Tutto l'amore di Pasolini per il calcio: una passione che diventa eterna

Poco fuori da Porta San Felice, a Bologna, nella prima periferia occidentale della città sorgevano e sorgono ancora i Prati di Caprara, oggi diventati un bosco urbano spontaneo malfrequentato, che nel 1805 avevano ospitato la grandiosa parata militare in onore di Napoleone Bonaparte in visita ufficiale al capoluogo, poi diventati piazza d’armi, infine sede di corse ippiche e di concentramento dei gruppi anarchici legati a Michail Bakunin, desideroso di organizzare una insurrezione in città, poi fallita in embrione. Durante la prima guerra mondiale i Prati di Caprara ospitarono depositi bellici, alcuni poi colpiti e danneggiati, altri demoliti. Vi rimasero ampi spiazzi sterrati e vuoti, desolati, dove i giovani bolognesi amavano sfidarsi col pallone tra i piedi. Fra essi un’abile ragazzino che sognava di emulare le movenze di quell’Amedeo Biavati detto ‘Medeo’, celeberrima ala destra del Bologna degli anni Trenta che faceva tremare il mondo: elegante e veloce, eccellente dribblatore, marcatore implacabile, autentico e inarrivabile interprete del doppio passo, nonostante avesse due piedi incomprensibilmente piatti. Quel ragazzino, tifosissimo dei rossoblù felsinei, al quale il cuore batté per la prima volta sotto le Torri della Garisenda e degli Asinelli per un pallone e non per una coetanea, sognava in cuor suo magari di diventare un giorno calciatore. Ed era bravo davvero. Segnava reti a valanga, tanto che i compagni di squadra lo avevano soprannominato ‘Stukas’, come i temibili bombardieri da picchiata Junkers Ju 87 della Luftwaffe, l’aviazione militare tedesca della Wehrmacht. E per un po' il ragazzino quel sogno lo coltivò davvero, ad esempio quando - durante gli anni degli studi e delle vacanze estive trascorse nel paese d’origine della madre Susanna, friulana - indossava la divisa del Casarsa Football Club, squadra iscritta al campionato della G.I.L. . A Casarsa della Delizia, il giovane Pier Paolo alternava allenamenti e partite a studio e letture e lunghe passeggiate in riva al fiume Tagliamento, immergendosi nella natura e nei ritmi propri di un mondo contadino che in parte è ormai scomparso, proprio come quei prati e quegli sterrati che più avanti avrebbe continuato a cercare anche altrove. Come pochi chilometri più in là, in una frazione non molto distante, dove un giorno era nata la Sangiovannese Calcio. E nel 1946 Pier Paolo deciderà di rivestire il triplice ruolo di vicepresidente, all’occorrenza calciatore e punto di riferimento letterario della squadra. A dimostrazione di quanto il calcio fosse rimasto per lui troppo importante. Da giovane, da adulto e per sempre, nonostante quel ragazzino di Bologna stesse diventando uno dei maggiori intellettuali del Novecento italiano. Poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, attore e drammaturgo, pittore, romanziere, linguista, traduttore e saggista. Innamorato della vita e di quella palla, come confessò un giorno candidamente a uno dei colossi del giornalismo italiano, Enzo Biagi: “Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”. E forse anche la psicologia femminile, vista la sua stretta frequentazione in quegli anni con una ragazza di Casarsa, Maria Seccardi, una maestrina ristretta nella sua semplice quotidianità follemente innamorata di lui, alla quale Pier Paolo dedicava molte fraterne attenzioni e una profonda affettuosa amicizia, ma nulla più. Del resto si conoscevano da tempo, da quando lui ragazzo arrivava per le ferie in Friuli e tra sagre ed escursioni in bicicletta si faceva tardi la sera. Lui sempre con dei libri dietro, così colto e affascinante, lei così assetata di conoscenza e affascinata. Oltre Maria, nella vita di Pier Paolo c’era lo studio e poi c’era il gioco del calcio, popolare per eccellenza, come espressione di umanità che ancora sopravviveva all’opera di distruzione culturale operata dal potere borghese. E lui stesso, Pier Paolo Pasolini, si sentiva sopravvissuto al tentativo sociale di estirpare anche dal suo sentirsi parte del popolo quella forza che è tutta nell’essere sporco di vita, sanguigno, capace di ridere e piangere, subire