Alla scoperta della squadra del cuore di Papa Leone XIV

La battuta era forse scontata, ma ci sta. E non è poi così cattiva. "Il Papa tifa per i White Sox? Beh, è giusto: un Papa ha il dovere di dedicare le sue attenzioni agli oppressi e agli emarginati". Ah ah, che ridere. Ma a Chicago qualcuno ha riso, e ci sta, appunto. La rivalità tra Cubs e White Sox del resto è forte, anche se sopravvive su un piano unicamente locale, dal momento che raramente, nell’ultimo secolo, le due squadre sono state in contemporanea ai vertici del campionato MLB e dunque non c’è mai stata la reale prospettiva di una sfida in finale. Ovvero nell’unica possibilità di confronto nei playoff, dato che appartengono una alla National League e l’altra alla American League e l’unico incrocio è quello previsto dal calendario in due diverse tranche, quest’anno in sei partite, dal 16 al 18 maggio in casa dei Cubs e dal 25 al 27 luglio in quella dei White Sox, ora chiamata Rate Field ma che molti ancora chiamano Comiskey Park, in onore dell’impianto precedente del 1910, che sorgeva esattamente di fronte e fu abbattuto nel 1991. CHICAGO, NUMERO UNO In una grande città di sport come Chicago, divisa tra le due squadre di baseball, i Bears della NFL, i Bulls della NBA e i Blackhawks della NHL, spazi e glorie si alternano con una frequenza che può disorientare e rendere effimere le affermazioni di supremazia, spesso soverchiate da lunghi periodi di crisi o peggio. I White Sox cari a Leone XIV ne sono una dimostrazione, con il nuovo Papa a fare da testimonial involontario: se infatti è vero che il loro stato attuale è pietoso, tale da giustificare la battuta riportata a inizio articolo, è anche vero che nel 2005 vinsero il campionato, la famosa World Series nelle cui immagini l’allora Priore Generale degli Agostiniani compare nel pubblico in gara1. E quel successo fu per loro il primo dal 1917, un intervallo di 88 anni che rappresentava il maggiore di tutta la MLB tra due titoli vinti dalla stessa squadra, primato battuto nel 2016 dai… Cubs, che si affermarono per la prima volta dal 1908, dunque 108 anni. Già questi due dati fanno capire quanto sia difficile, per ciascuna delle due tifoserie, salire su un gradino e proclamare la propria superiorità, ma è vero che a Chicago esiste una contrapposizione generica che giostra in parte sulla geografia e sulle sue conseguenze. I Cubs dal 1916 giocano a Wrigley Field, qualche chilometro a nord del centro, zona generalmente considerata di discreto livello, con numerose vie alberate e casette di ottimo decoro, e nei giorni di partite diurne può capitare, se si scende alla fermata della metropolitana Addison ma non si va diretti verso lo stadio, di trovare ancora scenari di ragazzini e ragazzine che vendono limonata fatta in casa allestendo tavolini sul marciapiede, uno scenario quasi idilliaco che ricorda tempi antichi. Al netto del caos e della frenetica attività quando giocano i Cubs, un quartiere abbastanza tranquillo, e dunque in evidente contrapposizione con il mondo dei White Sox, che è esattamente al capo opposto della città, nel South Side, e a distanza non molto diversa dal centro. Qui, lo scenario è sempre stato meno elegante, meno rassicurante, più cupo. Anche solo per gli occhi, con palazzoni di edilizia popolare che sorgevano a poca distanza da Comiskey Park e che solo successivamente sono scomparsi, lasciando spazio a casette e attività commerciali che, nella parte a ovest dello stadio, a sua volte stretto tra la superstrada nord-sud 90/94 detta Dan Ryan Expressway, la linea rossa della metropolitana e i binari della ferrovia, non rappresentano comunque un valore estetico aggiunto, riscontrabile invece in gran parte del versante verso il lago Michigan, e non per nulla poco più a sud c’è il bel campus della University of Chicago. Grossolanamente parlando, i Cubs rappresentano in teoria qualcosa di nobile che i