Il riscatto di Riccardo Moraschini, dalla squalifica al ritorno in Serie A

Immaginate di essere un giocatore di altissimo livello, di giocare in una delle squadre più forti d’Italia e di essere appena tornati dalle Olimpiadi di Tokyo 2020. Avete 30 anni e sta per iniziare una nuova stagione. Niente potrebbe andare male. E invece qualcosa va storto. Non è un racconto di Natale con la morale alla fine, ma quello che è successo a Riccardo Moraschini nel 2021 quando, da giocatore dell’Olimpia Milano, gli è stata riscontrata la positività al Clostebol a causa di una contaminazione indiretta, essendo stato assiduamente a contatto con una persona che utilizzava uno spray cicatrizzante contenente la sostanza vietata. “Quando è successo, è stata un po' come se mi fosse arrivata una bomba addosso. Totalmente inaspettata. Io ero sereno ma settimana dopo settimana, mese dopo mese, anche solo la lentezza di ricevere una notizia che poteva essere buona o cattiva, ha reso tutto più complicato”, ha confidato a Sky Sport. La vicenda è nota, così come è nota la non colpevolezza di Moraschini e, purtroppo anche la sentenza: un anno di stop dal basket. Anzi, un anno di stop da ogni tipo di attività fisica associata al team, alla lega e alla Federazione perché, a tutti gli effetti con un test positivo, sei riconosciuto e trattato come colpevole: “Mi sono allenato quasi cinque mesi completamente da solo, in una palestra dove non potevo avere nessuno. Mi allenavo con dei ragazzi che mi davano una mano passandomi la palla, magari facevamo qualche esercizio di 2vs2 o 3vs3 per non fare sempre individuale. Era una situazione talmente irreale che dopo tre, quattro mesi ero veramente andato in down. Non riuscivo più ma mi allenavo comunque tutti i giorni, perché mi dicevo ‘se arriva la sentenza positiva, domani devo tornare ad allenarmi con Milano’. Quando la sentenza è arrivata, negativa, non avevo proprio più voglia di pensare al basket”. L’Olimpia il 28 marzo 2021, dopo la sentenza, lo mette fuori squadra con licenziamento per giusta causa: “Quando Milano per giusta causa mi ha licenziato, ho provato molta frustrazione perché era una cosa che non meritavo, un'ingiustizia che mi ha privato dell’apice della carriera, il momento migliore che io potessi vivere. Ho lavorato anni e anni per arrivare a quel punto e mi è stata tolta la possibilità per nulla", racconta. C'è sicuramente da tenere conto anche della politica interna all'Armani, che va oltre lo sportivo: la società si è comportata allo stesso modo anche con Mitoglou, giocatore greco ora al Panathinaikos, trovato positivo al doping lo stesso anno mentre vestiva la maglia di Milano. "Da questa faccenda anche la società ne ha sofferto, non è stato facile per loro gestire il tutto. Coach Messina ha perso un giocatore importante nelle rotazioni ed è dovuto ricorrere al mercato. Non ero arrabbiato per il licenziamento, perché era previso dal contratto. La delusione è stata nell'essere stato mandato via in questo modo, avrei preferito ricevere una chiamata a giugno dal coach e sentirmi dire che non mi avrebbero più voluto. Ho lottato, ho provato in tutti i modi a far capire la mia innocenza, ma non puoi sempre controllare tutto”. Quando succedono certe cose, il mondo sembra crollarti addosso e la domanda che spesso torna prepotente nella testa è 'Perché io? Perché a me?'