Gianni Mura, la lingua precisa di un intellettuale popolare

LA SCRITTURA

Paolo Pagani

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Bisogna sapere non solo di sport per parlare di sport. E’ la lezione di un grande inviato, che amava scrivere un italiano pulito e chiaro, arricchirsi con buone letture e ripudiare i luoghi comuni

Dicono che i grandi giornalisti non muoiono: svaniscono. Nel caso di Gianni Mura, atleta dell’Olivetti come fu il Gioannbrera poiché fino a che poté resistette all’assalto dell’IT, si può star certi che non svanirà di certo la sua lezione più importante. In sintesi brutale: bisogna sapere non solo di sport, per parlare di sport. Pensiero tutt’altro che banale, come confondere il senso comune col buon senso.

Mura, che milioni di lettori hanno conosciuto nel corso di densi decenni di cronache su diversi giornali e poche comparsate tv, era un intellettuale. Attenzione: il termine va preso nel senso giusto. Esserlo non significa contentarsi di galleggiare rarefatti sulla nuvoletta del superiority complex, non vuole dire snobbare le masse. Trattandosi di persona autentica, Mura era un uomo, un giornalista, di buone, anzi ottime letture. Aveva competenza musicale, che esibiva con leggerezza soprattutto nei suoi reportage dal Tour, trapunti di divagazioni e di bella prosa. Senza dire della proficua frequentazione del bere e del mangiare sano, segnale di civiltà: e tutto questo patrimonio, di sapere e di essere, era messo al servizio di un argomento popolare. Ha sempre saputo, Mura, che scrivere quel che interessa a chi legge è cosa pregevole, ma soprattutto difficile. Scrivere di sport era il regalo di un mestiere che, in quel modo, gli consentiva di farsi leggere da molti. Ragione d’essere (i manager oggi direbbero: constituency) della sua, nostra professione, come vincere è la missione di chi gareggia.

Per farsi capire, da intellettuale che gramscianamente stava per pancia e cervello vicino alle plebi curiose, usava una lingua precisa. Come le idee di Cartesio, chiare e distinte, così tiriamo in ballo la Francia che era la sua passione. Non era il linguaggio di Gianni Brera, al vecchio Ariosto padano non va accostato come se ne fosse l’erede. Gli eredi quasi mai godono dell’autonomia di movimento che spetterebbe loro. L’eredità tante volte è un peso. Mura non scriveva con stile grasso e carnale. Amava magari i calembour, i giochi di parole e gli anagrammi come il suo amico Bartezzaghi. Era un purista spontaneo, l’italiano di Mura è grammaticamente esente da grossolanità, è trasparente come il cristallo, difficile scintilli come il mercurio ma illumina sempre la scena che descrive. Era, è, l’idioma liscio ma non logoro dello scriba di talento che ama farsi comprendere.

Siamo alla fine, siamo ai Cattivi pensieri, dal titolo della sua seguitissima rubrica che la domenica chiudeva nelle ultime pagine del suo giornale la messa che si era aperta in prima con l’editoriale del Fondatore. Mura dava sfogo alle rabbie che un’epoca da finimondo gli procurava ogni settimana. Da qualche fatterello locale di sport che assume significatio universale, alla Grande Politica che rivelava troppo spesso la sua pochezza. E soprattutto ci indicava il luogomunismo, l’abbandonarsi sciatto alle frasi fatte, come la malattia infantile del giornalismo. Un attimino, per dire, la parola-simbolo di ogni pigrizia intellettuale. Adesso che non c’è più, sarà tutto più difficile. Speriamo che Stendhal avesse torto sostenendo che Dio ha una scusa sola, quella di non esistere. Sicuro che, nel caso, il padreterno lo accoglierà a braccia aperte e magari stappando per l’occasione un Gaja di quelli costosi. Perché sa bene che ce l’ha fatta grossa stavolta.