L'amaro declino di Novak Djokovic

Tennis

Federico Principi

NOLETRISTE

Il tennista serbo è stato elimianto da Chung agli Australian Opena, confermando che sta vivendo il momento più difficile della sua carriera, cosa c'è dietro questa discesa?

AUSTRALIAN OPEN, I RISULTATI DI IERI

«E il mio maestro mi insegnò com'è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire». Il significato della conclusione di Prospettiva Nevski non è mai stato chiarito da Franco Battiato. Alcuni l’hanno interpretata come una metafora della reincarnazione. L'interpretazione più probabile sembra appartenere a una sfera terrena: i colori dell'alba e del tramonto sono simili, ma l'associazione naturale che facciamo per ciascuno di questi due momenti della giornata è data dall'andamento del percorso del sole in quel frangente.

Sembra la descrizione del momento della carriera di Novak Djokovic. Nella seconda metà del 2016 ha attraversato un lento percorso di discesa, nonostante si sia mantenuto su livelli comunque molto alti. I risultati sono ulteriormente peggiorati all'inizio del 2017 e lo hanno portato a dire, lo scorso maggio, con amarezza: «La mia carriera è sempre stata protesa verso l'alto. In questo momento sto sperimentando com'è il viaggio in direzione opposta».

Djokovic si è preso una lunga pausa alla fine del 2017, dalla quale si è ripresentato con un team completamente nuovo e l'intenzione dichiarata di tornare il Numero 1 del mondo. Quello che sta facendo è proprio cercare di trovare un punto dove arrestare lo sbiadimento della sua luce, l'appassimento della sua brillantezza: «Voglio trovare un modo per tornare al vertice».

Ma questo percorso di rinascita non è privo delle classiche difficoltà di smaltimento della ruggine, né favorito da un completo recupero dal suo infortunio al gomito, che non c'è stato. Il braccio destro di Djokovic continua a fare male e lo ha costretto ad adattare il suo gioco al dolore e allo scorrere del tempo.

L'adattamento del campione

Il ritorno di Novak Djokovic alle competizioni rappresentava il più grande motivo di interesse e il più grande punto interrogativo dell'inizio della stagione 2018. Il serbo ha saltato il torneo di esibizione di Abu Dhabi e l'ATP 250 di Doha, inizialmente in programma, per un riacutizzarsi del problema al gomito.

L'Australian Open, affrontato come testa di serie numero 14, avrebbe dato quindi delle risposte importanti ma non definitive sul suo stato di forma, in relazione anche e soprattutto a quello degli avversari, per testare anche il livello generale delle fasce più alte dei giocatori. Djokovic è stato sconfitto in un meraviglioso ottavo di finale giocato ieri contro Hyeon Chung, una partita di intensità elevatissima, che avrà con ogni probabilità dei risvolti sul ricambio generazionale e sulla carriera del coreano.

Come visto fin dall'esibizione di Kooyong contro Dominic Thiem, Djokovic si è presentato in Australia con un nuovo servizio. Il movimento a colpire in realtà non è cambiato, ma è stata modificata la preparazione: la racchetta viene portata immediatamente a fianco della testa, senza compiere il giro completo, e di conseguenza anche il lancio palla è leggermente più basso. Questo movimento serve per non sovraccaricare il gomito, evitando la rotazione del braccio della vecchia meccanica del colpo, ma ha rappresentato un segnale importante di debolezza per quanto riguarda il servizio in kick. La seconda arrotata è diventata un colpo molto più raro nelle scelte di Djokovic: ora viene privilegiata la seconda in slice verso il colpo del lato destro dell'avversario (dritto per i destrorsi, rovescio per i mancini), ma si tratta di un'esecuzione con meno margine di riuscita perché la palla non passa alta sulla rete come un servizio in kick, e allo stesso tempo non ha quella rotazione in avanti che le dia più sicurezza di ricadere in campo.

Il risultato di queste modifiche è stato evidente. Facendo un parallelo immediato con la loro sfida sullo stesso campo nel 2016, Djokovic contro Chung aveva giocato molti più servizi in kick sul rovescio del coreano due anni fa, mentre nella partita di ieri ha privilegiato il servizio sul dritto anche sulla seconda. Ma soprattutto il nuovo movimento, per quanto studiato in allenamento e molto efficace nell'esibizione contro Thiem, lo ha tradito nei momenti delicati: Djokovic ha commesso 4 doppi falli consecutivi, 2 per game, nei primi 2 turni di battuta del match, contribuendo alla fuga di Chung con doppio break e facendolo subito entrare in partita. Estremamente doloroso, inoltre, il doppio fallo commesso anche nel tie-break del primo set, in un altro momento decisivo della partita.

