Jannik Sinner 2001: l'avvento del Messia e l'inizio di una nuova era

Quando nacque Jannik, nel 2001, l'Italia del tennis era in piena crisi. Erano gli anni dell'inferno della Coppa Davis: venimmo retrocessi in Serie C. Gli anni grigi senza un campione e senza risultati. Avevamo un solo giocatore nei primi 100: Davide Sanguinetti. Solo un miracolo poteva salvarci e qualcosa di simile accadde. Il Dio del tennis decise che nel presepe invernale della Val Pusteria, venisse accolto nella baita un bambinello dal nome strano. Jannik venne chiamato. Un'apparizione miracolosa. L'inizio di una sorta di nuova religione che si sarebbe diffusa in giro per il mondo. Fedeli raccolti in ogni continente. Un pellegrinaggio in grado di riempire i più grandi stadi. Oggi Jannik è qualcosa di catartico: un dogma che non puoi discutere. Insegna la via da seguire, senti il bisogno di abbeverarti dalla sua fonte. Se lo vedi rimani folgorato. Non ne puoi più fare a meno e a Torino sono rimasti tutti folgorati della sindrome di Stendhal. Non solo i fedelissimi che hanno riempito il Tempio, all'occorrenza chiamato Inalpi Arena. Ma colpiti dalla sindrome sono finiti a terra anche gli avversari, scesi in campo con il petto in fuori e poi tutti ipnotizzati di fronte all'abbaiante bellezza. De Minaur, Fritz, Medvedev, Ruud e ancora l'amico Fritz stordito e svenuto di fronte al capolavoro ammirato al di là della rete. Un masterpiece metafisico che sarebbe riduttivo spiegare solo attraverso la sua forza tecnica, tattica, fisica o psicologica. Va oltre Jannik, oltre alla qualità di tirare più forte di tutti. Oltre alla capacità di migliorare sé stesso in ogni centimetro del campo con una dedizione al lavoro totale. Oltre la possibilità di applicare le Tavole della Legge come una sorte di sentenza nei pochi punti che decidono sul campo il destino degli umani. È andato già oltre, Sinner, azzerando le scorciatoie subdole dell'alibi sempre pronto nel cassetto degli altri. Da Torino a Torino c'è un anno in cui spiegare perché Jannik attinge da Socrate. Da numero 4 a numero 1 in dodici mesi ‘sapendo di non sapere’. Ripartendo da zero nelle conoscenze per rimettersi in gioco aggrappato all'umiltà. Scoprendo nel cammino anche una brutta bestia: l'invidia. Una spada di Damocle che avrebbe spaccato in due chiunque. Invece è già stato più forte di alcuni colleghi della racchetta, vestiti da avvoltoi e sprovvisti di granum salis. E, speriamo, sarà più forte anche di un potere dal respiro politico che cerca di farsi notare in modo subdolo, anche per celare le loro stesse contraddizioni. Ma nessuno, nessuno, toglierà mai i valori, la correttezza e l'onestà del miglior esempio per le nuove generazioni. Le lacrime di gioia della mamma del bambinello ormai cresciuto che alza il Trofeo di nunmero 1 a Torino sono le lacrime che a stento abbiamo nascosto quella sera nelle nostre dirette, trofei dopo altri trofei. Mancava il titolo alle Finals ed è puntualmente arrivato, senza perdere un set in cinque match come non accadeva dai tempi di Ivan Lendl, detto ‘Il terribile’. Ottavo titolo di un 2024 mostruoso. Seguirlo nel circuito mondiale, raccontare il suo esempio è stato un piacere e un onore. Nel trionfo delle Finals a Torino ci ha preso ancora una volta in contropiede, Jannik, ringraziando SkySport per aver seguito tutti i giorni i suoi allenamenti e le sue partite. Un mondo capovolto, in realtà. Perché l'Eden lo ha portato lui sulla terra. Facendoci sentire tutti molto più piccoli accanto a un vero fenomeno dello sport. Il gigante che nessuno pensava potesse mai nascere in Italia. Anno 2001. L'inizio di una nuova era. Avanti così, sempre.

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