Il giorno in cui Muhammad Ali mediò la pace con Saddam. E salvò 15 ostaggi

Quando Cassius Marcellus Clay Jr. nasce, nel 1942, Louisville è dolcemente adagiata lungo un’ansa del fiume Ohio che divide gli stati del Sud da quelli del MidWest americano, ma è già la principale città del Kentucky, che annoiata saluta il passaggio delle grandi navi a vapore con sullo sfondo il confine dell’Indiana. È qui che Cassius si divide fra la scuola, la palestra dove un gentile poliziotto irlandese lo ha invitato a tirare di boxe e la modesta casetta di legno rosa al 3302 Grand Avenue dove trascorre la sua infanzia e la prima adolescenza, imparando a conoscere le difficoltà della vita e a combattere la discriminazione razziale ancora molto forte. A dodici anni il ragazzo è ancora uno spaurito frequentatore della Columbia Gym, ma in poco tempo diventa un interessante prospetto della Spalding University e nel 1960 -appena a diciotto - vince la medaglia d’oro nei mediomassimi alle Olimpiadi di Roma, proprio nello stesso periodo in cui il colonnello Harland Sanders inaugura in città la KFC, una catena di ristoranti specializzata nel pollo fritto che gli sopravviverà. Nel corso della sua lunga carriera, Cassius Clay diventerà uno dei migliori pesi massimi di tutti i tempi e uno dei più grandi atleti della storia dello sport, conquistando il titolo mondiale WBC e WBA nel 1964, nel 1967, nel 1974 e nel 1978, detenendolo per complessivi sedici anni in entrambe le categorie e fra il 1974 e il 1978, riunificandole. Ma saprà distinguersi anche per la sua capacità di accentrare su di sé l’interesse mediatico, forte di un carisma ineguagliabile, spesso speso in un forte impegno sociale, sul quale avrà grande impatto anche la sua natura molto controversa. Poco dopo la vittoria del titolo mondiale dei pesi massimi, nel febbraio del 1964, Cassius Clay annuncia a sorpresa l’adesione alla ’Nation of Islam’ di Elijah Muhammad, attivista religioso afroamericano che predica la completa separazione della società nera da quella bianca e una totale parità fra le due razze, diventando fra gli ispiratori di Malcom X. Da quel giorno, il ventiduenne campione dapprima adotta il nome di Cassius X e poi quello definitivo di Muhammad Ali. La conversione diventa centrale nel nuovo cammino di Muhammad Ali, non soltanto nello sport. Entra in contrasto proprio con Malcom X, poi con la sua famiglia, rifiuta il Vietnam e il suo nome di battesimo, appoggia Ronald Reagan, assume atteggiamenti arroganti e goliardici, si prodiga molto nell’impegno civile. Diventa indefinibile, difficile da leggere. Non lo riconosce più neppure il padre, che da lui e dall’altro figlio Rudolph Valentine si fa aiutare a dipingere gli affreschi nella chiesa di West End, e che assiste alla trasformazione quotidiana di quel giovane che forse assorbe troppo da quella figura che a tavola incolpa i bianchi di ogni cosa: aver dovuto abbandonare gli studi, non essere diventato un artista, aver cercato consolazione nella religione. E non bastasse il padre, ci si mettono anche i pianti notturni per la morte di fratelli neri, come Emmett Till, ucciso nel 1955 nel Mississippi solo per avere salutato una ragazza bianca. Per Clay, diventare Muhammad Ali è appena il punto di approdo di anni vissuti nella rabbia e nella sofferenza per le ingiustizie sociali. Prima della conversione, Clay ha partecipato soltanto a una marcia per i diritti civili, ma dopo avere ricevuto una secchiata d’acqua in testa si è ripromesso che non ne farà altre. Da anziano non avrà timore di ammettere che in gioventù si fece un po’ manipolare da Elijah Muhammad, che venne usato per isolare Malcom X e che la cosa gli rimase dentro come un rimorso indelebile, che rinunciare al nome Cassius Marcellus aveva cancellato anche il ricordo di un celebre abolizionista