Zero presenze in ventisei anni, storia di un non-calciatore: chi è 'Kaiser' Raposo

In portoghese il termine ‘pardo’ indica la particolare colorazione di una tonalità di pelle. Non è una definizione a sfondo razziale, ma soltanto la contestualizzazione genetica di alcune popolazioni che hanno ereditato nei secoli una carnagione dalle sfumature graduali molto tenui che vanno da una combinazione tra il bianco e il nero, al giallastro, al marrone e al cinerino. A dirla un tanto al chilo, potremmo parlare di diverse e varie nuances del mulatto. Rio Pardo è una cittadina di poco meno di quarantamila anime, che sorge sull’omonimo fiume che attraversa parte del Brasile, ramificandosi in diversi affluenti, ora del Rio Grande, ora del Paranà. Il comune di Rio Pardo non è famoso. Non ha nulla per esserlo, non ha mai fatto nulla per diventarlo. E anche il solo motivo per cui è conosciuto nel mondo rispecchia in fondo questa caratteristica molto passiva: ha dato i natali al più celebre giocatore di calcio del mondo ‘mai sceso in campo’. Nel senso letterale del termine. Ovvero, che non ha mai toccato, ma neppure sfiorato per sbaglio, un pallone in vita sua. Perché Carlos Henrique Raposo deve tutto al calcio, ma senza aver mai giocato al calcio. Anzi, se fosse stato per lui, avendone le possibilità, da piccolo sarebbe fuggito lontano. Ma non a Disneyland, come avrebbero desiderato tutti i suoi coetanei, ma ad Amsterdam: “Che ci posso fare se il mio hobby è sempre stato il sesso?”. Avete inquadrato il personaggio? Andiamo avanti. Certamente, da bambino Carlos non avrebbe mai immaginato che da adulto si sarebbe guadagnato l’appellativo di ‘più grande truffatore nella storia del calcio’, però va riconosciuto che anche per diventare un bravo impostore, e soprattutto per riuscire a restare sulla cresta dell’onda per due decenni, un certo talento ci vuole. Non con la palla, ma con le ‘palle’. Sì, perché, insomma, bisogna saperle raccontare bene, spararle grosse e poi ricordarsene e reggere il gioco alla lunga distanza. E in questo ‘Raposo’, che tradotto in italiano altro non è che il ‘maschio della volpe’, è un fenomeno. Nomen omen. Con il destino già bello e segnato all’anagrafe. Roba che uno come Ulisse, re di Itaca, grande stratega e dall’intelligenza sopraffina, astuto e geniale, gli avrebbe allacciato gli scarpini. Dotato di un fisico per nulla strutturato che non ricorda affatto quello di Franz Beckenbauer, libero e capitano della nazionale tedesca dell’Ovest e già uno dei più grandi calciatori del mondo, quel dì in cui Carlos Henrique Raposo scopre - all’alba dei sedici anni - che per vivere è necessario forse mangiare e per alimentarsi guadagnare anche del denaro. Dunque, pensa bene di escogitare il modo meno faticoso e di sicuro più redditizio per riuscirvi. Per prima cosa ‘prende in prestito’ dall’originale il soprannome di ‘Kaiser’, così marziale e altisonante, che a prescindere annichilisce ogni richiesta di metterne alla prova le abilità. Poi, essendo cresciuto alla scuola della strada e avendo imparato dai migliori imbroglioni di Rio Pardo, dà il meglio di sé nelle trattative con i club ai quali va a bussare alla porta. Tutto ha inizio nel 1972 quando ‘Carlos la volpe’ va a suonare al campanello delle giovanili del Botafogo di Rio de Janeiro, al numero 72 di Avenida Venceslau Brás e viene preso. Al tempo non è né meglio né peggio dei tanti ragazzini che allora giocavano per strada a piedi nudi. Dopo un anno appena, però, il Botafogo non lo conferma. È un ragazzino che corre, ma buono per il futebol de várzea - i campetti in terra battuta, per quello pelado - fra le macchine nelle favelas, à beira de rios - sui bagnasciuga dei fiumi, de praia - sulla spiaggia, ma non per il calcio vero. Insomma, Carlos Henrique Raposo è fatto per l’improvvisazione e non per la tattica e per la tecnica. Ma ‘la volpe’, non si perde d’animo e alla prima fermata utile sale su un ônibus e dirige sul quartiere della Gavéa dove è la sede del Flamengo. In una zona animata e molto verde, ben lontana dalle vielas povere e polverose di Rio Pardo, nella quale cercare più fortuna. Con grande sfacciataggine Carlos si presenta più o meno come un talentino incompreso dal Botafogo, che i