La conferma di "PG13" per almeno le prossime tre stagioni è il coronamento di un corteggiamento durato un anno e rilancia le ambizioni dei Thunder, anche a costo di pagare una Luxury Tax esorbitante. Il piano, però, è sempre stato quello fin dall’inizio
«Potete smettere di parlarne, Paul non va da nessuna parte». La frase di Russell Westbrook, urlata in modo quasi casuale ai tifosi losangelini durante la media session dell’All-Star Game, è lo snodo della stagione degli Oklahoma City Thunder.
Poco più di quattro mesi dopo, sabato 30 Giugno, a meno di 24 ore dall’inizio della free agency, è arrivata la prima breaking news dopo una decina di giorni di “ottimismo” e di “tutte le indicazione puntano ad Oklahoma City” riprese dai media nazionali e locali: la voce era di un party segreto organizzato da Westbrook con il rapper Nas, a cui avrebbero partecipato molti dirigenti e giocatori dei Thunder ma, soprattutto, Paul George. Questa volta però non è stato uno dei più accreditati giornalisti del mondo a dare il via alle danze, bensì un parrucchiere estremamente noto nel mondo della NBA che, poco prima delle 8 di sera, ha twittato questo messaggio.
Sembra un tweet casuale, eppure viene ripreso e rimbalzato dai media più importanti, tra cui ESPN. Poco prima della mezzanotte, quando ancora la free agency non è ufficialmente iniziata, arriva la conferma finale di Adrian Wojnarowski.
Paul George è così rimasto un giocatore degli Oklahoma City Thunder.
Quattro anni, 137 milioni di dollari
La notizia migliore per i Thunder è arrivata circa un’ora dopo e ha lasciato di sasso 29 franchigie, nonché la totalità dei media. Invece di scegliere un contratto breve - come ad esempio due anni con opzione per il terzo che gli avrebbe dato la possibilità di uscire dal contratto con 10 anni di esperienza nella lega e dunque firmare ad un massimo salariale che vale il 35% del salary cap, per circa 40 milioni nel 2020-21 a salire contro i 35 di quello attuale - George ha deciso di firmare un 3+1, legandosi ai Thunder per almeno tre stagioni.
Ci sono tre possibili motivazioni per questa scelta. La prima ha le sue radici nell’estate del 2014, quando durante una partita di esibizione di Team USA in preparazione dei Mondiali FIBA George si procurò una frattura scomposta ed esposta a tibia e perone - un infortunio che avrebbe potuto porre fine alla sua carriera sportiva. Non è poco comune che sportivi che hanno subito tali infortuni cerchino una sicurezza finanziaria sul lungo periodo, soprattutto se si aggiunge il fatto che, durante l’estate, l’ala di OKC si è sottoposto a due interventi - un’operazione di pulizia al ginocchio e una al gomito per risolvere una borsite cronica.
La seconda è stata fatta notare da Wojnarowski ed è frutto del nuovo Collective Bargaining Agreement che regola i rapporti tra le squadre e i giocatori:
Ovvero, dopo i primi due anni, rinunciando alla player option, George potrebbe estendere ad altri tre anni per un totale di 7 anni e 290 milioni di dollari. Un bel movente.
Eppure, gli stessi guadagni (o forse qualcosa in più) si sarebbero potuti ottenere con altri scenari. Rimane quindi la terza ipotesi.
Russell Westbrook, Billy Donovan e Sam Presti
Durante tutta la stagione i segnali di George erano stati ben più che positivi, con incessanti apprezzamenti per il front office, per Billy Donovan e, soprattutto, per Russell Westbrook. Eppure, nessun tifoso e nessun giornalista vicino ai Thunder osava sbilanciarsi: le ferite dell’estate 2016 con il traumatizzante addio di Kevin Durant non erano ancora rimarginate e il timore di lasciarsi blandire da tali parole per poi rivivere il distacco era troppo grande. Le rassicurazioni di Westbrook durante l’All-Star Game registrate come una boutade classica della personalità esuberante del numero 0.
Perchè mai un giocatore top-15 di lega e forse top 5 nel suo ruolo dovrebbe scegliere un mercato di piccole dimensioni dopo aver espressamente richiesto uno scambio ai Los Angeles Lakers e con LeBron James diretto a L.A.? Perché scegliere un progetto ambizioso ma fallimentare, conclusosi con una bruciante sconfitta al primo turno per mano degli Utah Jazz? Perché scegliere Westbrook quando è stato uno dei motivi della fuga di Durant?
La risposta è che OKC ha compiuto un’operazione di reclutamento praticamente perfetta. Dal front office al coaching staff, OKC ha fatto di fatto corteggiato Paul George per una stagione intera, facendo sforzi sia economici che di cambiamento interno (mai ci si sarebbe sognati nell’era Westbrook-Durant di salutare l’arrivo di un free agent con un party aperto al pubblico di dimensioni colossali).