White Sox non hanno, e questa contrapposizione viene vissuta emotivamente più qui che a nord, specialmente quando vengono fuori personaggi che nobilitano la zona, come Barack Obama e ora Papa Leone XIV, anche se le traiettorie dei due sono molto diverse, in quanto l’ex presidente si trasferì nel South Side solo a 24 anni, dopo essere cresciuto altrove, mentre Robert Prevost a Dolton, un po’ più a sud, oltre i confini cittadini, ci è cresciuto almeno fino all’età di 14 anni e all’inizio del suo peregrinare - già - tra Michigan e Pennsylvania, tra 1969 e 1977, per il seminario e l’università, prima di un ritorno a Chicago, ma non a Dolton, tra 1978 e 1984. ORGOGLIO SOUTH SIDE Il South Side ha dunque sufficienti motivi per rivendicarne l’appartenenza, confermata dal tifo per i White Sox, sul quale ci sono state ore di divertente confusione. Poche ore dopo l’elezione, infatti, un’errata segnalazione della rete televisiva ABC aveva attribuito al nuovo Papa simpatie per i Cubs, che si erano subito avventati sulla preda scrivendo “Ehi, Chicago, è un tifoso dei Cubs!” sul celeberrimo tabellone esterno di Wrigley Field, uno dei simboli della città, e pubblicando un comunicato stampa nel quale il proprietario Tom Ricketts aveva scritto “non solo avremmo il grande piacere di accogliere Papa Leone XIV a Wrigley Field, magari gli faremmo pure cantare ‘Take me out to the ballgame’”. Uh, quanta roba: prima di tutto, ‘Take me out to the ballgame’ è l’inno che a metà del settimo inning viene eseguito da tutto lo stadio, secondo una tradizione inaugurata nel 1976 da Harry Caray, storico radio-telecronista cui è dedicata una statua all’esterno. Dalla scomparsa di Caray, 1998, l’inno viene appunto lanciato da un ospite di onore, in passato anche un presidente in carica come Ronald Reagan, del resto ex radiocronista, ed è questo che Ricketts auspicava, utopisticamente. Problema: poche ore, e John Prevost, uno dei fratelli di Robert, dichiarava alla celebre rete WGN “non è mai minimamente stato un tifoso dei Cubs, non so da dove sia saltata fuori questa storia. Lui ha sempre tifato per i White Sox”. E allora via alla fase due della propaganda, quella firmata dai boys del South Side. Che hanno subito postato una foto del loro tabellone, con la scritta “Ehi, Chicago, è un tifoso dei Sox!” e hanno a loro volta emesso un comunicato con le parole “sono i parenti quelli che ti conoscono meglio, e allora pare proprio che il tifo antico di Papa Leone XIV sia in realtà un po’ più vicino all’incrocio tra la 35th e la Shields [riferimento all’ubicazione dello stadio, così come Wrigley Field è ‘Addison e Clark’]… Ci sono cose più importanti del baseball, e in questo caso siamo felici che in Vaticano ci sia un nostro tifoso. Un cappellino e una maglia con il nome del Papa sono già in viaggio verso Roma, e il Pontefice sarà naturalmente sempre il benvenuto allo stadio”. Come ha aggiunto Paul Sullivan, editorialista del quotidiano Chicago Tribune, si tratta peraltro del… secondo Papa legato ai White Sox, dopo il lanciatore Donn Pall, dieci anni nella MLB e il soprannome… Pope. Vabbè. CUBS V WHITE SOX Questo botta e risposta tra Cubs e White Sox, da due lati opposti della Grande Chicago, non è un fatto isolato, come ha ricordato ancora Sullivan: nel 1997, in un periodo di particolari difficoltà per i Cubs, la stazione radio dei rivali pagò per una cartellone pubblicitario, nei pressi di Wrigley Field, che diceva “Major League Baseball, otto miglia più a sud”, cartellone che però per evitare acredini venne fatto togliere qualche giorno dopo dal proprietario del team, Jerry Reinsdorf, noto da noi anche per essere dal 1985 anche il padrone dei Bulls. Questi, insomma, i dettagli dell’ennesimo capitolo della rivalità, quello aperto dalla nomina di Leone XIV, capitata peraltro in giorni ulteriormente particolari: la notizia infatti è arrivata alla squadra nel corso di