compagni nello spogliatoio non hanno mai amato particolarmente. Nell’esperienza precedente il ragazzo aveva osservato bene i loro movimenti e li aveva imparati. Non è in grado di colpire bene la palla né di fare la differenza, però in campo a modo suo ci sta. Gli basta per rimanere al Flamengo dal 1973 al 1978. E così può intanto sviluppare la sua grande abilità nelle pubbliche relazioni. Col passare del tempo, il suo fisico piuttosto rotondo finisce per somigliare più alla bottiglia della birra ‘Kaiser’ che a quello di un potenziale nuovo Beckenbauer, ma a lui non importa più di tanto. Fra le sue prime amicizie coltiva soprattutto quelle con alcuni fisioterapisti e medici, sa già che gli serviranno. Una volta impressionati i talent scout della società messicana del Puebla, inizia la sua vorticosa e fenomenale ascesa verso l’apoteosi del non-calcio e della sua non-carriera. A sedici anni firma il suo primo triennale con la sua nuova squadra e si presenta all’Estadio Cuauhtémoc. In tre stagioni riesce a non esordire: il ‘Kaiser’ torna spesso in Brasile per curarsi, grazie anche ai suoi amici sanitari, afflitto continuamente da finti infortuni, pubalgie e diversi motivi di salute che gli impediscono sempre per un verso o per l’altro di mettere anche solo un piede in campo. Alla fine del triennio arriva lo svincolo. E Carlos per due anni ancora rimane in ‘carico’ al Botafogo, restando ai margini della rosa poiché ovviamente infortunato. Il Botafogo, disperato, lo gira un’altra stagione in parcheggio al Flamengo, dove viene annunciato come ‘il compagno ideale per un attacco d’oro con Bebeto’. Totale presenze: zero. Carlos ‘Kaiser’ ha chiare in mente due cose: vuole essere un calciatore, ma non ha talento. È belloccio, capelli lunghi, ci sa fare, è simpatico. Dopo quella pessima esperienza Bebeto dice di lui “non si sa come facesse, arrivava pieno di ritagli di giornale, con i tesserini delle squadre nelle quali aveva giocato. In televisione parlavano di lui, del suo acquisto, tutti gli credevano e per quanto fosse assurdo eccolo di nuovo in un’altra squadra…”. Coltivando i suoi hobbies preferiti, le donne e il sesso, in un’epoca nella quale non esistono internet, i telefonini, la comunicazione globale e anche la scienza medica ha i suoi limiti, la sua parola vale quanto quella dei dottori. Carlos strappa così periodi di prova a diversi club brasiliani e anche più di un paio di mensilità cadauno: ci cascano anche Fluminense e Vasco da Gama. In carriera si vanterà anche di una mirabolante esperienza agli El Paso Sixshooters, negli Stati Uniti. Nessuno mai lo smentirà. Nel 1986 il Flamengo lo cede al Gazélec di Ajaccio, in Corsica. Carlos ‘Kaiser’ fa sfoggio di uno dei primi modelli di telefono cellulare e millanta comunicazioni continue con un misterioso agente e con club internazionali interessati ad acquistarlo. In verità in mano ha un giocattolo. Viene accolto con una cerimonia regale: “Mi catapultarono in uno stadio più piccolo rispetto agli stadi di Rio, ma pieno di tifosi. Pensai che avrei dovuto solo fare una corsetta e salutarli, ma in campo c’erano dei palloni ed ho capito che avrei dovuto palleggiare. Sono diventato nervoso, temevo che dal mio primo allenamento avrebbero capito che non sapevo giocare. Ho iniziato a raccogliere tutti i palloni e a lanciarli ai tifosi. Nel frattempo, salutavo e mandavo baci. La folla era impazzita”. Carlos ‘la Volpe’ butta tutti i palloni che trova in tribuna poi scatta in profondità e si accascia a terra. Sembra un tuffo fra le braccia del pubblico, in realtà è già stremato. Un’avventura che può finire già così. Un’esperienza europea però da raccontare e che gli permette di ritornare in Brasile da ‘eroe’. Oggi tutto questo ‘teatrino’ non sarebbe durato più di due o tre giorni. Ma all’epoca ‘Raposo’ è riuscito a mandarlo avanti per ventisei anni. In questo - bisogna dirlo - ci vuole talento. Tornare in Patria con le fotografie scattate fra la Corsica e la Francia, il cartellino di ingaggio e le prove del bagno di folla, è un pass per il successo. Carlos è abile, frequenta i locali alla moda di Rio de Janeiro, dove vanno i calciatori più importanti . Sa come fare divertire tutti, sa diventare amico di tutti. E sempre più