Russell Westbrook ha fatto il resto. Oltre a rendere estremamente efficiente il gioco di Paul George (53.3% la percentuale effettiva con Westbrook in campo, 48.5% senza), ha stretto un’amicizia solida fuori dal campo, ribadendo a più riprese durante l’anno che fosse quel rapporto la cosa importante - non la partenza con il record 8-12, non il rendimento ondivago e nemmeno l’uscita al primo turno. Come detto nella terza parte del suo speciale per ESPN: «Oltre a essere uno degli esseri umani migliori che io abbia mai conosciuto, il suo approccio al gioco è quello che attrae gli altri giocatori a unirsi a lui e costruire qualcosa insieme».
E alla fine, la strategia ha avuto successo. Paul George ha fatto eco alle parole del playmaker dei Thunder aggiungendo che questa stagione aveva un sapore amaro, una sorta di “unfinished business”. Sabato, con queste parole, ha suggellato il suo ritorno:
Perché ora ha senso pagare la Luxury Tax
La firma di George ha però un risvolto meno piacevole per la franchigia del proprietario Clay Bennett e, nello specifico, per il suo portafogli e quello degli azionisti. Per le regole vigenti nella NBA, se una squadra supera una certa soglia nel monte salari è costretto a pagare la famigerata Luxury Tax. Chi lo fa per tre delle ultime quattro stagioni incorre nella Repeater Tax. I Thunder sono in quest'ultima situazione e, ad oggi, si apprestano a pagare una cifra astronomica: dopo la conferma di Raymond Felton, si parla di oltre 300 milioni di dollari.
Per chi conosce la storia della franchigia, che per anni ha evitato di pagare la Luxury anche facendo movimenti di mercato discutibili (leggere: lo scambio di James Harden), questa situazione potrebbe risultare inconcepibile. E infatti la reazione dei media a tale possibilità e dei social è, oltre che di incredulità, di estremo disaccordo.
Nella lingua inglese c’è un modo di dire molto utilizzato e che si addice a questa situazione: “low-hanging fruit”, ovvero un frutto facilmente raggiungibile, ma poco succoso e saporito.
Il nostro low-hanging fruit è il seguente concetto (scritto in molte varianti), rimbalzato sulla rete da un enorme numero di media: i Thunder pagheranno 150 milioni di tasse per George, Westbrook e Carmelo Anthony, mentre nel 2012 non ne hanno pagati 45 per tenere insieme Durant, Harden e Westbrook.
Non c’è nulla di falso, ma dare un’occhiata al contesto generale da un altro punto di vista non guasta. Nel 2006 Bennett acquistò i Seattle Supersonics per 350 milioni di dollari (qui i dettagli) spostando poi la franchigia in Oklahoma nel luglio del 2008 e pagando un’ulteriore relocation fee di circa 25 milioni.
L’incredibile lavoro di Sam Presti regalò a Bennett quattro giocatori eccezionali nell’arco di tre anni: Durant, Westbrook, Harden e Serge Ibaka, che nel giugno 2012, dopo soli 4 anni dal trasferimento a OKC, si giocarono l’anello. E nessuno di loro era nel prime della propria carriera.
Dopo l’estate la franchigia, secondo Forbes, valeva 475 milioni di dollari, con un rendimento netto di 30 milioni per l’anno corrente. In quell’estate James Harden rifiutò un’offerta di 55 milioni per 4 anni, di appena 5 milioni inferiore alla massima offerta possibile. (Westbrook l’anno prima aveva rinunciato alla Rose Rule e a 16 milioni). Quella differenza, apparentemente risibile, avrebbe potuto far scattare nel giro di tre anni altrettanti pagamenti di Luxury e, infine, la Repeater Tax. Bisogna però ricordare che la vertiginosa crescita economica della lega dovuta al contratto televisivo avvenuta dal 2014 in poi, ed ancora stabilmente in corso oggi (in attesa che arrivino anche i ricavi dalle scommesse), non era nelle previsioni di nessuno. Stiamo quindi parlando di una tassa nell’ordine dei 40-50 milioni a fronte di una plusvalenza di 100 (475-350 -25), quasi il 50%.
L’idea di sviluppo dei Thunder era differente: risparmiare nei primi anni, sviluppando una squadra sostenibile per spendere nel picco della carriera delle sue stelle. Sebbene l’uscita di scena di KD abbia rallentato questo processo, acquisita una star come George e avendo un MVP come Westbrook per i prossimi 5 anni, il piano rimane. E i numeri, oggi, sono molto diversi: la previsione è 140 milioni di Luxury Tax a fronte di una plusvalenza di più di un miliardo sul valore della franchigia, meno del 15%.
Questo è un conto grossolano e rozzo e meriterebbe un approfondimento più preciso, ma è utile a capire mettendo in prospettiva le due situazioni monetarie, unitamente allo scenario economico della lega, quanto differente sia la situazione di allora con quella di oggi. Paragonare la NBA del 2012 a quella del 2018 è estremamente scorretto.
I Thunder hanno fatto all-in su questa squadra andando contro la retorica dello “small market” che non può spendere e risollevandosi nel giro di due stagioni da una perdita che avrebbe potuto stroncarne il futuro come quella di KD. Come direbbe il suo leader Russell Westbrook: #whynot?