Il problema al gomito destro, tuttavia, ha condizionato i piani di Djokovic anche per quanto riguarda le scelte con il dritto. Il serbo non ha cambiato né movimento né impugnatura, ma ha rivisto la strategia complessiva. Djokovic ora gioca quasi sempre dritti con traiettorie più orizzontali, con la racchetta che finisce intorno alla spalla, e molto più raramente dritti più arrotati con il finale della racchetta intorno alla testa, nei quali il gomito viene sollecitato maggiormente.

Semifinale Australian Open 2016: inizia il punto con un servizio in kick sul rovescio di Federer e lo conclude con un passante vincente di dritto in top spin con il finale del movimento intorno alla testa. Caratteristiche tecniche rese meno efficaci dall'infortunio al gomito.

 

Questo fattore lo ha condizionato non tanto negli scambi più canonici, dive sembra essersi abituato a giocare dritti più piatti e penetranti, quanto soprattutto nei recuperi, nelle palle profonde e nelle risposte in allungo, che in passato ha quasi sempre eseguito con il finale della racchetta sopra la testa. Servire sul dritto è quindi diventata, in linea teorica, una strategia efficace contro Djokovic, che molto più spesso del solito ha concesso risposte di dritto corte o in back. A questo si aggiunge un generale minore velocità di braccio, già notata durante il 2017, che potrebbe in teoria condizionarlo maggiormente sulla terra battuta.

Monfils ha chiuso il primo set giocandogli esclusivamente sul dritto nell'ultimo punto. Chiamato ad effettuare dritti difensivi in top spin in allungo, Djokovic non ha avuto la necessaria condizione fisica con il braccio per dare la giusta frustata alla palla, eseguendo sempre colpi corti e attaccabili e indietreggiando progressivamente.

 

La parziale revisione del suo gioco, insomma, è stata in parte studiata e in parte fisiologica e naturale, di fronte alle difficoltà fisiche. Nonostante la sconfitta contro Chung, Djokovic ha dimostrato intelligenza e umiltà per ripartire attraverso nuove certezze che lo facciano uscire dal periodo difficile in un'ottica soprattutto di lungo termine. Dopotutto il suo periodo di purgatorio è stato lungo, espressione di tante concause e difficile da arginare, se non con una forza mentale che dia un respiro più ampio alle proprie aspettative e al lavoro quotidiano, verso un percorso lungimirante di risalita.

Sic transit gloria mundi

«Alla minima cosa che non va nel mio corpo, non sono in grado di giocare al livello necessario per battere i miei avversari» scriveva Djokovic nella sua autobiografia Serve and win (tradotto come Il punto vincente). Era il 2013, unico anno in cui non ha concluso la stagione da Numero 1 del ranking, tra il 2011 e il 2015 compresi. Djokovic all'epoca non aveva ancora sperimentato cosa significasse perdere ripetutamente nei primi turni, come nel 2017. Il suo calo è coinciso con il conseguimento del career Grand Slam, vincendo il Roland Garros del 2016 e completando l'ultimo tassello mancante. Una sorta di software infallibile mascherato da giocatore di tennis (Nick Kyrgios disse più di un anno fa: «Quando vedo Djokovic negli spogliatoi, ho paura») si è ritrovato improvvisamente a combattere contro i propri limiti come qualsiasi altro giocatore normale.

Nella recente intervista a Sport360, al momento del ritorno, Djokovic ha parlato dei suoi problemi di questi ultimi mesi, insistendo esclusivamente sui dolori al gomito: «Per un anno e mezzo è stato come andare sulle montagne russe. Nel corso della mia carriera non avevo mai saltato un torneo del Grande Slam. È stata una decisione difficile (saltare l'ultimo US Open, nda), che non sono stato in grado di prendere fino a quando non è diventata inevitabile. Non riuscivo più a giocare, praticamente non riuscivo più ad alzare il braccio. Grazie all'infortunio ho imparato una lezione importante: non voglio permettere mai più a un infortunio di arrivare fino a quel punto».