spesso inizia a circolare il suo nome. Ci casca in pieno il neopresidente del Fluminense Fabio José Egypto da Silva, uno dei presidenti meno amati del club di Bairro Laranjeiras. E con il Fluminense strappa un ricco contratto e un accordo commerciale. E in quell’anno vince di riflesso anche il campionato, ma senza mai giocare neppure un minuto. L’anno dopo passa al Vasco da Gama per espressa richiesta del presidente Antonio Soares Calçada, ma riesce ad entrare in urto con l’allenatore Nelsinho Rosa, che non lo farà mai giocare. A fine stagione il ‘Kaiser’ lascia il Vasco e si trasferisce in Argentina, all’Independiente. Va via con la promessa solenne di Djalminha che si ritroveranno in occasione delle sue nozze un paio di anni più tardi, quando il calciatore del Vasco gli farà da testimone. E così sarà. Anche in Argentina la tattica di Carlos è la solita: “Arrivavo al campo dicendo di essere fuori forma, così potevo svolgere un mese di lavoro con un preparatore personale. Poi, al primo allenamento con la squadra proprio sotto gli occhi dell'allenatore, chiedevo a un mio compagno di scontrarsi con me in area di rigore e poi dicevo che mi faceva male un muscolo e stavo altri venti giorni fermo. Quando poi le cose sono diventate più difficili mi sono fatto amico un dentista che mi faceva dei finti certificati medici che attestavano che avevo degli altri problemi fisici. E tiravo avanti così”. Perché per lui il problema principale è sempre lo stesso: giocare a calcio. Perché quasi ‘socraticamente’ sa di non sapere giocare al calcio. Ciononostante, ha una indiscutibile abilità di farsi ingaggiare da chiunque. Tra le sue ‘storie’ migliori raccontate agli amici, oltre al campionato ‘non-vinto’ con il Fluminense, il non-debutto ad Ajaccio, il non-ingaggio a El Paso, la Taça Guanabara col Vasco, rimarrà nella storia anche quella vittoria della Coppa Intercontinentale del 1984 proprio con l’Independiente a Tokyo, 1-0 contro il Liverpool. Racconti da bar, ma ben narrati, da perfetto affabulatore, in un’epoca nella quale è difficile anche controllare. È anche per questo che dall’Argentina agli States il passo è così breve e la storia così ricca di ricordi, ma il numero di presenze in campo è identico a sempre: zero. In tredici anni di carriera e sette anni di settore giovanile Carlos Henrique Raposo, attaccante, ha collezionato zero presenze e – ovvio - zero gol pur avendo militato in otto team diversi. Non male. O sì? Ma il suo capolavoro Carlos ‘Kaiser’ lo firma nel 1991 quando è in procinto di vestire la ‘camiseta’ del Bangu, club guidato da un controverso pseudo imprenditore: Castor de Andrade, il quale ha messo insieme un team di stelle e dalla stampa lo fa presentare come il nuovo ‘O Rei’, con buona pace di Pelé. Prima del provino Carlos ne inventa una delle sue. Nei giorni precedenti riesce a parlare con alcuni dei raccattapalle che saranno in campo e - promettendo di pagarli a missione compiuta - li convince a fargli da claque e agitatori verso il pubblico perché tutti urlino il suo nome. L’operazione va in porto e quando Carlos entra sul terreno di gioco non c’è neppure bisogno che sfiori la palla. Lo stadio è in delirio per lui e de Andrade è certo di avere in mano un fenomeno. A raccontarlo oggi non ci si crede, ma quello prima del duemila era un altro mondo. Prova ne sia il ‘pezzo da novanta’ con cui ‘la volpe’ conclude la sua recita al Bangu. Il ‘Kaiser’, pur non giocando, è per davvero un ‘re’. È amatissimo dai tifosi e soprattutto dalle tifose, è l’uomo spogliatoio, è l’uomo di fiducia del presidente, è il collante della squadra e l’anima del gruppo anche nelle uscite serali fra un night e una churrascaria. E tutto va benissimo, in particolare perché nessuno gli chiede di giocare. Somigliava a Renato ‘Gaucho’ Portaluppi, piaceva tantissimo, e la cosa al vero Renato non ha mai fatto piacere… “Avevo problemi a casa con mia moglie, molti pensavano di vedermi fuori a cena o a bere con un’altra donna, mentre io invece ero in ritiro con la squadra e loro vedevano il ‘Kaiser’…”. In ogni caso tutto sembrava andare alla perfezione, fino a un giorno in cui al presidente de Andrade venne in testa di vedere il ‘Kaiser’ anche in campo. Perché va bene la