Se potessi parlare 8 minuti con Kobe…

“Per me è il modo in cui ha ispirato le persone. L’essere riuscito a motivare qualcuno che non ha mai incontrato di persona e che viveva a 2000 miglia di distanza da lui. Bambini, ragazzi e non solo si sono ispirati a lui guardandolo giocare in TV, le sue interviste, quanto duramente lavorava, negli alti e bassi della sua carriera”. Con queste parole Jayson Tatum ha spiegato perché – secondo lui – Kobe Bryant è il miglior giocatore di sempre della NBA. Senza voler entrare nel merito della discussione su chi sia il GOAT del basket, su un punto sono completamente d’accordo con Tatum: il più grande lascito di Bryant al basket – e allo sport in generale – è la sua mentalità. Una mentalità che ha ispirato tanti sportivi e tifosi. Kobe – che oggi avrebbe compiuto 46 anni – è stato fondamentale per l’NBA e soprattutto per quella generazione di giocatori che stanno diventando ora le superstar della lega . Ragazzi che magari si sono allenati con Kobe nella off season o che hanno ricevuto un consiglio da lui e che vedevano in Kobe un punto di riferimento per stile di gioco, capacità, ferocia agonistica e voglia di vincere. Già, la voglia di vincere. Lebron James una volta disse: “Tutti a parole vogliono vincere, poi in quanti fanno tutte le cose necessarie per arrivare a vincere?”. Ecco, Kobe era uno dei pochissimi a fare davvero tutto per riuscire a vincere. Ciò che lo ha sempre differenziato dagli altri è la capacità di sacrificare tutto per arrivare all’obiettivo. Per Kobe tutto era in secondo piano rispetto a quel desiderio divorante, a quell’ossessione di vincere, a quella voglia di diventare come Jordan, il grande idolo. Spesso però si sottovaluta che per arrivare a quel livello – quello dei più grandi – si devono sacrificare tante cose. Kobe partiva da ottime basi atletiche e tecniche e non si è mai fermato. Ha lavorato ogni giorno per migliorarsi. Aveva un’etica del lavoro unica al mondo. Ha sacrificato tutto, anche il suo fisico. Ha giocato in condizioni in cui altri giocatori non avrebbero neanche pensato di alzarsi dal letto, come il 12 aprile 2013, quando contro Golden State ha tirato con un tendine rotto i due tiri liberi appena conquistati prima di lasciare zoppicando il parquet. E spesso questa sua attitudine influenzava in maniera positiva anche i compagni, come quando trascinò “The Redeem Team” alle Olimpiadi di Pechino 2008. Prima della partenza per la Cina la nazionale americana era in ritiro a Las Vegas e in una della prime sere alcuni compagni di Kobe uscirono per locali. Rientrarono in hotel alle 5 del mattino e in ascensore trovarono Kobe che stava andando in palestra ad allenarsi. Risultato? Dal giorno successivo tutti iniziarono ad andare in palestra alle 5 del mattino. E anche grazie a questo gli Usa riconquistarono l’oro olimpico dopo la delusione di quattro anni prima ad Atene. Ma questo atteggiamento e questa mentalità lo hanno condannato anche a una grande solitudine, come raccontato da lui stesso più volte. Kobe non ha mai voluto diventare amico dei suoi compagni di squadra, erano solo parte del suo percorso. Bryant, come Jordan, era una persona con una missione e non faceva sconti a nessuno. E questo porta allo scontro. Come successo con Shaq, uno che non aveva la stessa etica del lavoro di Kobe. Bryant partiva da un presupposto ‘semplice’ : se io – che sono Kobe Bryant – mi alleno così tanto, tutti i giorni, tutte le estati, tutti gli anni, mi aspetto che anche gli altri lo facciano. Come riassumere tutto questo? Due parole: Mamba Mentality. Kobe metteva in campo un’aggressività fuori dal comune. Entrava sul parquet