Un bronzo in cassaforte: i ricordi olimpici di Raffaella Reggi

I tennisti parlano anche con le mani, agli italiani succede inevitabilmente un po’ di più. Ecco perché Raffaella Reggi sottolinea le cose che dice accennando inconsapevolmente il gesto del rovescio, muovendosi graziosamente nell’aria. Come a cacciare con lentezza una mosca che non c’è. Nella mano stringe un fazzoletto, quando arriva per l’intervista, si conosce alla perfezione e di una cosa è certa: a livello sportivo nulla chiama le lacrime come le questioni legate all’Olimpiade. L’inquadratura funziona, il microfono è acceso, la luce è giusta. Raffaella detta Raffi ci mette un attimo a diventare una raffica: di ricordi, di emozioni, di medaglie, di metalli, di vittorie, di sconfitte, di rincorse, di inciampi, di posti e persino di scherzi. Che tradotto in termini di curriculum diventa tre Olimpiadi da giocatrice e una da capitana azzurra della squadra femminile. Un bronzo e una consapevolezza La prima volta nel 1984 a Los Angeles, l’ultima a Sydney nel 2000. Sedici anni di viaggio cominciati con il bronzo e chiusi con una consapevolezza diventata via via più solida: la maglia dell’Italia è sempre stata un’assoluta priorità. E ancora oggi guai a toccarle i ricordi virati azzurro. Se la medaglia la tiene in cassaforte è anche questione di sana gelosia: “Una volta era esposta in casa, poi ho cambiato l’arredamento e ho deciso di metterla al sicuro”. La combinazione è la stessa che serve per aprire il suo cuore, un codice che più personale non si può. A volte se la guarda, la medaglia, ancora oggi, è quasi un rituale che ripete di tanto in tanto, quando avverte quel sentimento che è un misto tra voglia e nostalgia. E allora ci fa un giro. La aiuta a ricordare, e ricordare è importante. La tira fuori da lì e la prende in mano, anche per riscoprire il peso che ha: è bronzo e si sente tutto. Mai sottovalutare il valore dei ricordi. Se siamo chi siamo il merito è loro, e di come sappiamo metterli in fila. Los Angeles 1984: il bronzo Sulla medaglia è inciso “Los Angeles 1984”, la Reggi su quella scritta si sofferma sempre. Il tempo viaggia come una prima di servizio, pure quando sembra ieri. Quell’anno il tennis si riaffaccia all’Olimpiade come sport dimostrativo. Occhio però: dimostrativo non significa meno competitivo. Tutt’altro. Basta scorrere l’elenco delle partecipanti e cerchiare, tra tutti, il nome di Steffi Graf. Sarà proprio lei a battere la Reggi in semifinale prima di prendersi l’oro. Fino a quel punto la tennista bionda, intendendo la nostra, aveva battuto tutte per assicurarsi quel bronzo assegnato senza spareggio e spartito con la francese Tanvier. Un successo condiviso con l’amico Paolo Canè, cresciuto con lei fin da ragazzini, anche lui bronzo olimpico sui campi dell’Università della California. A due passi da Hollywood, perché un po’ di cinema non guasta mai, e senza dimenticare una visita al Chinese Theatre. Giovani e forti, viva la vita, capaci di trasformare ogni palla in un mappamondo personale, e farlo girare. Fino alla fermata olimpica successiva: Seul 1988. Seul 1988: la bicicletta Quattro anni più avanti ai Giochi la Reggi si presenta forte del best ranking raggiunto durante la stagione, e da medaglia di bronzo in carica. In Corea il clima olimpico, se possibile, si avverte anche di più rispetto all’edizione precedente. Il villaggio degli atleti è un mondo a sé, un microcosmo. Poggiato sul mondo, anzi incastonato. Capace di avere tutte le attenzioni addosso, gli occhi del mondo. Il respiro globale è talmente ampio che la ripetizione al cubo ci sta: mondo, mondo, mondo. Anzi, aiuta a tratteggiare i confini di un evento pazzesco. RR, stringendo Raffaella Reggi in due lettere, gioca alla grande in quel periodo: tennis di qualità, palla pulita, condizione buonissima. Tant’è vero che al terzo turno, anche grazie alle dritte di Adriano Panatta, il capitano, riesce a mandare a casa una certa Chris Evert. Giocando in spinta, senza indietreggiare, tenendo i piedi piantati sulla riga di fondo. In quelle ore i fratelli Abbagnale, da “stupendi cavalieri delle acque” – citando il cantore Giampiero Galeazzi – vincono l’oro nel canottaggio rendendo ancora più azzurre le prime pagine del giorno dopo. Una data bagnata dalla vittoria, nel vero senso del termine. Tant’è vero che la Reggi, tornando in bicicletta verso Casa Italia, finisce per essere travolta da un gavettone lanciato dall’alto durante la festa per l’oro del canottaggio. Scivola e cade a terra, sbatte tutte e due le ginocchia su una grata di ferro e finisce in infermeria con una serie di impacchi a base di fango per limitare il gonfiore. Panatta è fuori di testa dalla rabbia. Ci arriva così, Raffaella, alla partita contro una ragazza che di cognome fa Maleeva e di nome Manuela. Professione: bestia