Il modo in cui descrive il suo problema fisico («praticamente non riuscivo più ad alzare il braccio») fa pensare alla classica epicondilite (il gomito del tennista, in altre parole), una patologia da usura che spesso si manifesta con movimenti biomeccanici non corretti nell'esecuzione dei colpi o con una non accurata prevenzione, tra preparazione muscolare e stretching. L'off season tra 2016 e 2017 poteva essere un buon momento per concentrare la lunga preparazione invernale alla risoluzione di quel problema, ma la situazione è peggiorata fino al ritiro contro Berdych ai quarti di finale dell'ultimo Wimbledon.

Proprio il tema della scarsa preparazione è stato tirato in ballo dal suo ex coach, Boris Becker, a proposito del calo di Djokovic di fine 2016 «Negli ultimi mesi Novak non ha passato abbastanza tempo sui campi di allenamento, non come avrebbe dovuto. E lui lo sa». Djokovic nel suo libro diceva di allenarsi otto ore al giorno, in quella che lui definiva «giornata libera», nel suo periodo d'oro (negli anni 2011, 2012, 2013), mentre nel 2007, da ragazzino, diceva di allenarsi «in maniera ossessiva, quattordici ore al giorno tutti i giorni (...) ed è così che sono diventato uno dei dieci tennisti più forti del mondo». Non è impossibile da sostenere, pur non potendo documentare direttamente, che le ore giornaliere di lavoro in campo dopo la vittoria al Roland Garros siano state minori di quelle indicate nell'autobiografia.

Ma sarebbe troppo limitante attribuire al solo problema al gomito l'inizio del declino di Djokovic, che il suo storico ex coach Marian Vajda aveva sinistramente preannunciato proprio appena dopo il successo al Roland Garros. Pepe Imaz, che nel box di Djokovic ricopre la funzione di psicologo nonostante venga dispregiativamente etichettato come guru spirituale, ha detto che «dopo il Roland Garros è come se fosse esploso, il fisico chiedeva una pausa e lui non gliel'ha concessa». Una frase nella quale non è difficile riconoscere la volontà di Imaz di difendere il proprio lavoro, traslando la questione al solo problema fisico, ma con un fondo di verità. Dopotutto Djokovic non è sembrato in difficoltà soltanto nella parte superiore del corpo, e con il gomito specialmente, quanto in misura praticamente uguale anche nella parte inferiore: sotto accusa, in questo senso, anche la dieta vegana che Djokovic ha intrapreso, mal sopportata da Becker che lo avrebbe costretto a mangiare pesce saltuariamente.

È addirittura filtrato che Djokovic avrebbe passato una crisi matrimoniale per colpa di un suo tradimento alla moglie con un'attrice indiana, Deepika Padukone, con la quale è stato fotografato in un locale a Los Angeles. In effetti Becker, al momento della fine della loro collaborazione, ha detto: «Novak ha scelto di passare più tempo con la famiglia, ma i campioni di tennis devono anche saper essere egoisti», mentre quella del problema familiare è una tesi sostenuta anche da McEnroe, segnale evidente che sia una voce circolata nell'ambiente.

In sostanza, nonostante nessuno abbia fatto una precisa ricostruzione dei fatti, non è impossibile ipotizzare che un singolo evento abbia potuto provocare la progressiva caduta di tanti pezzi del grande castello di invincibilità di Djokovic. Il career Grand Slam raggiunto ha scaricato di motivazioni Djokovic, evidentemente già saturo di stimoli viste le perplessità di Vajda all'epoca. Ma non si può neanche ignorare l'età che avanza - Djokovic va per i 31 anni - e il fatto che il suo gioco, basandosi molto più sull'elasticità muscolare che non su forza e resistenza, possa invecchiare prima rispetto a quello di altri giocatori con caratteristiche differenti.

Numero Uno

«Il grande dono del tennis è stata l'opportunità di viaggiare, che mi ha permesso di conoscere altre culture. (...) Per esempio, uno degli aspetti della medicina cinese che mi ha aiutato di più è la teoria dell'orologio del corpo, ovvero l'idea che il nostro fisico rispetti una precisa scansione oraria nel corso della giornata, e che ogni organo dedichi una parte del tempo a curare sé stesso». Questo è un altro passo della sua autobiografia, forse il più significativo sull'organizzazione della propria vita e del metodo di lavoro che Djokovic si è dato negli anni. Per tanto tempo Djokovic ha lasciato la sensazione che nulla, nella totalità delle sue prestazioni, fosse fuori dal suo esasperato controllo. Un perfetto esempio di quella componente ossessiva che ricorre spesso nei racconti di Federico Buffa sui grandi campioni: Djokovic, più di altri e probabilmente anche più di Nadal, ha realmente elevato il concetto di cosa significhi dominare il circuito tennistico.