della schiavitù del Kentucky e un sapore eroico che ricordava i gladiatori romani. E in fondo finirà col dar ragione allo scrittore Amir Baraka, che ebbe a definirlo ’sempliciotto’ per aver abbracciato quell’ideologia così casereccia, frutto di rabbia più che di motivazioni intellettuali. Già nel 1966 Oriana Fallaci - che lo intervista per ’L’Europeo’ - prova a riequilibrare le critiche che gli stanno piovendo addosso per le sue scelte: gli riconosce qualcosa di nobile e di commovente, in fondo dignitoso. “Nel suo fanatismo v’è come una purezza, nella sua passione v’è come qualcosa di buono…”. La renitenza alla leva è in fondo un modo per riprendersi i favori della sua gente, urlare “nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro” è un urlo di pace contro chi gli dice di avere abbracciato una fede di odio e la scrittrice Jill Nelson vede in quel gesto un ‘supremo atto di sfida’. Dal quale Muhammad Ali incomincia a costruire la sua leggenda, che ben presto lo proietterà ovunque, pure nei sogni proibiti dei ‘diavoli bianchi’. Anche perché sul ring è spettacolare e fuori dal ring ha deciso di aprire le sue grandi ali per proteggere i più bisognosi. E ha compreso che per farlo deve alzare la voce e i toni. Lo confermerà a fine carriera, quando dirà che, altrimenti, “Se non avessi mai urlato, nessuno mi avrebbe dato importanza”. Diventare un personaggio così importante gli consente di entrare nel dibattito politico nazionale e quando decide di appoggiare la candidatura di Ronald Reagan alla Casa Bianca lo fa perché “Lui vuole che Dio resti nelle scuole e per me questo è sufficiente”. E Ali così diventa e rimane una delle figure più influenti del XX secolo. L’incontro Nel settembre del 1980 era scoppiata la guerra tra Iran e Iraq, quando le forze armate di Saddam Hussein avevano invaso il territorio della Repubblica Islamica. Ed era durata otto anni, provocando milioni di morti e di feriti e centinaia di migliaia di prigionieri. Nel 1990 Muhammad Ali non è più il pugile che ha dominato il ring. È ormai in pensione, il suo corpo mostra già i segni del morbo di Parkinson, ma la sua voce e la sua reputazione hanno ancora un enorme peso a livello mondiale. In quell’anno l’Iraq invade il Kuwait e Saddam Hussein prende in ostaggio centinaia di stranieri, usandoli come scudi umani contro possibili attacchi militari statunitensi. Tra di loro ci sono 15 americani. Alla Casa Bianca c’è George H. W. Bush sr. Con la tensione alle stelle e la diplomazia in stallo, Ali decide di agire. E nonostante le obiezioni del governo Usa, chiede di andare a Baghdad. Sa bene che in Medio Oriente la sua fama va ben oltre lo sport: lì Ali per tutti è una stella della boxe, ma anche un ottimo esempio di musulmano e simbolo di resistenza al potere occidentale. Ali sa che può spendere la sua celebrità per fare del bene e vuole giocare tutte le sue carte. L’ex Procuratore Generale degli Stati Uniti Ramsey Clark organizza il viaggio per suo conto e ben presto anche altri attivisti pacifisti chiedono di potersi unire alla spedizione. L’amministrazione Bush fa di tutto per impedire che il progetto vada in porto. I media si schierano con la Casa Bianca, criticano e ridicolizzano l’iniziativa. Ma Ali è deciso a sfidare anche il governo. E la delegazione arriva comunque a Baghdad il 23 novembre 1990, sponsorizzata dal movimento pacifista statunitense che in piazza muove proteste di massa in continua crescita in tutti gli Stati Uniti. Lo studio legale di Clark nel centro di Manhattan è insieme base operativa e centro di mobilitazione per i volontari. Ramsey e Muhammad sono amici fino dal 1967, quando il primo era Procuratore Generale degli Stati Uniti e il secondo fu incriminato con accuse federali per il suo rifiuto di essere arruolato nell’esercito. Più avanti Ramsey collaborò