco è sbalorditiva per un giocatore che deve comunque ancora aggiustarsi ai ritmi e al gioco della NBA. L’australiano ha praticamente esordito con una stagione tendente alla tripla doppia di media (16 punti, 8.1 rimbalzi e 8.2 assist) tirando con una percentuale reale superiore al 56% senza mai tirare una sola volta oltre i 6 metri dal canestro. Solo sei giocatori nella storia hanno tenuto cifre simili per una stagione: Wilt Chamberlain, James Harden, Russell Westbrook, LeBron James, Magic Johnson e Oscar Robertson, e l’unico altro ad averlo fatto da rookie è “The Big O”. Una lista composta unicamente da MVP e Hall of Famer (o prossimi ad entrarci).

Simmons è stato anche una forza nella metà campo difensiva, capace com’è di cambiare indistintamente tra portatori di palla rapidissimi e centri da post basso. La sua difesa ha permesso a Philadelphia di giocare un quintetto schierando lui da point guard e lasciare che fossero gli avversari a risolvere il rebus, e non è di certo una dalla facile soluzione. Nessuna squadra vuole che la propria PG marchi Simmons a specchio, in quanto nessuna è così grossa da impedirgli di arrivare sotto al canestro per due punti facili, ma il fatto che Simmons possa finire il possesso difensivo sulla point guard avversaria significa costringere gli avversari ad effettuare degli switch in transizione su un sette piedi che si muove molto rapidamente e mette palla a terra meglio di molte guardie. La soluzione più semplice è quella di far collassare la difesa su di lui, aprendo degli spazi enormi nei quali i vari J.J. Redick, Marco Belinelli ed Ersan Ilyasova possono punire a piacimento. Simmons è già adesso uno dei migliori passatori del pianeta, riuscendo a leggere il gioco con uno o due secondi di anticipo ed effettuare passaggi che la maggior parte degli umani non è in grado di fare.

Posizionare un’ala su di lui non è nemmeno la soluzione ideale: un’ala sottodimensionata soffre il suo strapotere fisico che nella storia recente sembrava possedere solo LeBron - e Simmons ha la stessa capacità di leggere i raddoppi e far apparire il pallone sulle mani dei tiratori del Re di Cleveland -, mentre giocatori più grossi si trovano spiazzati in transizione, senza nessuna possibilità di contenere il passo con Simmons.

A metà campo le cose si fanno più equilibrate data la mancanza di gioco perimetrale dell’australiano, ma quando Phila schiera quattro tiratori, creando continue voragini di spazio nel pitturato, per Simmons è semplice mettere palla a terra e segnare nonostante il contatto con l’avversario, dato che le sue leve infinite gli permettono di segnare senza il bisogno di lasciare il difensore alle proprie spalle.

Non è un caso che i quintetti con Simmons e Joel Embiid sono stati tra i migliori nell’intera NBA, in particolar modo quelli con Simmons da point guard. Ad inizio stagione le combinazioni che vedevano Simmons giocare senza Embiid presentavano tutti una differenza-punti negativa, ma col passare della stagione il rookie si è adattato alla NBA e al suo gioco di blocchi e mismatch, finendo con il diventare un vero e proprio trascinatore nel finale di stagione mentre Embiid recuperava dall’infortunio al volto. Da quando è cominciato il 2018 Philadelphia batte gli avversari di 7 punti ogni 100 possessi quando Simmons gioca senza Embiid: ormai Simmons è fondamentale per Philadelphia allo stesso modo del camerunense, qualcosa di impensabile solo pochi mesi fa, e per certi aspetti è forse più importante dello stesso Embiid per l’identità della squadra.

