La splendida e straziante felicità di Thiem, volto di una generazione senza presente

Dimenticate la gioia urlata, liberatoria e spontaneamente pura di chi non si abitua mai a vincere: il successo sa essere anche una gabbia dorata, l'anticamera del vuoto. Non sempre uno Slam ti cambia la vita. Anzi, per Dominic Thiem vincere gli US Open 2020, è stato come rompere un soffitto di cristallo, finendo, però, per essere travolto dalle schegge di pressioni ed emozioni ingestibili. Fino al ritiro ad appena 31 anni, abbracciato dal calore della sua Vienna, il torneo di casa, nel quale aveva vinto la prima partita ATP neanche troppo tempo fa, nel 2011, contro l’ex numero 1 Thomas Muster, in una sfida che sembrava un passaggio di consegne. Rimandiamo indietro il nastro di una carriera malinconicamente splendida e straziante anche nella felicità. Rimandiamolo indietro e fermiamolo lì, a quella finale a Flushing Meadows di quattro anni fa, vinta da Thiem rimontando due set di svantaggio all'amico del cuore Alexander Zverev, in un Arthur Ashe a porte chiuse, nei mesi in cui si stava male anche a respirare. Chiudiamo gli occhi e ascoltiamo il silenzio, squarciato raramente dai ‘komm jetzt’, poi soffocati, perché per uno come Dominic sarebbe stato quasi innaturale festeggiare in faccia proprio a Sascha, il fratello per scelta in un circuito dove essere amici è più difficile che detestarsi cordialmente. E poi, fissiamo in mente lo sguardo di Dominic davanti alla coppa tanto attesa. Nessuna estasi a cui abbandonarsi negli occhi, soltanto la malinconia di chi scopre che, dopo aver raggiunto la vetta, non esiste una fine, ma semplicemente un nuovo inizio. Nuovi inizi impossibili da reggere per il polso destro, stressato oltre i limiti da anni di allenamenti massacranti, tradotti in partita in strappi violenti con il dritto e con quel meraviglioso rovescio a una mano. Nuovi inizi impossibili da reggere, soprattutto, per la mente, delusa dalla bugia di una felicità che non esisteva. E che, per chi, come Dominic, ha sempre riflettuto troppo, probabilmente non sarebbe esistita mai. Uno Slam non cambia la vita, ma la vittoria agli US Open 2020 rimane per Thiem la copertina agrodolce di una carriera che vale più dei 17 titoli ATP, più delle altre tre finali Major giocate e perse, due contro Nadal, al Roland Garros, nel 2018 e nel 2019, una contro Djokovic agli Australian Open nel 2020, più di una promessa di dominio sulla terra rossa mai avveratasi. Schiacciato tra un passato prepotente e un futuro incombente, Thiem è stato il volto più simbolico, rappresentativo e autentico di quella generazione da terra di mezzo, che non sapeva come raccogliere un testimone troppo ingombrante, ereditato da Federer, Nadal e Djokovic, ma che, poi, con un timido sorriso, si è presa la responsabilità di aprire la strada ai Sinner e agli Alcaraz. E a chi, tra un po’ di anni, vi dirà che la finale degli US Open 2020 è stata soltanto un trascurabile intermezzo tra il passato e il futuro, ricordategli che ci vuole tanto, troppo coraggio, ad avere paura. E poi, a sconfiggerla. E questo, sì, cambia la vita.