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NBA, intervista con Andre Iguodala: "Il razzismo è un problema della gente bianca"

esclusiva

Mauro Bevacqua

©Getty

Si intitola "Il sesto uomo" l’autobiografia del giocatore dei Miami Heat appena uscita in Italia. L’occasione giusta per un’intervista esclusiva con il tre volte campione NBA e MVP delle finali 2015, “stufo marcio del razzismo sistematico che impera negli USA”. La scelta di Miami, i suoi Warriors vincenti, i Chicago Bulls di Jordan, le sfide con LeBron James e gli italiani nella lega: Iguodala racconta tutto

È stata un’estate a cambiare la vita di Andre Iguodala. Lo racconta lui stesso nelle primissime righe della sua autobiografia "Il sesto uomo" — scritta con Carver Wallace e appena pubblicata in Italia da add editore. E “quell’estate — scrive — il mio universo di possibilità si trovava, tra tutti i posti del mondo, a Orlando, in Florida. A Disneyland, per essere precisi”. No, Iguodala non sta parlando di quest’estate, ma di quella di 19 anni fa — era il 2001 — quando per la prima volta, in viaggio verso la Florida per un torneo estivo con una squadra AAU formata da ragazzi di Chicago, sente di appartenere a qualcosa di più grande, sente dentro di sé che forse può farcela. Capisce che la pallacanestro può essere la sua carta vincente per lasciare Springfield, Illinois, dove è nato, cresciuto e dove — secondo l’insegnamento della nonna — “se non stai attento rischi di rimanere per sempre”. Così oggi è una coincidenza davvero curiosa che quando andiamo a intervistare Andre Iguodala manchi poco più di un mese a un’altra estate a Orlando, Florida — “Disneyland, per essere precisi”. Da qui riparte la NBA, dopo lo stop per la pandemia. Da qui ripartono i suoi Miami Heat, al momento titolari del quarto record a Est. Ma l’uscita nelle librerie italiane de Il sesto uomo è l’occasione per fare due chiacchiere con l’ex MVP delle finali NBA 2015 su tanti temi diversi, perché Iguodala è personaggio eclettico e interessanteDi cultura verrebbe da dire se non sembrasse quasi anacronistico, come gli insegnamenti da lui ricevuti da nonna Poletha Webster e da sua madre Linda Shanklin, sempre chiamate per nome sulle pagine della sua autobiografia — perché i nomi sono importanti. Come quelli di Michael Brown e di Trayvon Martin ieri, di George Floyd e Breonna Taylor oggi. Perché il razzismo ha un ruolo contrale nelle pagine de "Il sesto uomo" e tanti sono i temi a cui Iguodala sembra appassionarsi, tanti quelli contenuti nelle quasi 300 pagine della sua autobiografia. Ma partiamo dalla NBA che ritorna in campo dopo una lunga pausa, e da una squadra per lui ancora nuova, gli Heat. 

Iguodala, perché Miami?

“Perché sapevo che il loro focus è la vittoria: a Miami hanno una cultura che riesce a massimizzare le opportunità e a tirar fuori da ciascun giocatore sempre il massimo. Qualche anno fa lessi il libro scritto da Pat Riley, The winner within: da allora sono sempre stato un suo grande tifoso”.

Più di 4 mesi senza NBA, un’astinenza lunghissima, rotta solo dalla favola di Michael Jordan e dei Chicago Bulls di “The Last Dance”. L’ha visto?

“Certo che l’ho visto. Lo hanno visto tutti”.

Quei Bulls 1997-98 le hanno ricordato gli Warriors 2018-19? Qual era il "mood" dentro lo spogliatoio di Golden State, la scorsa stagione? 

“Considerando tutto ciò che di pazzesco girava attorno alla squadra direi che l’umore e lo stato d’animo all’interno del nostro spogliatoio sono sempre stati molto solidi. Se devo paragonare le due situazioni, mi viene in mente quando Michael [Jordan] raccontava di come non potesse andare da nessuna parte perché tutto il mondo sembrava volergli stare vicino, avere un pezzo di lui. È molto simile all’interazione coi tifosi che abbiamo vissuto noi, amplificata ancora di più dalla presenza dei social media”.

Cinque finali in cinque anni, tre titoli NBA, la stagione regolare migliore di sempre (73-9): i suoi Golden State Warriors possono essere considerati la miglior squadra di sempre?

“Vincere tre titoli in cinque anni in effetti è davvero un ottimo risultato. Ma è difficile paragonare il nostro gruppo alle grandi squadre del passato, perché noi abbiamo giocato con regole diverse, in un’era diversa”. 

All-Star. Campione NBA. Oro olimpico. MVP delle finali NBA. Quale di questi traguardi ha più significato per lei? 

“Sono tutti risultati eccezionali, ma guardo a questi riconoscimenti come alla conseguenza di aver provato a massimizzare i diversi talenti che ho avuto la fortuna di ricevere in dono lungo tutto l’arco della mia carriera. Cerco di fare in modo che non sia un premio a definire il mio successo”.

Le sue battaglie in finale contro LeBron James sono diventate leggendarie, un mix di tecnica, atletismo, istinto e intelligenza cestistica. Lei come le descriverebbe?

“Se la componente atletica sicuramente ha un ruolo, per giocare nella NBA devi essere in grado di eseguire a un livello di perfezione assoluta. La gente tende a sottovalutare l’aspetto mentale del gioco e l’intelligenza di molti di noi giocatori. Per affrontare LeBron mi preparavo in maniera maniacale: avevo studiato come spesso la sua prima giocata offensiva prevede un contatto fisico con il quale cerca di spazzarti via dal campo. LeBron è fortissimo fisicamente, per cui spesso funziona. Ho sempre pensato che se fossi stato in grado di reggere quel primo contatto senza muovermi, allora avrebbe dovuto cambiare in corsa il suo piano. Nell’affrontarlo un’altra delle mie priorità era quella di avere sempre presente dove sarebbe stata la palla: se fossi riuscito a restare concentrato, sarei riuscito a strappargli il pallone circa sei volte su dieci”. 

Nel suo libro dedica bellissime parole a Danilo Gallinari, suo compagno di squadra a Denver. Che cosa può dirci degli altri due italiani nella lega, Marco Belinelli e Nicolò Melli?

“Melli l’ho affrontato in campo una sola volta, troppo poco per dire di poterlo conoscere. Belinelli si adatta alla perfezione a quello che è lo stile di gioco della pallacanestro moderna, nella quale il tiro è una componente fondamentale, di grande valore. È davvero impressionate la sua capacità di tirare in movimento, che sia sulla sua spalla sinistra o su quella destra. In attacco è molto pericoloso anche perché è bravissimo a muoversi in continuazione, anche senza palla”.

Un’ultima domanda non può non riguardare l’attualità, e quello che sta succedendo fuori dal campo. Cosa prova quando vede una persona di razza bianca come Gregg Popovich vicino alle lacrime nell’affrontare il tema razziale?

“Anche le persone non di colore sono stufe marce — proprio come noi — del razzismo sistematico che impera nel nostro Paese. Sono fortemente convinto che il razzismo sia un problema delle persone bianche: spetta agli oppressori riconoscere la posizione di privilegio che i propri antenati hanno costruito per loro, e sta a loro per primi essere responsabili affinché tutto questo possa cambiare”.