e reagire. Vero. In fondo nel football Pasolini cercava briciole di verità, calciando palloni di cuoio a volte mezzi sgonfi, fra polvere e pozzanghere a Bologna come in quelle borgate romane di memoria fascista e oggi quasi scomparse e inghiottite dalla cementificazione urbana, così selvaggia e anonima, correndo su e giù fra una ripresa cinematografica e l’altra o fermando la macchina e gettandosi nella mischia, con le scarpe di pelle e la giacca e la cravatta e gli immancabili occhiali scuri. Sono anni in cui di calcio Pasolini parla, scrive, vive. Dopo la seconda guerra mondiale fonda la Società Artistico Sportiva Juniors Casarsa insieme a pochi volenterosi genitori e decide di sovvenzionarla con spettacoli e attività culturali. Nel tempo che gli rimane si incontra con Maria o legge, scrive, studia. Fin quando tuttavia incespica in quella vita che ama tanto e in quelle pulsioni che forse maneggia con troppa disinvoltura. Lui, laureato all’Alma Mater, insegnante nella friulanissima Versuta, nel 1949 alla Sagra di Santa Sabina al Ramuscello si apparta con tre ragazzini in atteggiamenti imbarazzanti. Viene denunciato e poi condannato in un processo per corruzione di minori e atti osceni in luogo pubblico e bollato anche dal PCI, che lo espelle. E a nulla vale la successiva assoluzione in appello. Le stigmate del reprobo da isolare e allontanare dai ‘contesti educati e perbene’ gli rimangono. Ed è in questa fase che Pier Paolo decide di non tornare più in Friuli e lasciar chiuse per sempre le finestre della sua stanza con le pareti a strisce rossoblù. Di quella terra gli resta il ricordo di Maria Seccardi da San Vito al Tagliamento, residente in Casarsa, alla quale scriverà una quindicina di lettere fino al 1959, nelle quali spesso rivive il loro rapporto così innocente e puro, invero anche tormentato, le racconta della sua vita romana, di come un’ora nella Capitale “corrisponde a dodici ore friulane”, del fatto che ormai del Friuli non ha più alcuna nostalgia poiché rappresenta “tutto il finito, il morto della mia esistenza”, dei suoi progetti, di lei alla quale si rivolge da amico e da amante e che definisce “tanto più ‘poeta’ di me”. Fin quando un giorno non le confessa che “il mio ‘eros’ è tutto invertito verso i ragazzi: poiché il sesso femminile, nel mio inconscio, che è un caos, è semplicemente il sesso di mia madre…”. Frasi che sulle prime turbano Maria, poi freddano la loro antica relazione segreta di amorevoli corrispondenze elettive, fino a un telegramma di una sola riga, con il quale lui annulla un appuntamento: “Niente più Venezia. Affettuosi saluti. Pier Paolo”. Era il 29 settembre 1959. Il padre non ha più contatti con la famiglia, la madre lo ha seguito a Roma e Pasolini ha deciso di vivere di scrittura. Racconti e pochi articoli giornalistici. Mentre la mamma fa la domestica. Nei primi anni i due hanno abitato nel quartiere di Rebibbia, poi al Ghetto, poi si sono spostati a Monteverde. Pier Paolo ha ottenuto una cattedra in una scuola media privata di Ciampino, l’istituto ‘Petrarca’. E qui è tornato protagonista il calcio, reso parte integrante del suo programma didattico nei prati dell’Appia Antica. Con qualche puntata allo Stadio Olimpico a tifare Bologna. Mentre ancora si trascina il rapporto epistolare a distanza con Maria, dopo il trasloco a Monteverde Vecchio è già il cinema la sua prima occupazione. E il calcio la seconda. Con i ‘regazzini’ delle case popolari che renderà famosi per sempre come ‘ragazzi di vita’, alter ego dei pischelli letterari Riccetto, Marcello, Alduccio, il Caciotta, il Lenzetta, Genesio, il Begalone, il Pistoletta, sono partite interminabili fino al tramonto sugli sterrati di Via Donna Olimpia e sul campetto della chiesa di Regina Pacis. Le sue puntate allo stadio, da tifoso osservatore, gli permettono di studiare uno spaccato del popolo che nel ‘Reportage sul Dio’, uscito su ‘Il Giorno’ nel 1963 disegna in nove articoli, sei scritti e tre interviste usciti fra il 1956 e il 1975, un mondo aperto. “È uno sport più un gioco… un sistema di segni, un linguaggio, un concetto, un oppiaceo terapeutico… una rappresentazione sacra… l’ultimo grande rito…”. Del resto il suo