La musica ai playoff non è cambiata, con coach Erik Spoelstra che ha provato a tirargli addosso tutti i difensori che aveva a roster mentre Embiid cannibalizzava ciò che resta di Hassan Whiteside. Nella serie contro i Celtics potremmo spesso vedere utilizzato Al Horford su di lui, una mossa che Stevens aveva già provato nei diversi scontri in regular season, affidandosi al genio difensivo del suo miglior giocatore, ma posizionare continuativamente Horford dando le spalle al resto dei suoi compagni in difesa potrebbe togliere per troppo tempo la “regia” difensiva al resto della squadra.

Contro i Celtics la musica sembra essere bruscamente cambiata. La miglior difesa della NBA ha infatti variato moltissimo il marcatore diretto di Simmons, passando da Horford a Smart fino a Ojeleye, contrastando via via tutti i suoi punti di forza con altri difensori altrettanto adatti. Tutti gli spazi verso il canestro sono stati chiusi e improvvisamente i Sixers si sono bloccati, scoprendosi vulnerabili quando il loro facilitatore non trova il ritmo per se stesso. Simmons, però, ha tutto il necessario per riprendersi nelle due gare a Philadelphia: può battere Horford in velocità, può sfruttare la sua altezza contro Ojeleye e deve riuscire a farsi forza contro Smart, che per ora sembra quello che gli sta dando più grattacapi. Ma soprattutto deve cercare di non forzare la mano, finendo a mezz’aria senza soluzioni di gioco a disposizione. Se non lo farà in fretta, la stagione dei Sixers potrebbe fermarsi molto prima del previsto.

La candidatura di Donovan Mitchell

Se Donovan Mitchell può provare a impensierire un giocatore come Simmons per il trofeo di rookie dell’anno lo si deve a tre fattori: la sua capacità di tirare da tre; il fatto che può giocare sia da portatore di palla che lontano dalla stessa; e per aver sostenuto il peso di essere il miglior realizzatore in una squadra di playoff ad Ovest.

Nessun rookie ha mai guidato una squadra ai playoff essendone il miglior realizzatore dai tempi di Carmelo Anthony, e gli oltre 20 punti con il 54.2% di percentuale reale sono dati su cui è difficile sorvolare. Perfino l’efficienza dal campo è ottima, nonostante sia più bassa di quella di Simmons, perché Mitchell è costretto a vivere di tiri molto più difficili, mentre Simmons spesso può scegliersi solo quelli più facili mentre Embiid massacra i migliori difensori avversari.

Mitchell ha polverizzato qualunque aspettativa ci fosse su di lui alla sua prima stagione in NBA: nemmeno nelle più rosee aspettative dei Jazz esistevano scenari simili a questo, e anche nell’improbabile caso in cui la sua crescita come giocatore non vada oltre il livello toccato quest’anno (compirà pur sempre 22 anni a settembre, cosa che non lo rende proprio un rookie di primo pelo), i Jazz hanno comunque fatto il colpo dell’anno scambiando Trey Lyles e la scelta numero 24 (Tyler Lydon) per prenderlo alla 13.

Mitchell si è ritrovato in una situazione praticamente irripetibile: una squadra da playoff con una solida base a cui era rimasto vacante il ruolo di realizzatore data la dipartita di Gordon Hayward in estate. Al pupillo di Pitino era richiesto “solo” di segnare il più possibile mentre il resto della squadra si prendeva cura del resto, e le sterminate braccia di Gobert possono coprire tutte le carenze difensive di un giocatore inesperto. Inusuale è anche il suo ruolo: raramente i rookie giocano tanti palloni quanti Mitchell, che ha appena fatto registrare il terzo Usage Rate più alto della storia per un rookie (29.1% di possessi “utilizzati”). Generalmente un esordiente con così tante responsabilità lo si vede solo in squadre in completo rebuilding che non sono interessate all’esito della partita.

L’importanza di Mitchell per i Jazz è stata inimmaginabile: senza di lui i Jazz sarebbero sprofondati nei meandri della classifica dopo un avvio da 19-28 e i primi segni di cedimento della coppia Gobert-Favors, invece grazie a lui hanno mantenuto un record positivo e sono esplosi in un finale di stagione strepitoso. Ma nonostante tutto Mitchell non è ancora il giocatore più importante per l’identità tattica dei Jazz, perché quello è un ruolo ancora saldamente nelle mani di Rudy Gobert.