. A volte la risposta dall’esterno è “Perché hai le spalle abbastanza larghe per sopportarlo”. Spalle che sarebbero state utili per i tagliafuori, per spaziarsi per un tiro da 3 in Eurolega e per sollevare trofei vinti da protagonista. Non per 5 mesi di lavoro individuale. “Nel male, ho guardato il bicchiere mezzo pieno. Sono stato molto contento perché ho ricevuto tantissimo affetto da parte dei tifosi di Milano e anche da quelli di altre squadre. Anche dai compagni. Mi chiamavano tutti i giorni e mi facevano ancora sentire parte del gruppo. Anche il coach mi chiamava sempre. Milano è stato l'apice della mia carriera e ho vissuto emozioni molto forti sia in campo sia fuori, anche se in maniera negativa”. Nel 2022, nel pieno della squalifica , firma alla Reyer Venezia di Walter de Raffaele e ricomincia la sua vita da cestista professionista. Per uno strano caso del destino, nel match proprio contro l’Olimpia Milano. “Venezia è tra le principali società del nostro campionato, ha vinto scudetti e valorizzato tantissimi giocatori Sapere che nonostante l'anno fermo il club mi avrebbe aspettato, mi ha fatto tornare a sentire di essere un giocatore importante. Ero veramente molto emozionato, non vedevo l'ora di tornare in campo e di poterlo fare in una squadra così importante”. In quella stagione, una settimana prima della Coppa Italia , la Reyer cambia coach. Al posto del tecnico toscano, simbolo per anni della squadra lagunare, arriva Neven Spahja, che accorcia le rotazioni al punto tale che, a fine stagione, Moraschini non rientra più nel progetto tecnico. Dopo un solo anno di ritorno al basket professionistico, poteva essere finito tutto di nuovo? “Lo accetti perché è parte del mestiere. Non l’ho capito, ma l’ho accettato. Avevo talmente voglia di giocare che sarebbe stato meglio andar via al posto che rimanere e guardare. Volevo dimostrare di nuovo chi potevo essere", spiega. L’occasione arriva ma è in A2. Un compromesso tosto per uno che ha dimostrato di valere la Serie A e l’Eurolega. Una scelta complessa. E risponde al nome di Pallacanestro Cantù: “Avevo alcune situazioni in ballo. Mi sarebbe piaciuto giocare all'estero e stavo trattando anche con qualche squadra spagnole, ma il caso doping mi ha penalizzato. Mi sono detto ‘partiamo da zero’. Meglio giocare in una società ambiziosa, con grande storia e con un pubblico a tutti gli effetti di Serie A, invece di restare nel massimo campionato e provare solo a salvarmi. La scelta di Cantù è stata un po' come sono io: preferisco che il destino dipenda da me. Ho preferito dire ‘vado e provo a vincere il campionato di A2”. Cantù ha un roster da Serie A, ha ambizioni da grande e sceglie un coach brianzolo che arriva dal massimo campionato e che la stagione precedente è stato eletto miglior allenatore con una neopromossa: Nicola Brienza. Nel 2025 Moraschini è capitano dell’Acqua San Bernardo Cantù, al suo primo anno di ritorno in Serie A dopo la retrocessione nel 2021: “Il derby con Milano è stato fantastico, una partita molto importante per noi, per tutto il popolo di Cantù, per la società, per me in primis, perché la mia vera ex squadra, anche se non è in ordine cronologico, è stata Milano. È stata una partita bella, con una cornice di pubblico pazzesca. Sono contento di aver riportato Cantù in Serie A per rivivere queste emozioni. Qui a Cantù si vive di basket. Ogni volta che vai in giro per la città ti dicono ‘mi raccomando domenica’, non importa chi sia l’avversario, si avverte l’amore per la maglia e questa è l’unica cosa che conta”. La storia di Riccardo Moraschini insegna che fermarsi non è il male, che uno stop non è deleterio, che inciampare non è un disastro. È parte di quello che siamo e a volte basta fare un passo indietro per farne due o tre in avanti. Nel caso specifico, che a volte basta scendere di categoria per ritrovare la Serie A: “Posso ancora aiutare. Penso di essere un giocatore che per caratteristiche potrebbe fare la sua parte anche in una squadra di alta classifica. Mi piacerebbe anche tornare a giocare in Europa, sarebbe fantastico. Ma la cosa più bella sarebbe giocare una coppa con Cantù”. Ecco, forse anche qualcosa di più della Serie A.

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Giulia Cicchinè