una sconfitta per 10-0 a Kansas City, ennesimo disastro di una stagione che rischia di duplicare quella 2024, nel quale, con 121 ko su 162 partite, venne battuto il record negativo della cosiddetta ‘era moderna’ del baseball, e dice molto - della lunga storia del baseball stesso e della sua percezione - che questa era moderna inizi convenzionalmente con l’anno… 1901. Nella prima partita dopo l’investitura doppia - quella del Papa e quella del club come suo preferito - i White Sox hanno vinto, in casa, e i responsabili dei social media, sempre molto frizzanti, si sono scatenati: post con un tifoso vestito più o meno da Papa, post con un fuoricampo in cui si dice che la palla sia stata spedita ‘nell’alto dei cieli’, post con ‘blessed and victorious’ , post con ‘vittoria divina’, post in cui un riflesso dei fuochi d’artificio - un classico di ogni successo - sembra avere una forma di croce. Poi stop, per fortuna, per non esagerare, ma intanto la squadra ha avuto un po’ di pubblicità positiva, di cui avrebbe estremamente bisogno. Sia agli occhi dei contemporanei, perplessi di fronte al tracollo recente della squadra, sia a quelli degli storici, memori del carico di anomalie e bizzarrie che i White Sox si portano appresso e a cui il South Side si è affezionato, facendone quasi una bandiera identitaria, nel bene e nel male. LA STORIA DEI WHITE SOX Fondati nel 1894 a Sioux City, nell’Iowa, trasportati poi a Saint Paul, la capitale del Minnesota, nel 1895 e approdati nel 1901 a Chicago, dove divennero White Stockings, nome originario dei… Cubs dismesso nel 1889, hanno sempre giocato nel South Side. Inizialmente in un luogo poche centinaia più a sud dell’attuale, anche se ebbero un momento di difficoltà a fine anni Sessanta che li portò a cercare pubblico a… Milwaukee, dove tra 1968 e 1969 giocarono 20 partite e arrivarono vicini al trasferimento, bloccato però dalla American League . Nel 1906 vinsero il campionato, battendo i Cubs in una sfida stracittadina che non si è più ripetuta nei playoff e che è passata alla storia perché gli avversari erano così favoriti da essere poi considerati la più forte squadra a non aver vinto il titolo: logico, forse, visto che avevano vinto 116 partite su 152, percentuale 76,3% dunque la maggiore mai vista. Nel 1917 quel famoso e ultimo successo prima del 2005, nella World Series contro i New York Giants, futuri San Francisco Giants, a concludere l’unica stagione da 100 vittorie. Il problema grosso, la macchia grossa, che ha ripercussioni anche al giorno d’oggi, fu però quello della World Series 1919: i White Sox erano favoriti sui Cincinnati Reds ma persero 5-3, in una serie che come nel 1903, nel 1920 e 1921 fu sulle… nove partite ma rimane nella memoria soprattutto perché fu venduta da otto giocatori che erano stati avvicinati da intermediari di scommettitori. È il tristemente famoso scandalo dei ‘Black Sox’, immortalato in libri e film, specialmente ne ‘L’uomo dei sogni’, in cui gli otto colpevoli, squalificati a vita, si ripresentano come fantasmi nel campo dell’Iowa costruito da un agricoltore su suggerimento di una voce misteriosa. Lo scandalo ebbe risvolti grotteschi: lo spogliatoio dei White Sox infatti era letteralmente spaccato in due, con un gruppo di giocatori, quelli appunto vittime della tentazione, considerato di livello culturale e sociale inferiore dall’altro, in cui spiccava Eddie Collins, il seconda base che era laureato, e in molte partite si notò il diverso rendimento, o perlomeno lo notarono alcuni occhi fini come quelli del giornalista Ring Lardner, che un giorno, cambiandone le parole per adattarle ai suoi sospetti, cantò ad alta voce un successo di quegli anni, ‘I’m forever blowing bubble’ . A dire il vero, la realtà emerse solo verso la fine della stagione 1920: gli otto reprobi vennero squalificati dalla MLB, che all’uopo aveva deciso di dotarsi di un commissioner, dunque