fiducia, d’accordo l’amicizia, okay il gruppo, ma gli assegni corrono e quel bel tipo di Carlos ha ancora gli scarpini lucidi. Che ci sia sotto qualcosa? Scatta così l’ordine al tecnico Sérgio Cosme di far giocare Carlos durante un’amichevole. Castor de Andrade non è solo il presidente del Bangu, ma è anche un maneggione della lotteria illegale brasiliana che si è conquistato il ruolo di boss e di biscazziere clandestino che gestisce il cartello del gioco d’azzardo dello stato carioca. Uno con il quale è meglio non scherzare se non ci si vuole ritrovare con ai piedi degli scarpini di cemento. “Non sapevo cosa fare. Mi salvò la mia presenza di spirito. Durante il riscaldamento, un gruppo di tifosi mi insultò per i miei capelli lunghi. Scavalcai le recinzioni e scatenai una rissa: venni espulso ancora prima di entrare. Negli spogliatoi, durante l'intervallo, arrivò il presidente. Era furioso, ma prima che potesse esplodere di rabbia, gli dissi che Dio mi aveva dato due padri: che il primo l’avevo perso, ed il secondo era lui, e che avevo reagito così perché i tifosi lo stavano insultando. Il mio contratto scadeva quella settimana. Lui mi abbracciò e me lo prolungò di altri sei mesi”. Un fenomeno! La squadra sta perdendo 2-0 e il nuovo acquisto si fa espellere per difendere l’onore del presidente. Una scelta drastica, ma risolutiva per evitare di essere smascherato. Provocata, in realtà, perché la rissa l’aveva provocata proprio ‘la volpe’, prendendo prima di mira un avversario, poi un tifoso, infine scavalcando l’inferriata di fronte all’arbitro. Ma quella risposta era stata spiazzante: «Dio mi ha tolto mio padre e ora che me ne ha dato un altro ». Chapeau! Lasciato il Bangu, Carlos Henrique Raposo approda all’América di Città del Messico. I messicani dopo dieci anni forse si sono dimenticati di lui e ancora sono terreno fertile. E lui sa farsi volere bene dai suoi compagni di squadra. «Se il ritiro era in un albergo, io ci andavo due o tre giorni prima portando con me una decina di ragazze e affittavo loro le stanze sotto quelle prenotate per la squadra. Così di notte nessuno doveva lasciare l'albergo, bastava scendere le scale». Carlos continua a non giocare mai e a concedere interviste a preziosi amici giornalisti pagati per scrivere fior di articoli su di lui, esaltandone le doti di attaccante e consigliandolo a chiunque avesse bisogno di un fuoriclasse, celebrandolo e pure annunciando faraoniche offerte pervenute dal Giappone, dall’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti, da ovunque non sia possibile controllare se le voci fossero vere o false. L’ultimo ingaggio lo strappa con il Guarany de Camaquã, semisconosciuto club del Rio Grande do Sul. Roba amatoriale, che pur di poter avere una ‘stella’ come lui arriva a tassarsi. Ma anche qui non gioca neppure un secondo. Ventisei anni di calcio, undici casacche, zero minuti giocati. Se non è un record questo… Un calciatore professionista che non ha mai giocato una partita. Carlos Henrique Raposo, detto ‘Kaiser’. Un maestro dell'inganno, che non sapeva giocare a calcio ma sapeva come ottenere contratti tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’90. La cui storia è stata raccontata anche in un film, da Louis Myles. Tra articoli di giornale comprati, festini a luci rosse organizzati per compagni e amici e un modo di fare accattivante e guascone, Raposo è andato avanti senza mai traballare. Gli si poteva chiedere tutto, ma non di calciare un pallone. Tanto che al Fluminense si autoaccusa per evitare sospensioni e punizioni ai compagni. Contro il Palmeiras - dove in amichevole avevano intenzione di provarlo - paga un compagno di squadra perché lo atterri duramente nell’ultimo allenamento prima della partita. E all’América inventa un problema dentale gravissimo ma inesistente. Per non parlare delle donne procurate a Emil Pinheiro, presidente del Botafogo, che gli valsero prolungamenti di ingaggio… Mentre gli eroi si battono per un ideale di giustizia, gli antieroi agiscono spesso come imbroglioni o che usano mezzi illegali, anche se capiscono che le loro azioni sono sbagliate. Lo scrittore francese Alain Robbe-Grillet ne parla come di "eroi senza naturalezza e senza identità". Ebbene, Carlos