Cricket, dove la “discriminazione territoriale” non esiste

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Il giocatore del Bangladesh, Mominul Haque
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In un libro appena uscito, Italian Cricket Club, tutti i segreti della versione tricolore del secondo sport più praticato al mondo. Un viaggio tra immigrati dello Sri Lanka e del Pakistan che hanno importato da noi la loro disciplina nazionale

È il secondo sport più giocato al mondo. Ma c'è almeno un aspetto in cui il cricket sovrasta il calcio: i "buu", concetti come la "discriminazione territoriale" e altre espressioni di razzismo rimangono fuori dal campo. Non è un caso se gli inglesi hanno un'espressione, che si usa in tutti gli ambiti, per descrivere comportamenti poco sportivi: "It's not cricket", che significa più o meno "non è accettabile", "non si fa".

Italian Cricket Club è un libro appena uscito per Add editore (guarda il booktrailer su YouTube). Firmato dai giornalisti Giacomo Fasola, Ilario Lombardo e Francesco Moscatelli è un viaggio alla scoperta del Subcontinente indiano o, meglio, della sua versione tricolore: immigrati dello Sri Lanka e del Pakistan, indiani e bangladesi, prime e seconde generazioni che in Italia hanno importato il loro sport nazionale. Un viaggio che porta il lettore nella provincia emiliana o negli spazi di verde nascosti nelle grandi città. Alla scoperta di storie formidabili. In quei campetti c’è qualcosa di più di uno sport: c’è un esperimento sociale di integrazione, che prova a spazzare via confini geografici e culturali. E c’è un paradosso: qui, in campo, è l’italiano “lo straniero”.

Si parte da Genova, dove il cricket arrivò nel 1893 con il calcio e i marinai inglesi, e visitando i parchi e le società sportive di mezza Italia, si arriva nelle palestre scolastiche del 2013. Si va dai 3 mila giocatori di Milano, che da anni aspettano un campo, alla «guerra» di Brescia, scoppiata per un regolamento comunale anti-cricket che ha portato in piazza 20.000 immigrati. E poi ci sono gli italiani: vecchi e nuovi.

Come ricordano gli autori "i giocatori srilankesi e pachistani trapiantati qui sono un simbolo del Paese che cambia, tanto quanto i calciatori di origini africane Mario Balotelli, Stephan El Shaarawy e Angelo Ogbonna. Difendono i colori dei club cittadini e dei nostri mille campanili, oppure l’azzurro della Nazionale che ha vinto gli ultimi Europei con una squadra di immigrati e oriundi: non sono italiani per la burocrazia, ma per il cricket sì".