un presidente esecutivo, ma non subirono condanne penali, nonostante altre circostanze bizzarre: ad offrire assistenza legale fu infatti il proprietario, Charles Comiskey, anche perché nessuno degli otto aveva la minima idea di cosa si dovesse fare in un tribunale e il più famoso , ‘Shoeless Joe’ Jackson, non sapeva leggere né scrivere, e di fronte alla giuria spifferò tutto ritenendo che la sincerità gli avrebbe salvato la fedina penale e la carriera, e di fatto andò così solo nel primo caso. Comiskey, che come avrete capito era il boss, ex giocatore e protagonista del trasferimento da Sioux City a Saint Paul poi Chicago, fu da molti ritenuto il motivatore… involontario dello scandalo, per via della sua gestione sparagnina del club, specialmente nei contratti dei giocatori, che furono mossi a vendere la World Series sia per rivincita nei suoi confronti sia per mettere via il denaro che i loro normali contratti non prevedevano, anche se va detto che in quel 1919 dello scandalo i White Sox avevano, complessivamente, il totale stipendi più alto dell’intera Major League. È però vero che uno degli otto colpevoli, l’ottimo lanciatore Eddie Cicotte, si era visto negare un premio di 10.000 dollari per la vittoria numero 30 perché era stato rimesso in panchina dopo il secondo inning dell’ultima partita, si pensa su disposizione dello stesso Comiskey. La cui famiglia, arrivata alla terza generazione, a fine 1958 cedette la maggioranza delle azioni a un imprenditore di nome Bill Veeck. IL MITO CHIAMATO BILL VEECK E con Veeck si apre un altro capitolo della storia anomala dei White Sox. Perché parliamo di un personaggio rivoluzionario, esagerato, controverso, inarrestabile, uno che volle, per uno dei tre libri che scrisse, il titolo di ‘The Hustler’s Handbook’, il Manuale del trafficone. Un genio, per molti versi, cresciuto in un ambiente favorevole: il padre Bill Sr, giornalista, nel 1917 era stato assunto dal proprietario dei Cubs William Wrigley, stanco di leggere articoli nei quali Veeck gli suggeriva come gestire club e squadra e intenzionato a metterlo alla prova. E Veeck padre aveva fatto un buon lavoro, dando ad esempio a Wrigley Field l’aspetto mantenuto, tra una ristrutturazione e l’altra, fino a una decina di anni fa. Tra le novità introdotte nello stadio, l’edera a coprire il muro all’esterno, idea del 1937 - quando il padre era già scomparso - di Bill figlio, che nel periodo iniziale di gestione aveva venduto popcorn alle partite e nel tempo libero aveva lavorato nel marketing per i… White Sox. A cui arrivò, come proprietario, dopo una serie di avventure imprenditoriali che richiederebbero una decina di articoli a sé stanti e che costituiscono un lascito interessantissimo dei suoi libri, infarciti di episodi che in alcuni casi non hanno trovato corrispondenza in ricordo altri e che dunque potrebbero anche essere stati completamente inventati. Veri, verissimi, alcuni dettagli personali tra l’esilarante e lo sfacciato: avendo dovuto subire ben 36 interventi chirurgici e alla fine l’amputazione della gamba destra per un incidente di guerra, dove era andato volontario declinando l’esenzione per motivi professionali, l’aveva sostituita con una serie di arti in legno che gli avevano dato l’occasione di esprimere la sua esuberanza. Gli piaceva ad esempio stupire le persone che non lo conoscevano accendendosi una sigaretta, tirandosi su il pantalone e facendo cadere la cenere in uno dei fori che aveva appositamente praticato nella gamba; altre volte, durante trattative di mercato, si metteva a protestare per l’esosità delle richieste, diceva - con espressione tipica della lingua inglese - ‘pretendete un braccio e una gamba’ e con gesto pleateale… se la sfilava, equivalente americano di un dirigente che da noi dicesse ad un collega ‘mi costa un occhio della testa’ e un occhio se lo togliesse davvero. E quando gli capitava di inciampare, a