Il suo riferimento, nel tempo, è diventato proprio Nadal. Il duello tra il serbo e lo spagnolo è stato il più feroce e intenso negli ultimi anni, pur non essendo spettacolare per confronto di stili come quello tra Federer e lo stesso Nadal. Ma in nessun altro testa a testa, nel tennis contemporaneo, due giocatori si sono spinti così in avanti sotto tutti gli aspetti, migliorandosi reciprocamente, costantemente e, appunto, ossessivamente.

Le partite tra Nadal e Djokovic sono state le più brutali, sottovalutate per contenuti tecnici e per intelligenza tattica, con una componente di battaglia di ego anche maggiore a quella tra Nadal e Federer. Ma non appena ha perso 6 volte consecutive contro Djokovic nel 2011, di cui 2 sulla terra, Nadal non ha esitato a procurarsi un attrezzo più pesante in testa e a migliorare il dritto lungolinea, che gli è tornato più volte utile contro il serbo. Se Federer ha stabilito nuovi inarrivabili standard di combinazione tra talento purissimo, equilibrio mentale e duro lavoro per sconfiggere il tempo, Nadal e soprattutto Djokovic hanno alzato l'asticella sulle potenzialità del tennis verso il futuro sotto tutti gli aspetti, sulla mentalità e sulle capacità atletiche in particolare.

Uno dei punti più intensi tra Nadal e Djokovic, in uno dei set più belli degli ultimi 10 anni di tennis: il terzo set della finale US Open del 2011.

 

In un certo senso la discesa così repentina di Djokovic, vista a posteriori, non suona neanche così sorprendente. Djokovic è un modello di tennista paradossalmente replicabile: il fatto che non abbia un colpo così definitivo, poderoso e personale lo ha reso perfino più meritevole di altri nella sua ascesa, per la capacità di far salire progressivamente il livello di ogni singolo fondamentale, allo stesso modo in cui un allenatore di calcio migliora contemporaneamente tutti i suoi calciatori o un azienda mette nelle migliori condizioni ogni suo singolo membro, beneficiandone nel collettivo.

Nel 2011 la sua ascesa è stata improvvisa, ma il modo in cui ha mantenuto quel livello per anni riflette il suo meticoloso lavoro su tutti gli aspetti del gioco. Allo stesso tempo, durante la sua fase discendente, non ha avuto un colpo che lo contraddistinguesse particolarmente, e che gli permettesse di non perdere la propria identità, funzionando da ancora di salvataggio su cui appoggiarsi per evitare il crollo. Non ha i dritti secchi di Federer, Nadal o Del Potro, il rovescio di Wawrinka, il servizio di Sampras. Come tutti i pezzi del suo gioco sono saliti progressivamente e contemporaneamente, così hanno preso tutti insieme la direzione opposta nel momento difficile. Djokovic aveva e ha bisogno di mettere insieme tante piccole cose per essere efficace: una volta che ne salta una, se ne perdono tante altre di immediato riflesso.

Per questa sua mancanza di un colpo identitario, e anche per aver sottomesso il duopolio Federer-Nadal per un tempo non breve, Djokovic non ha riscosso tra il pubblico la necessaria ammirazione. La sua caduta ha in qualche modo salvato il tennis ed era perfino auspicabile sotto certi aspetti, in seguito a un periodo in cui il suo monopolio ne stava mettendo in crisi il prodotto anche e non solo a livello commerciale. Ma sarebbe ingiusto non attribuire la sufficiente importanza al suo rientro, in una circostanza dove sarà molto difficile o forse impossibile rimettere in moto quella macchina infernale, ma che certamente rappresenta molto per il tennis. Per provare ad apprezzarne, anche solo tardivamente, lo sforzo e il rigore scientifico, ma anche l'abnegazione di ricominciare a inseguire quel Numero 1, a ritrovare quel livello di gioco che sarà forse irraggiungibile per chiunque, almeno per qualche anno.