con una ferocia che gli avversari sentivano. Dicevano la stessa cosa di Jordan, gli avversari quasi non riuscivano a guardarlo negli occhi. Entrambi avevano uno spirito competitivo portato all’estremo. E poi per Kobe la vittoria era il sollievo dalla non-sconfitta. Se la godeva per tre minuti e poi già pensava alla prossima sfida. Mi viene in mente Jerry West, un altro divorato dalla voglia di vincere. E, purtroppo per lui, uno che ha anche perso tanto in carriera. È proprio una questione di non riuscire a viverla altrimenti. Ma attenzione, guai a identificare Kobe solo come un giocatore forte mentalmente e fisicamente. A livello tecnico e tattico non aveva nulla da invidiare a nessuno. Negli anni ha lavorato tantissimo sul palleggio, arresto e tiro e poi, piano piano , ha costruito il gioco di piedi per lavorare in post basso, cosa che prima non aveva. Una capacità di lavorare su tutte le minuzie del gioco. Anche durante gli infortuni, quando tornava lo ritrovavi migliorato sotto qualche aspetto tecnico. Era fortissimo nei fondamentali e sapeva giocare con la squadra . E poi a livello tattico… leggeva il gioco come nessuno e capiva in anticipo cosa fare o non fare. Anche livello difensivo è stato molto sottovalutato, quando lo voleva poteva annullare ogni avversario. A queste capacità, andava poi aggiunta la personalità. Ala voglia estrema di prendersi il tiro decisivo in ogni gara e a volte questo lo portava a forzare qualcosa. Per tutti questi motivi, io sono convinto che avrebbe potuto dare ancora tanto all’NBA e al basket in generale. E stava già facendo tantissimo. Aveva aperto la Mamba Sports Academy e avrebbe potuto lavorare con tanti giocatori e farli crescere. Alcuni hanno avuto il tempo di farlo, come Tatum. Era molto attento al basket femminile, grazie alle figlie. E chissà, con la sua mentalità un giorno sarebbe potuto diventare il proprietario di una squadra. Aveva già iniziato a fare l’imprenditore e anche lì non si accontentava di farlo e voleva diventare il numero uno. Per riuscirci, non si vergognava di chiedere consigli a chi era più esperto di lui. Da ragazzo lo faceva con Jordan e negli ultimi anni di vita con i grandi businessmen americani. Nel 2018 ha vinto l’Oscar con il suo cortometraggio "Dear Basketball". Questo perché per Kobe partecipare non era un’opzione, contava solo e sempre vincere ed essere il migliore. Ogni cosa che faceva la faceva al massimo e per arrivare al livello più alto. Queste sue qualità si percepivano anche solo osservandolo. Nel 2004 avevo appena iniziato a lavorare per Sky e andai in America per le finali NBA tra Lakers e Detroit. Non dovevo commentarle, ma andai come aggiornamento professionale. Ricordo che quando Kobe entrava in una stanza si respirava nell’aria qualcosa di diverso… una sorta di aura, qualcosa che è solo dei grandissimi. Gli occhi di tutti erano su di lui anche se non era l’unico campione in campo. Kobe era qualcosa di diverso. Si sentiva che lui poteva fare qualcosa di diverso e solo guardandolo si avvertiva il suo carisma. E poi, parlando di quelle Finals, non posso dimenticare il tiro che segnò allo scadere in gara due. I Lakers persero quelle Finals ma quel momento rimane semplicemente incredibile. L’ho visto giocare tante volte ma non ho mai avuto l’opportunità di parlarci. Se potessi farlo oggi, gli chiederei da dove venisse questa sua fame inestinguibile di voler essere il numero uno. Sembra una domanda banale, ma a quei livelli è quello che fa la differenza. E poi gli direi semplicemente grazie. Grazie per tutto quello che ha fatto per il mio sport. Il basket, non solo l’NBA, gli deve essere grato.