con la Corte Suprema per l’appello che annullò la condanna nel 1971. A Baghdad, Ali arriva per incontrare Saddam Hussein all’incirca negli stessi giorni in cui George H.W. Bush sr. sbarca in Arabia Saudita per passare il giorno del Ringraziamento con le truppe Usa pronte a essere inviate in combattimento. Clamoroso il contrasto di un Presidente impegnato a preparare una guerra, mentre Alì sta per parlare con l’Iraq. A pranzo, nell’Hotel Al-Rashid, Ali scopre di sedere con molti occidentali. In gran parte ostaggi a cui Saddam Hussein non permette di lasciare il Paese nel tentativo di respingere gli attacchi aerei. Ha sequestrato loro i passaporti. Gli ostaggi sono sicuri che non ci sarà una guerra, ma un’uscita negoziata dell’Iraq dal Kuwait. Non hanno esattamente coscienza di quanto stia per accadere. Alì si intrattiene con loro, al bar esegue anche alcuni numeri di magia e scherza, ma è profondamente preoccupato. Il fallimento della sua missione gli comporterebbe una vera e propria crocifissione da parte dei media. E poi, degli ostaggi americani in quella sala dell’Al-Rashid non c’è traccia. Già, gli ostaggi americani. Loro sono sistemati in edifici governativi e complessi situati in siti militari strategici. Lontani da Ali e dal mondo. Ipotetici deterrenti contro il previsto attacco statunitense. Scudi umani sulla linea del fuoco. Ma Saddam ignora che la lobby di Washington sia entusiasta che vi siano degli ostaggi, utilissimi alla propaganda di guerra. Davanti a questa realtà, Ali sa di passare per il governo e per i media o per un apologeta di Saddam il sequestratore o come un idiota. Non può tornare a mani vuote. Il ‘Times’ ha già iniziato la sua campagna denigratoria utilizzando il suo morbo di Parkinson: come potrà, nonostante la sua buona volontà, partecipare a un incontro dopo l’altro a Baghdad “vista la sua frequente incapacità di parlare chiaramente?”. La delegazione di Muhammad Ali in Iraq è considerata una minaccia, e non una risorsa, dall’amministrazione Bush e dai media, che marciano di pari passo con il Pentagono, mentre centinaia di migliaia di soldati, bombardieri e missili da crociera vengono schierati in Arabia Saudita e nel Golfo Persico. L’atmosfera è molto tesa. Quella delegazione, poi, è pacifista, non ha niente a che vedere con il governo di Washington. Dà noia. Il 29 novembre 1990 la Casa Bianca intimidisce il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite affinché autorizzi una guerra contro l’Iraq. Per la prima volta nella storia gli Stati Uniti hanno pianificato una guerra e inviato truppe per una vera e propria azione militare nel mondo arabo. Lo stesso giorno Ali incontra Saddam Hussein, definito dal mondo ‘il più grande tiranno dai tempi di Hitler’. Ma prima i dottori dell’ospedale irlandese della città gli procurano la prescrizione di cui ha bisogno e le medicine. Il colloquio dura cinquanta minuti. Ali non parla da politico, ma da essere umano. La salute è già compromessa, la voce e i gesti sono rallentati, ma la sincerità è innegabile. Saddam Hussein, forse in cerca di benevolenza o colpito dalla sua presenza, lo ascolta, poi acconsente a rilasciare gli ostaggi. “Non lascerò che Muhammad Ali torni negli Stati Uniti senza che un certo numero di cittadini americani lo accompagni”. E Ali torna a casa con tutti e 15 i prigionieri liberati, dimostrando di possedere un’influenza ben superiore al prestigio guadagnato attraverso la boxe e compiendo uno degli atti più straordinari di diplomazia privata nella storia moderna. Lasciato l’Iraq, il 2 dicembre, con tutti gli ostaggi, la delegazione fa tappa ad Amman, in Giordania, accolta da rappresentanti del Dipartimento di Stato americano cupi in volto, quasi arrabbiati. Era appena stato dimostrato loro che si poteva ancora ‘discutere e dialogare’ e che la