punto di osservazione nasce dalla posizione di ala destra nei campetti di periferia e termina dall’alto di una tribuna. Passa per i bar, lo stadio, i prati verdi. È una radiografia trasversale. Ai giocatori del Bologna, microfono in mano, in ‘Comizi d’amore’, non chiede di schemi e di tattiche ma di abitudini sessuali. Incontra Giacomino Bulgarelli e resta folgorato come gli fosse apparso Gesù Cristo, lo vorrebbe sul set de ‘I racconti di Canterbury’, ma non riuscirà mai a convincerlo. Distingue i calciatori in poeti e prosatori. “Bulgarelli gioca un calcio in prosa: è un prosatore realista. Rivera è un prosatore poetico. Riva è un poeta realista, Mazzola un elzevirista”. Una bella battaglia con Gianni Brera sulla riformulazione del calcio in chiave letteraria. E poi il gol. “Il gol è un’invenzione, una sovversione del codice, una folgorazione”. E il campione è l’essere illuminato che ridisegna i copioni e li piega al proprio volere. Pasolini è un esteta, ma non dimentica il calcio di strada, da cui tutto nasce e quando si trasferisce in via Eufrate 9, all’Eur, cambiano i compagni ma non il gioco né il suo sguardo puro. Ai ragazzini delle borgate si sostituiscono sempre più spesso attori e addetti alle riprese. Cresce anche la componente erotica del calcio. Ecco la rimodulazione matura di quella frase: “Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”. Adesso calcio, eros e letteratura si fondono in un unico piacere. Una zona di comfort per un uomo contestatissimo, circondato da persone che non lo amano, ma che con il pallone tra i piedi si isola da tutto e tutti. Lui rispetta il calcio, perché dal calcio si sente rispettato. Anche se sta avvertendo che la fine del prodotto genuino si sta avvicinando. Le radio, le televisioni, il grande interesse dei giornali stanno togliendo spontaneità a quei luoghi nei quali per lui una partita deve rimanere solo un confronto tra uomini che - fra fischi e applausi - hanno l’unico dovere di fare del proprio meglio in campo. Fu anche per questo che non si divertì mai così tanto, quanto andare ad assistere, quasi per caso, a una partita del campionato etiope. Fu un tuffo nell’innocenza perduta della quale serbò gelosamente memoria. Pasolini in fondo esplorava territori nuovi per tanti. Rendendo intellegibile il linguaggio del calcio, decrittandolo come un archeologo svela i linguaggi dell’antichità. “Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone è un’unità minima: un podema. Le infinite possibilità di combinazione dei podemi formano le 'parole calcistiche': e l’insieme delle 'parole calcistiche' forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche. I podemi sono ventidue : le 'parole calcistiche' sono potenzialmente infinite, perché infinite sono le possibilità di combinazione dei podemi ; la sintassi si esprime nella 'partita', che è un vero e proprio discorso drammatico”. Davanti alla povertà del linguaggio moderno, agli anglicismi forzati, alle esasperazioni fuori luogo, alle urla beluine e ai nickname inutili, qui siamo su un altro pianeta. Il pianeta di un uomo complesso e contraddittorio che rapporta la sua esperienza al calcio su quattro piani di discussione ben distinti tra loro: il tifoso, il calciatore, il teorico e il lirico. Il calcio è un rito, è passione ma è anche gioia infinita, liberazione… “I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Se ci penso mi viene quasi un nodo alla gola”. Di Pier Paolo Pasolini si sa che mangiava poco, non beveva alcolici, non fumava, si teneva in forma, aveva un fisico perfetto, nerboruto. E quando aveva il pallone tra i piedi era meno pensieroso e ombroso di come lo conosciamo. Sorrideva di più, si divertiva di più, scherzava di più di altri. Però il suo calcio - partite su partite, gol che non arrivavano, arrabbiature che non finivano con un’azione di gioco - lo riportava a sfiorare quell’immagine del Pasolini perennemente alla ricerca di qualcosa che sfugge, che scappa via: un linguaggio, una strada per comunicare, un genere umano. Il pallone è sempre stato un amico fidato al quale forse chiedere aiuto, aggrapparsi quando ce n’era bisogno. Sempre competitivo, chi lo ha conosciuto ‘sul campo’ lo