chi gli chiedeva se servisse un medico, rispondeva “chiami piuttosto un falegname”. Un’altra volta, quando nel 1976 venne celebrato il Bicentenario degli Stati Uniti, Veeck fece vestire da portabandiera l’allenatore Paul Richards, da tamburino il responsabile finanziario Rudie Schaffer e marciò sul prato del Comiskey Park suonando un flauto e mostrando, per via del pantalone alla zuava da rivoluzionario, la gamba di legno, quasi come risultato di un atto eroico compiuto nel periodo della cacciata degli occupanti britannici. LARRY DOBY, IL PRIMO Da proprietario dei Cleveland Indians aveva compiuto il gesto rivoluzionario di mettere sotto contratto il primo giocatore afroamericano della American League, Larry Doby, che aveva debuttato il 5 luglio 1947, tre mesi dopo la storica prima partita giocata da Jackie Robinson con i Brooklyn Dodgers, e aveva cacciato i tre giocatori che, il primo giorno di lavoro di Doby, si erano rifiutati di dargli la mano. Ceduti gli Indians e diventato proprietario dei St. Louis Browns, che sarebbero in seguito diventati i Baltimore Orioles, il 19 agosto 1951 si inventò un’altra operazione passata alla storia, mettendo sotto contratto un ragazzo affetto da nanismo, Eddie Gaedel, alto 1.09, cresciuto proprio nel South Side. Lo fece uscire, prima della partita, da una finta torta celebrativa dei 50 anni dell’American League, come se fosse una semplice sorpresa, ma al primo turno di attacco dei Browns lo fece andare in battuta, con una mazza giocattolo, una maglia con il numero 1/8 e scarpe a punta rialzata, da elfo, con il divieto assoluto di provare a colpire la palla: era pressoché impossibile che il lanciatore avversario Bob Cain potesse mettere un lancio nella sua ridottissima zona di strike, che coincide con il rettangolo tra ginocchia e ascelle del battitore, e infatti Gaedel ottenne una base su ball perché per quattro volte il pitcher non riuscì a centrare la zona. Appena arrivato in prima base fu sostituito da Jim Delsing, uscì e fu portato in tribuna stampa, dove i giornalisti presenti si scatenarono in domande. Meno bene prese la cosa Will Harridge, presidente della American League, che annullò il contratto di Gaedel e mise il divieto all’utilizzo di ‘nani’. Poteva Veeck accettare il verdetto, che peraltro sapeva benissimo che sarebbe arrivato? No: chiese infatti provocatoriamente a Harridge se secondo lui Phil Rizzuto, l’oriundo calabrese celebre interbase degli Yankees, con i suoi 67 centimetri fosse un giocatore basso o un… nano alto, e in quel caso il divieto avrebbe dovuto valere anche per lui. Presi i White Sox, confermò di avere una marcia in più sul piano della creatività e dell’intraprendenza. Era uno, del resto, che pur amando il baseball riteneva che la tradizione di cui questo sport si gloriava fosse, testuamente, “un cappio al collo”, e anche per questo non fu amato dagli altri proprietari della MLB perché, secondo il giornalista Ed Linn, vedeva il baseball come una forma di spettacolo e non un’esperienza religiosa. Il suo essere iconoclasta lo espresse più volte con frasi a effetto, come quando disse alla seconda moglie di essere rimasto estremamente deluso nell’apprendere di non essere nella lista di nemici pubblici del presidente Richard Nixon. A Chicago, ovviamente, Veeck , portò tante novità, la prima delle quali il ‘tabellone esplosivo’: ispirandosi a una rappresentazione teatrale in cui un attore giocava al flipper, volle trasformare il tabellone del Comiskey Park in una sorta di fiera delle immagini, delle luci e dei suoni: ad ogni fuoricampo si accendevano girandole luminose, partivano dieci razzi tipo petardi, una sirena, una tromba per nave, una trombetta che suonava la carica, un organo, l’inizio dell’opera Guglielmo Tell e l’urlo di donna “pompiere, salvi mio figlio!”, il tutto però congegnato in modo che la caotica sovrapposizione di questi elementi non fosse