Al primo turno di playoff Mitchell ha elevato ancora di più il suo gioco rispetto alla regular season, finendo con oltre 28 punti di media mantenendo il 46.2% dal campo, ma senza Gobert e la sua capacità di proteggere il ferro e impedire a Westbrook di guadagnare inerzia nella serie si sarebbe parlato di un risultato differente. Ma per quanti siano i vantaggi che porta il francese, questi non è ancora in grado di creare qualcosa in attacco per se stesso, ed è qui che la presenza di Mitchell si è rivelata fondamentale.

La sua caratteristica più importante è quella di riuscire a segnare anche nel minor spazio possibile. Se i Sixers allargano il campo a dismisura per facilitare Simmons, i Jazz non possono permetterselo schierando contemporaneamente Rubio, Favors e Gobert per larghi tratti della partita. Ciò nonostante Mitchell è riuscito a tirare per tutta la stagione con il 34% dall’arco (nella media NBA) con 7 tentativi a partita, finendo col segnare più triple di ogni altro rookie nella storia del gioco. Ma oltre al suo tiro in sospensione Mitchell fa affidamento ad un fisico molto peculiare: i suoi 190 centimetri sono leggermente più bassi della media dei suoi pari ruolo, ma la sua apertura di braccia, il suo tronco robusto e la sua capacità di saltare su dei razzi anche da fermo lo facilitano nel pitturato, quando si avvita attorno ai difensori per trovare uno spiraglio di luce verso il ferro o quando riesce comunque a tirare sopra la maggior parte dei difensori.

Ma ciò che lo ha reso davvero senza prezzo per i Jazz è la sua capacità di segnare senza dipendere dal possesso del pallone. Mitchell è nel 96° percentile per efficienza nei tiri piedi per terra, al pari di guardie come C.J. McCollum, Paul George e Klay Thompson, e questo ha permesso ai Jazz di far giocare Rubio da facilitatore, mentre Gober poteva dinamicamente supportare l’attacco con i suoi blocchi e i suoi tagli verso il ferro.

Contro i Thunder però Mitchell ha dimostrato di essere evoluto anche come tiratore dal palleggio, in particolare in gara-6 con una prestazione da 38 punti e 14/26 dal campo. Se il suo gioco risulta così efficiente anche prendendosi dei tiri molto dietro la linea del tiro da tre, anche un difensore favoloso come George è costretto ad alzare bandiera bianca.

Il resto del suo gioco però rimane molto più indietro rispetto a quello di Ben Simmons: la sua difesa, per quanto non faccia sfigurare e abbia margini di miglioramento dato il suo frame e la sua rapidità di piedi, non è minimamente al livello di Simmons ed è sopportabile solo per la presenza di Gobert; la sua capacità di creare con la palla in mano è ancora molto sotto il par (ha appena concluso una stagione con 3.7 assist di media contro 2.7 palle perse) e le sue letture nel pick and roll hanno ancora margine di miglioramento.

I Jazz dovrebbero rendergli più facile la vita in futuro circondandolo con più tiratori, e sicuramente ci sono ottimi motivi per pensare che il ragazzo a breve diventerà una presenza fissa negli All-Star Game e nei quintetti di fine anno. Ma lo strapotere tecnico e fisico di Ben Simmons e l’impatto globale che questi possono avere su qualsiasi partita, sono ancora inarrivabili.

Quest’anno gli Utah Jazz e i Philadelphia Sixers non giocheranno più l’una contro l’altra (a meno di un’improbabile finale da far saltare tutti i bookmakers), ma negli anni futuri la loro rivalità potrebbe riaccendersi e alimentare ulteriormente i motivi che abbiamo per guardarli giocare giorno dopo giorno.