ricorda come un vero professionista intento a redigere schemi, formare squadre e far rispettare le posizioni. Ala destra dai polmoni d’acciaio, mediano se serve, ottimo realizzatore, impacciato quando tenta senza riuscirci il doppio passo alla Biavati, Pasolini batte su e giù la fascia instancabilmente. E per fermarlo spesso si deve ricorrere alle maniere forti. Nel 1975, a Parma, Pasolini - che intanto aveva già fondato anche la Nazionale Attori - decise di sfidare in un ‘derby’ tutto cinematografico Bernardo Bertolucci, che stava ultimando le riprese del film ‘Novecento’. Per questo radunò il suo cast di attori e tecnici dal set di ‘Salò o le 120 giornate di Sodoma’ e mise su una squadra, fissando l’incontro sul campo della Cittadella. Si racconta che per giorni Pier Paolo non fece altro che caricare i giocatori della sua ‘120’ ovviamente vestita in rossoblù, mentre Bertolucci si preoccupò soprattutto di abbigliare la formazione della ‘900’ con una maglia viola acceso con banda trasversale gialla disegnata da Gitt Magrini, per destabilizzare l’avversario. Ma Bertolucci fece anche di peggio: infilò nella sua squadra tre o quattro giovinotti presi in prestito dalle giovanili dei Ducali. Pasolini uscì lasciando la sua squadra in vantaggio 2-0, azzoppato da un macchinista, ma ovviamente alla fine dei 90’ i ‘900’ vinsero per 5-2. Un gol lo segnò anche un quindicenne attrezzista che di nome faceva Carlo Ancelotti… Pochi mesi più tardi, il 2 novembre 1975, sulla spiaggia di Ostia, il corpo di Pier Paolo Pasolini venne ritrovato martoriato e senza vita. Evidenti i segni di percosse e di un ripetuto investimento successivo al pestaggio. L’omicidio fu attribuito a un ‘ragazzo di vita’, Pino Pelosi, che si dichiarò colpevole di un delitto che mezzo secolo dopo è ancora in buona parte avvolto dal mistero e presenta non poche lacune. Pelosi negli anni successivi, uscito dal carcere, ritratterà, addirittura si farà strada una pista che condurrebbe alla massoneria, preoccupata delle rivelazioni di Pasolini pubblicate poi nel volume ‘Petrolio’ -e in parte forse mai più divulgate- sul caso Mattei. Eccola servita la morte violenta, su una spiaggia dove d’estate qualcuno forse avrà pure calciato un pallone appare persino beffarda e cinica. Crudele, oggi che la voce fuori dal coro di Pasolini sarebbe ancora utile a leggere una realtà complessa e per molti versi stratificata e alterata come quella dei nostri tempi. Una morte che qualcuno dirà che ‘Pasolini, in fondo, se l’era cercata’. Ma che invece, più verosimilmente era disposto ad accettare che potesse ghermirlo così tragicamente, tanto sarebbe stato pronto anche a questo. Alla ‘sua’ Maria un giorno aveva scritto “finirò all’inferno. Solo che mi divertirò con i diavoli e brucerò il loro fuoco nel fuoco della mia allegria”. Ci rimane il sogno di un uomo che assistette alla vittoria di quattro scudetti da parte del suo Bologna, il cuore di un intellettuale che abbracciava gli ultimi e che aveva in Sergio Citti e Ninetto Davoli i suoi consulenti privati di ‘romanità’, il genio di un letterato che amava scandalizzare e scuotere una società pigra e borghese fin troppo accomodata sui propri privilegi e sui propri valori, la testimonianza artistica di un grande intellettuale. E ci rimane il suo grande amore per il pallone: forse il suo solo e vero amico sincero. Un mezzo per raccontare la società e per indagare anche se stesso. Per rincorrere i propri fantasmi, per dare calci alle ingiustizie e lottare contro i più forti. Giocando al pallone Pier Paolo tornava bambino e sfuggiva all’inquietudine che gli aveva reso amara la maturità. Anche se si era dato tempo per risolvere i propri turbamenti… “Io, su questo, sono rimasto all’idealismo liceale, quando giocare al pallone era la cosa più bella del mondo. Ho bisogno di riprendere in mano certe cose interrotte e il mio lavoro, in queste condizioni, sarà sempre precario. Sicché ci vorrà del tempo: almeno il tempo che occorrerà al Bologna per risalire dalle attuali bassure”. Forse oggi quel tempo gli sarebbe sembrato un po’ più corto, ma di sicuro ne sarebbe stato felice.

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Lucio Rizzica