Bellingham e i campioni della generazione ansiosa

Jude ha sofferto. Jude ogni tanto si è caricato il mondo sulle spalle. Jude assomiglia sempre di più a quell’altro Jude, il protagonista del capolavoro dei Beatles che i tifosi inglesi gli cantano quando indossa la maglia della Nazionale. Non di recente purtroppo, perché è un ragazzo in difficoltà e non una macchina programmata per giocare a calcio, anche se in certi momenti ce lo ha fatto credere. “And anytime you feel the pain, hey Jude, refrain, don't carry the world upon your shoulders”, sembra suggerirgli con dolcezza Paul McCartney, che di talento, pressioni e gioventù ne sa qualcosa. Bellingham conosce il mal d’animo, quella canzone triste suona dentro il suo cuore. Lo ha raccontato da poco in occasione della Giornata Mondiale per la salute mentale in qualità di ambasciatore Laureus, svelando tutta la sensibilità che c’è dietro, o dentro, questo ragazzone fenomenale e vulnerabile allo stesso tempo. E sulle sue parole vale la pena soffermarsi, perché quel malessere ha dei complici precisi. “Con lo sviluppo dei social media e della tecnologia, ci sono più modi per attaccare qualcuno e abbatterlo, e credo che ci sia ancora un forte stigma nel discutere la salute mentale”, ha detto, entrando nei dettagli di un meccanismo che lo ha inghiottito. “Quando ero un giovane giocatore al Birmingham, scrivevo il mio nome su Twitter e leggevo tutto ciò che veniva detto. Ma anche se i commenti erano positivi, mi dicevo: perché dovrei lasciare che l’opinione di persone che non mi conoscono influenzino ciò che penso di me stesso?”. Quanti ragazzi sono in grado di farsi la stessa domanda, di porsi gli stessi dubbi? L’accettazione rassegnata di un tribunale digitale da cui attendere giudizi è invece l’abitudine più diffusa. E più rischiosa. “Quando puoi essere onesto e autentico con i tifosi, dai loro un’idea molto chiara di come ti sei sentito in una partita o nella tua vita di tutti i giorni. Ti aiuta ad essere più vicino a loro. Tuttavia, c’è anche un elemento negativo che ora ho deciso di evitare, e so che anche molti altri atleti lo hanno fatto. C’è già abbastanza negatività e pressione nello sport professionistico per andare a cercarsela. Ora, quando leggo commenti negativi, non mi influenzano, ma preferisco ancora non vederli. Ho avuto momenti in cui mi sentivo esposto, dubitavo di me stesso e avevo davvero bisogno di qualcuno con cui confidarmi. Ma continuavo a fingere di essere un atleta duro. Mi ripetevo ‘Non ho bisogno di nessuno!’. La verità è che ne abbiamo tutti bisogno. Essere aperti sui propri sentimenti ed emozioni ti rende molto più forte”. Sempre più spesso accade che i campioni confessino le loro fragilità, che frantumino il modello di eroe che gli viene cucito addosso, manichini perfetti per corazze impenetrabili che li logorano dentro. Senza pregiudizi, azzardiamo a ipotizzare che questa tendenza all’intimità è conseguenza inconsapevole, inevitabile e forse persino positiva delle dinamiche di relazione innescate dai social, dall’illusione della prossimità dell’altro, da quella che oggi spesso viene definita, nei suoi eccessi, ‘pornografia dei sentimenti’ ma che con qualche velo resta semplicemente uno scoprirsi, in tutti i sensi: in un oceano in cui tutti riversano le proprie emozioni, senza pudore, aggiungere qualche goccia di sé che mai sarà? Vero, solo che il prezzo, a volte, è salatissimo come certi mari. “Le persone hanno il diritto di esprimere le loro opinioni sullo sport” ha aggiunto Bellingham, “ma devono esserci limiti alle cose orribili che vengono condivise. Quel tipo di odio è incredibilmente difficile da sopportare per gli atleti, e posso profondamente capire chiunque lotti con la sua salute