Perché Payton Pritchard è così speciale

La storia della NBA gira anche attorno alla figura del sesto uomo, giocatore che entrando dalla panchina cambia il corso delle partite. Una figura decisiva a partire da John Havlicek, vero e proprio inventore del ruolo con i Celtics dominatori tra gli anni ’60 e ’70, a cui non a caso dal 2023 è intitolato il premio che va al "Sesto uomo dell’anno". E c’è anche chi, come Andre Iguodala nel 2015, passando momentaneamente dalla panchina al quintetto base è diventato addirittura MVP delle Finals. Eppure, il ruolo di sesto uomo risulta spesso sgradito e viene visto quasi come un declassamento da accettare con amarezza, perché nonostante gli anni e la costante evoluzione del gioco il posto in quintetto continua a rappresentare uno status symbol irrinunciabile. Secondo la visione condivisa da buona parte dei giocatori NBA, da quelli del passato così come da quelli ora in attività, partire dalla panchina significa non veder riconosciuto il proprio valore. Quello dell’eventuale onta derivante dalla partenza dalla panchina, però, è un problema che Payton Pritchard non si è mai posto. La guardia dei Celtics, infatti, fa parte di quel gruppo, in verità piuttosto ampio, di giocatori entrati in NBA con la consapevolezza di doversi conquistare un posto nel roster, prima, e quindi minuti che ne giustifichino la permanenza in squadra, poi. E Pritchard quel posto e quei minuti se li è conquistati eccome, diventando un punto fermo del gruppo che ha riportato il titolo a Boston dopo 17 anni nel giugno dello scorso anno e trovando ora la consacrazione definitiva con il premio di "Sesto uomo dell’anno". Un riconoscimento arrivato dopo una stagione in cui, forse un po’ a sorpresa, la sua importanza all’interno dei Celtics è ulteriormente cresciuta. FARE DI PIÙ, FARE MEGLIO Aumentare la propria presenza in campo, intesa come minuti giocati e boxscore personali, aumentando al contempo l’efficienza, intesa come capacità di incidere sull’andamento della squadra, è un’autentica impresa che spesso sfugge anche a stelle molto celebrate. Ecco perché il salto di qualità fatto registrare da Pritchard a cavallo tra la scorsa stagione e la regular season conclusasi lo scorso 13 aprile merita di essere sottolineato. La guardia dei Celtics è passata dal giocare 22.3 minuti di media a 28.4, prendendosi 10.8 tiri di media a partita laddove l’anno scorso erano 7.7. Ne consegue che i punti , i rimbalzi e gli assist di media a partita rappresentino il massimo raggiunto in carriera, ma Pritchard ha ottenuto questi risultati mandando anche a referto la miglior percentuale dal campo della sua avventura in NBA. Il salto più evidente in termini di produzione e di precisione, poi, è arrivato al tiro dalla lunga distanza, dove Pritchard è passato dai 4.7 tentativi del 2023-24 ai 7.8 di media in questa regular season, aumentando parallelamente la percentuale di realizzazione dal 38.5% al 40.7%. E in una squadra come i Celtics, per distacco in testa a tutta la NBA per triple tentate di media a partita con 48.2, tirare di più e tirare meglio da tre significa in via quasi automatica guadagnarsi minuti, stima e palloni da giocare. Pritchard, però, non si è conquistato il suo spazio nelle rotazioni di coach Joe Mazzulla solo grazie all’abilità da dietro l’arco, anzi. La sua caratteristica principale, infatti, consiste nel fatto che Pritchard conosce solo un modo di giocare: al massimo dell’intensità possibile, su entrambi i lati del campo, attaccando il portatore di palla avversario in difesa e non fermandosi mai in attacco. E questa tendenza all’iperattività cestistica è stata fondamentale per una squadra come i Celtics, che dopo aver finalmente raggiunto il tanto agognato traguardo del titolo NBA potevano, potrebbero e potranno, come molte squadre arrivate al successo prima di loro, tendere a rilassarsi. Proprio per questo, al di là delle statistiche, peraltro piuttosto convincenti, a spiccare nell’annata di Pritchard è stata la capacità di dare sempre la scossa ai compagni con il suo ingresso in campo. E per lui andare sempre al massimo dell’intensità possibile è allo stesso tempo un atteggiamento congenito e una premessa necessaria per poter giocare in NBA. Già, perché non più tardi di due anni fa quello che ora è il "Sesto uomo dell’anno" ed è diventato un punto fermo dei Celtics che puntano al repeat rischiava fortemente di dover cambiare aria e di vedere compiersi un destino da molti pronosticato già al momento dell’uscita dal college nel 2020. IL DESTINO DI PRITCHARD La storia di Pritchard, d’altro canto, non è esattamente quella di un predestinato. O, meglio, l’incrocio con i Celtics sembrava in qualche modo inevitabile già al termine del suo ultimo anno al college, quando gli veniva conferito un altro premio intitolato ad un grande del passato biancoverde come Bob Cousy e assegnato ogni anno al miglior playmaker dell’annata di basket universitario. Quello, però, era il quarto anno di Pritchard a Oregon State, una vera rarità tra i prospetti con concrete ambizioni di arrivare in NBA, ormai abituati a fare al massimo un anno al college. E nel suo caso la NBA non era un approdo scontato, come testimonia il fatto che per lui Boston abbia speso la 26^ scelta al Draft del 2020, la seconda in possesso dell’allora General Manager Danny Ainge, che prima gli aveva preferito Aaron Nesmith, poi diventato giocatore di discreto livello a Indiana. Non che a Pritchard, 20.5 punti di media nella sua annata da senior con i Ducks, mancasse la capacità di fare canestro, ma quel fisico esile per gli standard della lega, 185 centimetri per 85 kilogrammi, e un’attitudine difensiva non proprio feroce costituivano, come si dice in gergo, due ‘red flag’ piuttosto importanti. Quella di Ainge era insomma più che altro una scommessa fatta nel 2020, quando i Celtics stavano compiendo passi importanti nella fase di ricostruzione del roster, e quasi persa nel 2023, con il dirigente nel frattempo passato a Utah e Mazzulla, subentrato in panchina a Ime Udoka l’estate precedente, che proprio per via di quei due difetti aveva relegato Pritchard ai margini delle rotazioni. Da lì in poi, però, è iniziata tutta un’altra storia, con il giocatore a lavorare in sala pesi e sul parquet, irrobustendosi e diventando un difensore più che affidabile, in particolare sul punto d’attacco avversario, senza perdere la pericolosità nell’altra metà campo. Una storia passata dal trionfo sui Mavs alle ultime Finals e dal premio di "Sesto uomo dell’anno", ma che potrebbe riservare ulteriori soddisfazioni sia a Pritchard che ai Celtics.

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Dario Costa