mai identica e variasse dunque ad ogni ‘esplosione’. Fu poi il primo a far mettere i cognomi sulle casacche dei giocatori ma, tra mille, uno è l’episodio che lo rese ancor più un personaggio atipico e anche malvisto, in quel puro stile South Side che ben conosceva, essendo nato a Chicago, ma di cui per formazione personale e familiare non era intriso. Nel 1979, dopo una serie di annate quasi tutte non eccelse e un pessimo inizio di stagione, causati da una cronica mancanza di fondi perché era rimasto l’unico proprietario puro, cioè senza attività al di fuori del baseball, Veeck decise che l’unica maniera di portare più pubblico a Comiskey Park era quella di incrementare il numero di eventi collaterali, e discusse con il figlio Mike l’idea, a quanto pare partita proprio da quest’ultimo, di una serata speciale, in occasione della doppia partita del 12 luglio contro i Detroit Tigers: la Disco Demolition Night, ovvero la distruzione, in campo, di una grande cassa di legno contenente 33 e 45 giri di disco music, che all’epoca era molto in voga ma contro la quale un disc jockey locale, Steve Dahl, conduceva da mesi una incessante campagna, ritenendola in grado di soppiantare e oscurare il rock. Mike si preoccupò di gestire la logistica, prevedendo l’afflusso di circa 35.000 spettatori - un buon 40% più del solito - anche perché a chi portava un disco da mettere nella cassa l’ingresso sarebbe costato solo 58 centesimi, ma Bill, che era in ospedale per l’ennesima operazione, ebbe un brutto presentimento e andò allo stadio, dicendo ad un collaboratore “sono preoccupato, oggi potrebbe essere una catastrofe”. Aveva visto giusto: al Comiskey Park si presentarono oltre 50.000 spettatori… normali, 4-5000 esagitati intenti a scavalcare cancelli e tornelli mentre nei dintorni dello stadio e lungo la Dan Ryan Expressway era ammassato un numero di persone che qualcuno stimò in 30.000. Era palese che l’occasione aveva richiamato un bestiario umano molto variegato e molto pericoloso, e infatti finì davvero nella catastrofe temuta da Bill: al termine della prima partita, vinta 4-1 dai Tigers, sulle tribune c’erano circa 60.000 spettatori, quindi quasi 20.000 più della capienza, e quando Dahl, vestito da militare andò sul campo per far esplodere la cassa, mentre lo stadio cantava ‘Disco sucks!’ , la detonazione fu presa da molti come scusa per invadere il campo, staccare le basi, smontare le suppellettili e dare fuoco a qualsiasi cosa fosse combustibile, il tutto mentre volavano dischi lanciati a mo’ di frisbee e dunque pericolosissimi e taglientissimi e Veeck, al microfono assieme al radio-telecronista Caray , implorava ai tifosi di smetterla. Una serata di straordinaria follia, di cui Mike Veeck si prese la colpa, ma che testimoniò di fatto che l’era delle promozioni folli era finita, e che forse era finito anche il percorso di Bill come proprietario. Situazione certificata dalla cessione, avvenuta nel 1981. CLIMA CALDO Nel 2002, e poi ancora nel 2003, nel nuovo Comiskey Park ci furono invasioni di campo di alcuni tifosi che nel primo caso misero le mani addosso a Tom Gamboa, coach di Kansas City, nel secondo furono fermati prima di arrivare all’arbitro di prima base Laz Diaz, loro palese bersaglio, e insomma tutto questo ha contribuito a fare dei White Sox un simbolo di ribellione, anomalia, anticonformismo. Caratteristiche magari non proprie di un Papa, che però a quel suo South Side è legato davvero. E lo testimonia un gustoso episodio raccontato dall’arcivescovo di New York, Timothy Dolan. Seduto proprio dietro a Prevost durante il conclave, gli si è rivolto in italiano e gli ha posto la fatidica domanda: “Cubs o White Sox?”. Il futuro Papa si è girato e sorridendo gli ha risposto “White Sox. Sono del South Side, no?”.

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Alla scoperta della squadra del cuore di Papa Leone XIV

Roberto Gotta