NBA, Kevin Garnett ha rivoluzionato il gioco più di Michael Jordan

Nasce tutto da una provocazione: "Kevin Garnett ha rivoluzionato il gioco più di Michael Jordan". No, non abbandonate subito indignati il pezzo, questo non è un delitto di lesa maestà verso "His Airness" né una semplice esagerazione per attirare la vostra attenzione. Al centro della provocazione - che tale rimane - c'è il significato delle due parole, e non il valore assoluto dei due giocatori. L'evoluzione come "trasformazione, graduale e continua"; la rivoluzione come "mutamento radicale, sconvolgimento". Vengono in soccorso, ad esempio, i celebri soprannomi affibbiati ai due campioni: non a caso Kevin "The Revolution" Garnett e Michael "Air" Jordan. Se per il primo il nickname dice già tutto, "Air" evoca invece quella dimensione aerea, verticale, che Jordan ha coniugato con una perfezione tecnica e un killer instinct che lo hanno reso unico, ma che in sé non sono necessariamente stati rivoluzionari. Forse il primo è stato Elgin Baylor, a introdurre la verticalità nel gioco NBA; poi di sicuro ci hanno pensato Julius Erving e di certo anche quel David Thompson a cui spesso Michael Jordan ha confessato di essersi ispirato, da ragazzino, mentre lo vedeva volare sopra le difese avversarie al college di North Carolina State prima ancora che nella ABA e nella NBA. Jordan ha perfezionato l'arte di giocare volando , ma non è stato il primo e di certo non è stato l'ultimo, visto che dopo di lui sono arrivati i vari Kobe Bryant, Vince Carter, oggi Anthony Edwards e altri ancora. Per il discorso che si vuole affrontare qui, proprio il caso Bryant è perfetto: la grandezza assoluta del giocatore è fuori discussione, lo testimoniano le vittorie, i record, i primati, gli highlights di una carriera irripetibile, ma Kobe è stato - per sua stessa ammissione - la "copia carbone" di Michael Jordan. Non ha rivoluzionato, cosa che invece ha fatto, eccome, un giocatore come Kevin Garnett . Perché quando Kevin Garnett entra nella NBA, nel 1995, entra in una lega in cui i quattro migliori marcatori rispondono al nome di Shaquille O'Neal, Hakeem Olajuwon, David Robinson e Karl Malone. Quattro lunghi che attorno al canestro costruiscono le loro fortune, che dominano l'area, e da lì tendenzialmente tendono a non allontanarsi. Poi arriva questo ragazzino di 2.11 che aveva messo a ferro e fuoco la competizione dei licei di Chicago e inizia a far vedere che un giocatore di quelle dimensioni può mettere palla per terra, tirare dal gomito , cambiare su ogni avversario difensivamente e interpretare la pallacanestro con una versatilità che fino a quel momento, con quel bagaglio di centimetri, nessuno aveva mai messo in mostra. Non a caso il soprannome arriva puntuale e naturale: "The Revolution". Una rivoluzione che poi continua, con Kevin Durant prima e con quelli che negli anni '10 del nuovo millennio vengono ribattezzati gli "unicorni". I nomi li conoscete: Anthony Davis prima, poi Giannis Antetokounmpo, quindi i vari Kristaps Porzingis e Karl-Anthony Towns fino ad arrivare a Chet Holmgren. La loro è una tipologia di giocatore che è stata definita rivoluzionaria, ma che in realtà può anche essere vista come la naturale evoluzione della strada tracciata proprio da Kevin Garnett all'ingresso nella lega. Perché il termine "rivoluzionario", forse, lo si deve riservare solo all'ultimo esponente di questa carrellata di giocatori, l'uomo per cui anche il termine "unicorno" risulta andare stretto, tanto che se ne è coniato uno nuovo. "L'Alieno". Victor Wembanyama. Perché il salto, qui, è tanto nelle dimensioni fisiche che nelle capacità tecniche, nel talento puro: il francese degli Spurs è il migliore stoppatore della NBA ma tira da tre oltre 9 volte a partita e lo fa con una naturalezza mai vista. Wembanyama è oggi, il giocatore più rivoluzionario che la lega ci propone e sembra quasi sfidare la fantasia umana per provare a immaginare dove si potrà ancora evoluire in futuro. Ma dal passato e dal presente di ulteriori esempi non ne mancano. All'inizio degli anni '80, quasi mezzo secolo fa, un rookie di nome Magic Johnson prende in mano i Lakers e lo fa giocando da point guard nonostante i suoi 206 centimetri. Non si era mai visto prima . "Altezza mezza bellezza", dice un detto popolare, che in parte è vero ma in parte anche no. E difatti il lusso di avere un playmaker sopra i due metri diventa una moda e una tendenza che molte squadre nella lega inseguono, chi con più successo, chi con molto meno. Tra i primi casi va sicuramente inserito quello di Penny Hardaway, e forse anche quello di Shaun Livingston ; sugli esperimenti Michael Carter-Williams e Ben Simmons invece i risultati sono stati meno brillanti. Certo però che Magic ha anche lui, come Garnett, aperto una strada poi imitata dagli altri: ha rivoluzionato il gioco, ha mostrato qualcosa di mai visto prima che poi ha fatto scuola. Un capitolo a parte potrebbe meritarselo LeBron James, unico - e quindi rivoluzionario - nell'unire ogni talento e ogni caratteristica tecnica in un solo giocatore . Di sicuro rivoluzionario poi è Steph Curry, che il gioco lo ha cambiato con le triple a bersaglio ma ancora di più con la distanza da cui le prende e le manda a bersaglio. Perché la sua pericolosità lontano da canestro, la sua capacità di attirare la difesa tutta su di sé e di aprire il campo è ciò che ha reso inarrestabili i Golden State Warriors che sono stati, a oggi, l'ultima dinastia NBA conosciuta. Più spazi vuol dire più tagli, maggior movimento di uomini e palla. C'è un giocatore rivoluzionario, Curry, alla base dello stile di gioco di una squadra poi magnificato da Kerr sfuttando le caratteristiche dei suoi interpreti - ma ci sono anche rivoluzioni che nascono da un'idea, come quella dello "scienziato pazzo" Daryl Morey, e de suo cosiddetto "Moreyball". Ovvero, la pallacanestro che predilige tiro da tre e tiri al ferro, snobba il mid-range ed estremizza questi concetti. Morey costruisce una squadra, gli Houston Rockets, cercando sul mercato giocatori con queste caratteristiche e poi plasma James Harden a giocatore simbolo di uno stile che oggi ha condizionato tutta la NBA . Già, gli allenatori. Non possono mancare loro, tra i rivoluzionari del gioco. Mike D'Antoni e i suoi Phoneix Suns dei "7 seconds or less", capitanati da Steve Nash, con uno stile poi imitato e adottato da tante altre squadre. Ma prima di lui anche Phil Jackson che si affida a Tex Winter e a un sistema di gioco - il Triangolo - nato negli anni '40 per sfruttare al meglio le caratteristiche e il talento di Michael Jordan, fino ad allora superbo individualmente ma ancora senza vittorie. I Chicago Bulls degli anni '90 che vincono tutto sono quindi l'unione di quello che forse è il più forte giocatore di tutti i tempi con un'idea di pallacanestro che non è nuova ma è comunque rivoluzionaria. Poi non sempre i rivoluzionari vincono, lo dice la storia sportiva e non solo. Per vincere ci vuole anche altro, ma il fascino di chi cambia è irresistibile come poche altre cose. Anche nel mondo NBA.

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