Raposo è - al contrario - un antieroe con un’identità precisa e una naturalezza disarmante. Ha infatti sfidato e abbattuto ogni barriera logica, si è inventato una vita ai confini della realtà, approfittando del tempo e dello spazio - complici - nei quali viveva: mai una partita ufficiale ma contratti sempre in tasca. Nessuna frustrazione, ma la certezza intima e segreta di essere a modo suo un vincente. Un Arsenio Lupin di un mondo nel quale, sotto gli occhi di migliaia di persone, è riuscito ad essere sempre il più abile senza tuttavia mai dover dimostrare la propria abilità. La sua è una storia che ricorda quegli antichi cestini di vimini frutto di un sapiente e meticoloso straordinario intreccio di scaltrezza, buona sorte e insolenza dalle quali è nata l’unica e inimitabile carriera fantasma che il calcio abbia mai conosciuto. ‘Kaiser: the greatest footballer never to play football’ è un titolo molto più romantico e imponente di ‘Kaiser: Il più grande truffatore della storia’, ma il docufilm biopic è lo stesso. E forse gli rende giustizia per la sua genialità. In fondo fare ciò che ha fatto lui, che sapeva a malapena fare qualche palleggio, ha quasi del miracoloso. Ma avere il suo carisma in un’epoca in cui il calcio non è pane quotidiano per ventiquattro ore al giorno, in cui l’occhio non è puntato sul mondo in presa diretta, in cui tutto è più sfumato, al limite del misterioso è stato fondamentale. Per il resto servirebbe un manuale sul come ‘farsi mettere da parte una volta entrato in uno spogliatoio’. Rimanendo tuttavia centrali nel ‘suo’ progetto di rimettersi ogni volta in gioco, coinvolgendo compagni di squadra, staff sanitari, procuratori, giornalisti, tifosi attraverso i quali sistematicamente approdare a un contratto e a una squadra nuova. In maniera pressappoco diabolica. Eppure, nonostante tutto, nessuno dei suoi amici lo ha mai tradito. Romario, Bebeto, Edmundo. Sorridono, imprecano, ma gli vogliono bene. “Il ‘Kaiser’ era come un talismano, un portafortuna, lui doveva esserci per forza. Lui voleva essere un calciatore per vivere come un calciatore, non per giocare a calcio… Sognava la fama, i soldi, le donne, i viaggi come i veri campioni del pallone. A modo suo ci riuscì e seppe anche uscire di scena senza neppure troppi clamori. Non ci fu mai uno scandalo: concluse la sua incredibile carriera a quasi 38 anni... ma ovviamente senza scendere in campo un solo minuto”. Ci sono forti dubbi su chi possa essere stato il più grande calciatore di sempre. Dipende dalle epoche, dagli avversari, dai gusti. Istintivamente i primi nomi che vengono alla mente sono Pelé, Maradona, Cristiano Ronaldo, Messi, Crujiff, Zidane, Ronaldo, Di Stefano… rigorosamente in ordine sparso… ma potremmo stare qui a citarne altri cento per ore. Invece non c’è nessun imbarazzo o incertezza se dobbiamo eleggere il più grande non-calciatore di tutti i tempi: Carlos Henrique Raposo, il ‘Kaiser’ di Rio. Antieroe di un tempo in cui non esisteva la ‘rete’ e bastava far credere di essere un calciatore per diventarlo. Storyteller di sé stesso, al di là di ogni ‘Almanacco del calcio’, venuto da Rio Pardo a predicare il suo verbo come una sorta di Snoopy del pallone… «…ecco il grande calciatore, accolto da una folla di tifosi impazziti, che saluta mentre siede in panchina… i suoi avversari lo temono anche se non sanno che non giocherà, ma la sola sua presenza riempie i loro occhi di terrore…». A tutt’oggi non è ancora chiaro quante bugie e quante verità Carlos abbia raccontato e forse non lo sapremo mai. Di sicuro i calciatori fanno di tutto per evitare i calci, lui rimane l’eccezione che fece di tutto per evitare il calcio, pur volendo dannatamente rimanerci dentro fino alla fine. E a ogni bugia la sua posizione nei confronti delle controparti si faceva sempre più forte: “Non potevano licenziarmi. Come puoi dire di aver ingaggiato un calciatore che non sa giocare? Né puoi venderlo, significa svalutare le tue risorse. Tutte le squadre in cui sono stato hanno festeggiato due volte: quando sono arrivato e quando me ne sono andato”. Oggi il ‘Kaiser’ fa il personal trainer. Speriamo si presenti almeno ad allenare gli altri…

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