nera. Definizione brutta e abusata che rende l’idea. Un ricordo che alla Reggi pizzica ancora i nervi. Lei, sempre lei, la tennista di Sofia incrociata dieci volte, forse anche di più, e battuta in una sola occasione. Ma non quella volta, non all’Olimpiade. Complici due ginocchia ridotte male, sulle quali Raffaella si passa ancora le mani mentre prosegue il suo racconto, il cammino nel torneo olimpico si chiude lì: “Stavo giocando talmente bene che il pensiero della seconda medaglia nella testa c’era”. Per una sconfitta che lascia un po’ di amaro, funziona sempre così, c’è un aneddoto che rimette le cose nella direzione della dolcezza: la Reggi partendo da Seul regala la sua bicicletta a un ragazzino coreano: impossibile dimenticare lo stupore dei suoi occhi. L’aveva acquistata per velocizzare gli spostamenti da una parte all’altra del villaggio olimpico, la lascia lì in compagnia di una bella fetta di emozione. Non manca mai sul petto lo spazio per fissare una medaglia di altruismo. Barcellona 1992: la decisione In tema di emozioni non si scherza neppure a Barcellona, salto in avanti al 1992. Prima e unica Olimpiade europea frequentata da Raffaella. Intanto la fatica per guadagnarsi il diritto di partecipare. Una corsa contro il tempo per rimettere in bolla, in qualche modo, una condizione fisica a dir poco precaria: l’intervento allo sperone calcaneare dell’estate precedente, il conseguente mese passato con il gesso, la ripresa più che macchinosa, il crollo inevitabile nella graduatoria mondiale. “Sono riuscita a risalire in classifica fino a entrare nelle prima cinquanta del mondo, nonostante nuovi problemi all’anca, ho stretto i denti e mi sono detta che a Barcellona sarei andata a tutti i costi”. Ma i tabù non conoscono tregua, nemmeno quella olimpica. Volete sapere cose le riserva il tabellone al secondo turno? Un altro faccia a faccia con Manuela Maleeva. Sì, proprio lei, un incubo. Raffaella perde di nuovo, perché capita spesso che la storia si diverta a ripetersi. Ancora oggi, 32 anni dopo, mentre racconta quel match distoglie gli occhi dall’obiettivo, quasi si blocca un attimo. Certe cose non le scolorisce nemmeno il tempo. “Ho chiamato casa per avvisare di accendere la televisione, perché finita l’esperienza olimpica avevo qualcosa di importante da comunicare”. Un palcoscenico così aiuta, anche a prendere decisioni forti. Stop al tennis. Da quel momento la Reggi non ha più giocato una partita a livello agonistico. “È andata alla grande così, perché mai e poi mai mi sarei aspettata una carriera del genere”. Sidney 2000: l'ultima volta L’ultimo giro di giostra a livello olimpico, stavolta da capitano delle ragazze azzurre, si compie a Sydney nel 2000. Il ruolo è prezioso, per sé stessa e per la squadra: un coach medagliato non è un coach come un altro. L’Olimpiade australiana dal punto di vista dell’organizzazione è qualcosa di mai visto in precedenza. Un coinvolgimento differente ma altrettanto forte, in mezzo ai mille colori di una festa immensa. Tennis ma non solo, anche tantissimo contorno di qualità: “Un giorno Paolo Bertolucci mi ha fatto vestire di tutto punto per portarmi in un posto: il concerto del suo amico Andrea Bocelli all’Opera House. Una delle esperienze più emozionanti della mia vita”. Il tennis si conferma musica anche quando altri sport, come all’Olimpiade, hanno la spocchia di sentirsi più nobili. “Lo dico sempre – aggiunge la Reggi – magari l’Olimpiade si potesse giocare una volta ogni anno, anziché ogni quattro”. Tanto per aggiungere emozioni e farle passare sopra il nastro di una rete. Tre gradini sopra il bronzo Il fazzoletto che Raffaella continua a stringere nel pungo, a proposito di emozioni, arriva esausto a fine chiacchierata, spremuto come fosse al quinto set. Sono mani da tennista, le sue. Eleganti ma abituate a lavorare. Un po’ da artigiano, un po’ da artista. Mani che costruiscono cose belle e nel suo caso le colorano di bronzo. Raffaella ha deciso di non tatuarsi la medaglia: troppo mainstream. Tradotto: lo fanno tutti. Ci tiene a farla rimanere una gioia privata, di quelle che fanno rumore solamente dentro. Una cosa sua e basta. Un tatuaggio addosso però ce l’ha, sul braccio destro: è una racchetta, la sua, di legno, la prima, quella da cui è nato tutto. Compresa la medaglia di bronzo, è chiaro. Vicino c’è un numero, il tredici, anche quello stampato sulla pelle, nero su carne, è il suo best ranking. Finito il racconto rimane un’immagine, come una foto in movimento: la Reggi di oggi, una signora del tennis, stringe a sé la Raffaella di quarant’anni prima, una tennista poco più che bambina. Lo fa per dirle “brava”. Raccontare a sé stessi di avercela fatta è praticamente tutto: vale più dell’oro, almeno tre gradini sopra il bronzo.

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