Il regista Jure Pavlocic: "Tema ancora delicato, per ragioni sia politiche che emotive"

Quant’è stato difficile assemblare un cast così ricco, finendo per mettere davanti alla telecamera la stragrande maggioranza dei protagonisti di quella squadra? “All’inizio non è stato facile. Da una parte c’erano difficoltà logistiche, visto che i giocatori oggi vivono in Paesi se non addirittura continente diversi; dall’altra, anche se da quegli eventi sono trascorsi più di 30 anni per molti di loro il tema rimane delicato, sia da un punto di vista politico che emotivo. È per questo che ho dovuto trascorrere molto tempo insieme a loro per guadagnarmi la loro fiducia. Una volta che hanno scelto di farsi intervistare, però, hanno accettato di mettere a nudo la propria anima davanti alla telecamera”. Quando e perché ha scelto di raccontare questa storia? “Sono sempre stato un grande appassionato di sport e ho seguito le carriere dei giocatori croati di quella squadra. A un certo punto, però, mi sono imbattuto nella storia degli Europei del 1991 di Roma e sono rimasto affascinato dal loro modo di giocare. Visto che in Croazia, dopo l’avvio della guerra, i successi sportivi della Jugoslavia venivano a malapena menzionati, questa storia è stata una sorta di sorpresa anche per me. Sono riuscito a recuperare un articolo che spiegava nel dettaglio come l’intero Europeo si fosse svolto esattamente in parallelo allo smantellamento del Paese, e con l’inizio della guerra nella regione. Questo fatto mi ha affascinato e intrigato tantissimo, sia come autore che come persona. Così ho invitato uno dei giocatori a prendersi un caffè insieme a me, e in un attimo ho realizzato la profonda drammaticità di questa storia, la sua potenza, il suo forte potenziale emotivo – soprattutto se raccontata attraverso la prospettiva di questi ragazzi che al tempo avevano poco più di vent’anni. Erano atleti senza tanti pensieri e preoccupazioni, che pensavano soltanto alla pallacanestro, ma che durante quell’Europeo per la prima volta hanno dovuto fare i conti con la politica e questo ha finito inevitabilmente per cambiare le loro vite, costringendoli a crescere molto in fretta”. È ipotesi comune che l’assenza di Drazen Petrovic agli Europei 1991 fosse dovuta a motivazioni politiche. Perché si è scelto di non affrontare il tema nel documentario? [l’unico accenno alla sua assenza è una valutazione tecnica di coach Ivkovic, preoccupato per l’incidenza sul risultato finale, nda] “Non siamo scesi nel dettaglio perché ci sono opinioni diverse sulla sua mancata presenza, e il diretto interessato purtroppo non è più vivo per rispondere a queste domande. Di conseguenza non ci sembrava moralmente giusto offrire al pubblico le nostre interpretazioni. Com’è finita lo sappiamo tutti, e questo non cambia: la nazionale ha disputato il torneo senza di lui e questa assenza è semplicemente stata uno degli ostacoli più grossi da superare per raggiungere l’obiettivo finale”. Quanto tocca ancora i cuori della gente dell’ex Jugoslavia questa storia, più di 30 anni dopo? “Penso che questa storia abbia un carattere universale e per ora le proiezioni hanno generato un’accoglienza molto forte in tutto il mondo – anche tra persone che non amano particolarmente la pallacanestro o il racconto sportivo. Ovviamente la gente dell’ex Jugoslavia ha una connessione emotiva speciale con questo film, ma credo sia perché il documentario narra una storia universale, che parla di tante dolorose rotture – di un’amicizia, di un senso di unità, di un sogno infranto da circostanze esterne. Tutti possono relazionarsi a queste emozioni, perché ognuno di noi ha sofferto perdite simili nella propria vita. È in questo senso che il film porta avanti davvero un messaggio universale”.

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Il regista Jure Pavlocic: "Tema ancora delicato, per ragioni sia politiche che emotive"

Mauro Bevacqua