Tutto quello che non vedrete delle Wta Finals di Riyadh

Giungi a Riyadh per le WTA Finals e la prima cosa che capisci è che qui il concetto di ‘ordine’ è relativo, come il falcone sulla bandiera: elegante ma pronto ad artigliarti se attraversi la strada nel momento sbagliato. Già, il traffico. Sembra un derby infinito: sbraitano e suonano tutti, sempre. Non è rabbia, è linguaggio. Una clacsonata per dire ‘sto arrivando’, una per ‘sto passando’, un’altra per ‘non so perché, ma suono così, perché esisto’. Ci si chiede se sia previsto un limite giornaliero, tipo i giga del telefonino quando sei all’estero. A proposito, va presa una SIM virtuale, sennò vi spennano. Nel frattempo, nei luoghi chiusi vi inebriate di incenso. Ovunque. Zaffate potenti che ti entrano nel cervello e ti fanno sentire per larga parte della giornata un santone in missione per conto di Dio. Il pedone, qui, non esiste. È una creatura mitologica e vagamente metafisica. Non ci sono attraversamenti pedonali, se ci sono assomigliano ad altro. Diciamo che quando ne intravedi uno è messo lì solo per farti capire quanto sia inutile. Autostrade a quattro corsie attraversano i principali punti di Riyadh, attraversare è come rispondere al servizio di Sabalenka: ti affidi al destino e speri che lei sia in cattiva giornata. Pare ci siano tunnel sotterranei alla bisogna, se ci sono segnalateli meglio, benedetti amici sauditi. Poi devi scappare in bagno, succede. Qui ogni water ha il suo doccino personale, un compagno di viaggio che all’inizio guardi con sospetto, poi lo tieni stretto stretto. Quando capisci che è l’unica creatura autenticamente democratica del Medio Oriente. Il doccino, come il tennis moderno, non fa sconti: arriva dritto, preciso, all’incrocio delle righe. Riyadh anzi Riyād, un mix di grattacieli che sembrano usciti da un progetto degli Avengers e case basse color sabbia che sembrano uscite da un film di Pasolini. Di giorno un caldo feroce che ti fonde le sopracciglia tinte, di notte una frescura imprevista che ti fa venire voglia di un maglioncino. Per la gioia dei costruttori di centri commerciali — enormi, infiniti, con la stessa metratura di un medio comune italiano. Tipo Frascati, ma con l’aria condizionata assai più decisa. E poi il capitolo gastronomico: bacon di mucca, mortadella di mucca, prosciutto di mucca. Tra un po’ ‘salamino di mucca al gusto di tacchino di mucca’. La prima volta che lo vedi pensi a uno scherzo, la seconda pensi ‘perché no?’, la terza te lo mangi e scopri che sì, funziona. Ovunque scorrono fiumi di tè al cardamomo, risposta culturale locale al nostro spritz: te lo offrono con una spontaneità che ti spiazza. Il caffè qui non è bevanda: è un concetto filosofico. Però è buono. Il muezzin è più svizzero perfino di Roger. Un puntuale maratoneta del richiamo, preciso come un ace sulla T. Nel bel mezzo di tutto questo, il tennis. Siamo qui per le WTA Finals, e il contrasto è irresistibile: da un lato il Paese che sta reinventando sé stesso con la velocità di Rybakina quando decide che vuole chiudere il punto in due colpi; dall’altro il tennis femminile che ruota, suda, combatte, prova a spiegare al mondo che sì, questa è una tappa importante. Qui tutto è gigantesco: gli schermi, i palazzetti, le ambizioni. Jasmine Paolini meno, ma è il suo bello. Cristiano Ronaldo è una presenza mistica: non lo vedi, ma sai che c’è, come l’umidità. Poi scopri che gioca nello stadio qua dietro. Il Six Kings Slam è un progetto che sembra scritto da un bambino molto viziato, oppure dal papà che ha perso ogni freno inibitore. Antesignano dell’agognato Masters1000, e come ci sono rimasti male quando gli hanno spiegato che no, un Grand Slam proprio non si poteva. E tu, piccolo infimo italiano in trasferta, guardi tutto questo con un misto di stupore e sarcasmo. Capisci che la qui è così: un luogo dove tutto sembra eccessivo, ma niente è per caso. Un posto che ti spiazza, ti diverte, ti irrita, ti coccola, ti confonde. E alla fine, mentre torni in hotel schivando macchine a respirare incenso, pensi: ‘Sarà pure un mondo diverso, ma cavolo… ci si diverte’.

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Tutto quello che non vedrete delle Wta Finals di Riyadh

Stefano Meloccaro