mentale”. Jude, in fondo, non ci racconta nulla di nuovo. Ai tempi di Birmingham, alla fine della sua adolescenza, è stato semplicemente uno dei tanti ragazzi della ‘generazione ansiosa’ descritta dallo psicologo americano Jonathan Haidt in quel saggio uscito un anno fa e che tanto ha fatto discutere. Nel libro il rapporto fra l’uso dei social network e i disturbi emotivi e cognitivi di una generazione è descritto attraverso 444 pagine di dati e studi, non opinioni: “L’uso dei social media è una causa di ansia, depressione e altri disturbi, non solo una correlazione”. Su questa sfumatura si gioca la vita di tanti giovani, ma la sovraesposizione del campione non fa che amplificare ciascuna di quelle dinamiche distorte, anche perché anonimato e rispetto spesso si escludono a vicenda. Chi pensa che tutto il denaro guadagnato sia anche una sorta di indennizzo agli insulti ha in testa un bieco listino prezzi dei sentimenti che non gli farà guadagnare nulla. Trovare online commenti alle prestazioni di Bellingham, giudizi soprattutto negativi, negli ultimi tempi non è difficile: ma questo nuovo Jude, maturo e consapevole, non sarà andato a leggerli. Il bestseller di Haidt non mette in guardia solo dalle ferite emotive, ma anche da una serie di disturbi cognitivi che minano la salute dei ragazzi, figuriamoci degli atleti. A settembre Stefanos Tsitsipas aveva dichiarato la sua social-dipendenza e per questo la necessità urgente di allontanarsene per curare la propria salute mentale. “Voglio disintossicarmi dai social, li ho usati come rifugio per sfuggire a tutto lo stress che ho provato per il mio infortunio e mi sono accorto di passare ore con il cellulare a guardare i video. Allontanarmi dai social è una questione di salute mentale: voglio ispirare altri giovani a fare lo stesso”. Ispirare, quello che da un po' riesce a Jannik Sinner, che a proposito del tema non si era espresso in modo diverso in una lunga intervista proprio a Sky Sport: limitare l’uso del telefonino, non frammentare l’attenzione sui social, sottrarsi allo sciame digitale che lo allontanava dalle sue priorità, è uno dei dettagli che gli ha permesso di fare il salto di qualità nella sua carriera sportiva. Riprendersi il tempo, è questo il senso di certe scelte che ognuno deve fare a misura di sé, ascoltando le proprie esigenze, lontano da qualunque conformismo. Ascolta e osserva tutto Henrikh Mkhitaryan, campione di vecchio stampo e stoffa pregiatissima, che per raccontare i giovani di oggi ha usato una metafora illuminante: “Se guardi il cielo di notte vedi tante stelle. Se ti concentri su una sola, non vedi più le altre. Accade lo stesso con il telefono: se guardi solo quello non vedi ciò che accade attorno a te. Per questo a me non piace che si usi troppo nello spogliatoio o in palestra. Anche questo influisce sulla prestazione: poi in campo abbassi la testa, guardi solo il pallone e non vedi i compagni. Questa è una malattia per molti ragazzi, va oltre il calcio”. Sollevare lo sguardo, ecco il consiglio prezioso che arriva da Mkhitaryan, che se proprio lo abbassa è per leggere un libro o giocare ai suoi amati scacchi. Non vedere i compagni in campo equivale a non accorgersi degli amici accanto, degli altri per strada, degli ultimi ovunque, persi in uno specchio delle “mie-brame” digitale che ci fa sentire regine e re del reame ma anche, inevitabilmente, servi. Quello in cui Bellingham ha smesso di guardarsi riflesso per fermarsi a riflettere su cosa lo faccia sentire davvero bene, per poi ripetere a se stesso, come in quella vecchia canzone: Hey Jude, non avere paura. Hey Jude, don’t be afraid.

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Bellingham e i campioni della generazione ansiosa

Veronica Baldaccini