pace aveva ottenuto più risultati delle minacce di guerra. Nessun ostaggio si lasciò convincere a viaggiare in business class e abbandonare l’areo di Ali. Una parte rimase nell’aeroporto JFK per una conferenza stampa al rientro. E poche settimane dopo l’Iraq accettò di permettere a tutti gli altri occidentali di lasciare il Paese. Ma il 16 gennaio 1991, la guerra che Muhammad Ali era riuscito a fermare iniziò ugualmente, con una massiccia distruzione aerea del Paese. più volte ambasciatore La campagna aerea guidata dagli Stati Uniti sganciò 88.500 tonnellate di esplosivo sull’Iraq. Gli Usa continuarono a farlo anche sotto Clinton, Bush jr. e Obama. A parte i 15 uomini molto riconoscenti che furono rilasciati, Ali ‘il sovversivo’ non ricevette mai praticamente alcun riconoscimento pubblico o privato. Tuttavia la storia racconta di altre volte nelle quali fu invece usato dal suo Paese per ‘negoziare’. Come avvenuto già a Beirut, fuori dal Summerland Hotel, un luogo devastato dalla guerra, dove un paio di Mercedes malconce, guidate da uomini con kefiah e kalashnikov, nel 1985 si fermarono e aprirono le portiere e lo condussero a un bus oltre un posto di blocco per la tappa successiva. Ali e i suoi compagni di viaggio arrivarono a una villa squallida e scarsamente illuminata e davanti a bicchieri di succo e un piatto di datteri furono ricevuti da Ibrahim Al-Amin, che giorni prima, nella moschea di al-Ouzai aveva proclamato al mondo l’esistenza de l gruppo terroristico di Hezbollah. Tra gli obiettivi di quel gruppo, sostenuto e finanziato dall’Iran, c’erano ‘la distruzione di Israele e la promessa di espellere tutti gli americani e i loro alleati dal Libano.’ Ali quella notte si batté per la liberazione di quattro suoi connazionali, tenuti in ostaggio nel Libano meridionale. Al-Amin chiese in cambio il rilascio di diverse centinaia di palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane. E Ali si presentò a Tel Aviv quattro mesi dopo chiedendo la “liberazione dei suoi fratelli musulmani” dal campo di detenzione di Atlit, sulla pianura costiera, dodici miglia a sud di Haifa. Mesi prima, l’ex pugile e il suo entourage erano stati aggrediti nell’ala ovest della Casa Bianca dal vicepresidente George H.W. Bush, che gli aveva chiesto di “sfruttare lo status di rispettato musulmano per avviare un dialogo segreto con l’ayatollah Khomeini e cercare di ottenere il rilascio degli ostaggi americani trattenuti a Beirut, senza alcuna traccia di sostegno ufficiale”. Ma Bush sr. non fu mai leale con Alì. Anzi, dopo la sua impresa diplomatica lo accusò perfino di essersi lasciato usare come strumento di propaganda dagli iracheni. Il ‘New York Times’, imbeccato, scrisse che Ali era nulla più che ‘un’altra celebrità egocentrica’. Ali all’epoca aveva 48 anni ed era già sofferente di Parkinson da sei. Ma ancora era un uomo capace di ‘sconvolgere il mondo’. Nel 1993 farà anche due visite in Iran, la prima pubblica a maggio. La seconda segreta circa tre mesi più tardi, per incontrare ilpresidente della Repubblica islamica, Akbar Hashemi Rafsanjani. Insieme trattarono in un’area di confine con il vicepresidente iracheno, Izzat Ibrahim, per lo scambio e la liberazione di prigionieri di guerra. A rivelarlo, a pochi giorni dalla morte del mito del ring avvenuta nel 2016, sarà il giornale iraniano Arman, citando Vahid Moradi, un ex dirigente dell’Organizzazione per lo Sport della Repubblica islamica, che quel giorno era con loro. Anche malato, anche fuori dal ring, Muhammad Ali continuò insomma a lungo a ‘volare come una farfalla e pungere come un’ape’. Convinto di poter cambiare in meglio il mondo. Perché era certo che “quando il credere diventa una convinzione profonda, le cose iniziano ad accadere…”.

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Lucio Rizzica