Da Parigi a Parigi, Zverev rinasce per provare a essere l’anti-Sinner

La Parigi di Sascha Zverev non è mai stata da ‘amour Fou’, ma più da ‘blood, sweet and tears’. Sangue, sudore e lacrime: quelle impossibili da trattenere due anni fa al Roland Garros, quelle soffocate, ma percepite ugualmente, durante la cerimonia di premiazione dopo aver vinto il Masters 1000 di Bercy, nel ricordare che tornare numero 2 al mondo con una caviglia ricostruita in sala operatoria non era - e non è - banale. La finale a Parigi, senza storia, contro Ugo Humbert, è servita più per i numeri e per le considerazioni tecnico-tattiche di fine stagione. Troppo sconfitto negli spogliatoi era Humbert, svuotato da una semifinale i cui postumi gli sono detonati addosso nel momento peggiore. L’abbraccio con il team prima di entrare in campo sapeva già di sconfitta. 75 minuti dopo, un pubblico parigino ammutolito dal secondo quindici ha dovuto rassegnarsi al doppio 6-2, con Zverev che ha perso soltanto cinque punti al servizio in tutta la partita. Una dimostrazione di forza grazie alla quale la consapevolezza nei propri mezzi su una superficie sempre gradita è ufficialmente diventata ragionevole certezza di poter essere l’anti-Sinner a Torino. Non soltanto nel ranking, per il quale Zverev è il primo tra gli umani, dopo l’alieno Jannik, ma per il feeling con il cemento indoor, testimoniato dalle due ATP Finals vinte. Barometro di una settimana da tenore, il dritto: fondamentale inizialmente ballerino, con un po’ troppe risposte steccate contro Griekspoor e diventato sempre più sicurezza fino alla prestazione da ‘shot quality’ di 9.4 contro Humbert. Non era ironico, quindi, Philipp Kohlschreiber che, in cabina di commento, ha chiosato dopo il primo set: “Non penso di averlo mai detto, ma Humbert deve stare lontano dal dritto di Zverev”. Per poter ufficialmente essere l’anti-Jannik - nonché il ‘terzo’ tanto atteso per scompaginare e movimentare un po’ la diarchia nascente tra Sinner e Alcaraz - a Zverev mancano due passi, strettamente legati tra loro. Il primo è lo stesso di sempre, da ormai quasi 10 anni: togliere quello zero sempre più anacronistico dalla casella ‘Slam in carriera’. Perché, numeri alla mano, difficile discutere che il tedesco sia tra i più forti di sempre - se non il più forte - a non aver vinto un Major. 23 titoli ATP, di cui sette Masters 1000, due ATP Finals e una medaglia d’oro alle Olimpiadi sono un palmares invidiabile anche per qualcuno che, in passato, ha vinto Slam, ma ha la bacheca di trofei nel complesso meno piena. Perché lo zero sparisca, però, nel 2025 Zverev dovrà lavorare sul coraggio di avere paura. In un torneo in cui ha perso il servizio soltanto due volte in cinque partite, Sascha è stato sotto 15-40 nell’ultimo game contro Fils, si è incartato sul 5-4 e servizio in semifinale contro Rune, rimediando poi al tiebreak, e anche nella finale dominata contro Humbert, ha rischiato di rianimare il francese finendo sotto 15-30 al momento di completare l’opera. Questione di nervi, che forse più che soffocare, è necessario accettare. Anche perché, nonostante i singhiozzi in coda e provando a mettere nel cassetto il peso specifico di essere lo 0-2 nelle finali Slam, Zverev rimane complessivamente affidabile nelle partite importanti: un bilancio di 23 titoli su 36 finali vuol dire che il tedesco ha una percentuale di successo intorno al 60%, il che è indice di chi, comunque, prepara bene l’ultimo appuntamento di un torneo. E se mai i numeri non dovessero essere conferma sufficiente, a Zverev va il merito, non sempre riconosciuto, di essere tornato ai vertici anche dopo un infortunio, come la rottura di “tutto quello che si poteva rompere nella caviglia”, che probabilmente avrebbe stroncato la carriera di molti. Merito ulteriormente da riconoscere, pensando alla sfida con il tennis già vinta in partenza, ossia arrivare in top 10 e oltre convivendo con il diabete di tipo 1. Forse sono stati questi i pensieri in mente durante la cerimonia, mentre le mani Sascha non riuscivano a smettere di sfiorare, accarezzare e coccolare il trofeo, come se fosse un nuovo, bellissimo, giocattolo regalato a un bambino che è stato bravo. La mente segue strade misteriose - nel tennis un po’ di più - ma il destino ne segue di ancora più intricate. Dal 3 giugno 2022 al 3 novembre 2024 sono passati 29 mesi esatti, quelli necessari perché “la storia d’amore con Parigi abbia un lieto fine”. A ben voler essere puntigliosi, la Parigi Bercy ormai coperta dal sipario di 40 anni di frastuono, tifo ruvido e di Marsigliese che rimbomba durante il riscaldamento per intimidire chi non è francese, non è la Parigi un po’ altezzosa e nobile che popola il Roland Garros, il vero tempio dove Zverev spera che la propria storia possa compiersi. In tedesco l’incompiuto si traduce con ‘der unvollendete’, la cui radice ha un suono molto simile a ‘wollen’, che vuol dire ‘volere’, come se l’incompiutezza fosse frutto di una mancanza di volontà. I tedeschi generalmente sono davvero bravi con le parole, ma questa volta decisamente si sono sbagliati.

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