Può bastare un girasole per ritrovare l'umanità: cosa insegna la vicenda di Alessandro

Una lettera al Corriere della Sera ha fatto conoscere un episodio increscioso accaduto a Milano negli scorsi giorni. Una mamma, la mamma di Alessandro, ragazzo morto a soli 15 anni dopo un malore, porta regolarmente un girasole nel campetto di via Dezza dove suo figlio amava giocare a pallacanestro e dove purtroppo è caduto, per sempre. Quel girasole viene ripetutamente rimosso o strappato. A quel punto la mamma di Alessandro scrive un biglietto: “Non strapparmi. Non mi sono più rialzato dopo essere caduto su questo campo. Questo girasole mi ricorda. Grazie, Alessandro”. Un messaggio con una richiesta dolce, quasi sussurrata, con grazia. Poco dopo, sul biglietto appare un’altra scritta, tremenda, al contrario sgraziata, anche grammaticalmente: “Se tutti mettono un fiore per ogni morto Milano sarebbe una spazzatura”. La “Giornata Tipo”, storica pagina social che parla di basket, riprende la notizia e invita a portare girasoli su quel campetto di via Dezza e siamo sicuri che in tanti, tantissimi, faranno sentire vicinanza alla mamma di Alessandro e ad Alessandro stesso. Lo stanno già facendo in queste ore, con tanti girasoli che stanno riempiendo la recinzione del parco di via Dezza a Milano. Non conta tanto, qui e ora, puntare il dito sull’autore di questo atto, di per sé ignobile, scriteriato, cattivo. Non sappiamo se la cattiveria di chi l’ha commesso è frutto di una rabbia interiore, di un dolore altrettanto grande, che trova in questi gesti uno sfogo sbagliato, senza senso. Non possiamo escludere neanche che questa persona abbia dei problemi e che sia, parecchio, bisognosa di aiuto. Così come non possiamo sapere se il responsabile di questo gesto sia semplicemente cattivo. Non ha senso aggiungere rabbia a rabbia, cattiveria a cattiveria. Ci interessa davvero trovare un colpevole? La cosa davvero importante è far sentire a questa mamma che non è sola, che tutti noi siamo con lei più e prima ancora che contro qualcuno. Che Milano non è quella e che non considera, men che meno, i fiori spazzatura . Da quando esiste la civiltà, e questo è uno dei tratti antropologici che ci contraddistingue, il ricordo dei morti, dei nostri cari che non ci sono più, è un tratto fondamentale dell’umanità. Onorare i defunti è uno dei principi base delle nostre comunità, non c’è bisogno di scomodare Antigone per ribadirlo. E uno dei simboli con cui ricordiamo chi non c’è più è proprio il fiore. Fiori che vediamo ai bordi delle strade in luoghi di incidenti, fiori che portiamo al cimitero. Il fiore rappresenta la vita e l’amore che ricordiamo, la vita che resiste oltre il nostro percorso terreno. E’ un simbolo di memoria e anche di quella speranza incrollabile che non sia tutto finito anche quando è finita. Se c’è un aspetto positivo in questa vicenda è che adesso siamo molti di più a sapere chi era Alessandro. Che era un ragazzino appassionato di basket, che amava giocare al campetto, e che aveva una mamma che lo amava. E che i suoi genitori hanno creato un’associazione in suo nome, @the.dab.game, che raccoglie fondi per far sopravvivere le strutture sportive di base. Insomma, da quello che è successo è nato più un germoglio di speranza che di bruttura. Un momento di solidarietà più che di indignazione. Questo è quello che vorremmo far sapere alla mamma di Alessandro. Che siamo, semplicemente, con lei. Che quel girasole, il suo instancabile rivolgersi sempre verso il sole, fonte di luce e vita, a noi non disturba ma, al contrario, aiuta. Ci ha aiutato a sapere chi era, chi è Alessandro. Ci aiuta a ricordarci che tirando due tiri, su quel campetto, c’è anche lui. Ci ha fatto scoprire la sua associazione e il lavoro importante che fa per lo sport di base. Ci aiuta a tenerci impressa l’importanza dei simboli e di quell’amore che non si esaurisce. Lo cantavamo, del resto, anche da bambini, con parole e musica di Gianni Rodari e Sergio Endrigo: “Per fare tutto ci vuole un fiore”. Dovremmo ricominciare a cantare quella canzone anche da adulti.

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Alberto Pontara