La prima squadra di calcio femminile in Italia: le pioniere contro il Fascismo

1932. E’ il decimo anno dell’era fascista. Il 25 ottobre, in Piazza Duomo a Milano, è atteso il discorso di Benito Mussolini. Un’Italia uscita vittoriosa dal primo conflitto mondiale ma che a Versailles non ha ricevuto il giusto riconoscimento. Un’Italia nella quale il malcontento generale spingerà verso una voglia di cambiamento. In quegli stessi attimi c’è chi però non è assolutamente attratto dalla politica né da considerazioni più impegnative, tantomeno dalle scommesse sul futuro. C’è chi ha solo voglia di leggerezza, forse anche di una rivoluzione ma culturale e di lanciare una sfida pacifica a delle convenzioni che paiono già essere un po’ troppo rigorose. E’ sulla panchina di un parco milanese che, per questo, un gruppo di ragazze ipotizza di dedicarsi al gioco del calcio esattamente come fanno gli uomini. Del resto nel Regno Unito se ne parla tanto già dal 1895. Negli anni della prima guerra mondiale gli uomini erano al fronte e le donne in fabbrica e nelle pause si sfidavano in animate partite di pallone e poi quella sfida fra le Dick, Kerr’s Ladies Football Club e St Helen’s Ladies sul campo di Goodison Park, a Liverpool ha richiamato 53mila spettatori e l’Everton ha un club femminile che in casa gioca davanti a 40mila tifosi. Sarebbe bello provare a giocare al calcio anche in Italia fra ragazze. Idea tutt’altro che peregrina, che raccoglie subito decine di adesioni e in poco tempo porta alla fondazione di un Gruppo Femminile Calcistico denominato, appunto, GFC. E così, mentre in Piazza San Babila ci si spintona per ascoltare Mussolini, nei parchi di Milano ci si passa la voce per radunare quante più ‘calciatrici’ possibili attorno a un progetto innovativo. Progetto che sulle prime trova anche porte aperte presso gli organi federali, che acconsentono a che le ragazze del GFC si allenino, a patto che però usino un pallone di gomma e non di cuoio: ma sì, si può fare, magari è solo una questione di sicurezza. Che usino la gonna al ginocchio e non i pantaloncini: vabbé, un po’ come il tennis, ma se è per salvaguardare la femminilità, si può anche chiudere un occhio. Che la palla venga passata solo rasoterra e in porta vadano dei ragazzini adolescenti: e questo perché? Per salvaguardare le capacità riproduttive delle ragazze, ovviamente. Comprensibile qualche momento di imbarazzo e di sconcerto, prima che le ragazze chiedano se è tutto. Ma non è ancora tutto. C’è un altro piccolo particolare. Dunque, ricapitolando. Le ragazze del GFC usando un pallone di gomma, indossando la gonna, passandosi la palla rasoterra, mettendo in porta dei maschietti adolescenti, potranno allenarsi. Cosa manca? A patto che non giochino in pubblico. In realtà la storia della gonna - rigorosamente nera - era legata al concetto di rispetto della morale pubblica, contenuto in un regolamento modificato su misura per il GFC, così da non compromettere la loro funzione primaria nella società fascista: quella di fare figli, come asserito da Benito Mussolini nel famoso ‘Discorso dell’Ascensione’ pronunciato alla Camera dei Deputati il 26 maggio 1927. Ma se da un lato il regime aveva l’esigenza di limitare l’esuberanza delle ragazze milanesi, dall’altro c’era una certa voglia di mettere alla prova questo manipolo di giovinette che a modo loro lanciavano una specie di sfida al loro tempo, a una mentalità dominante che vedeva nel calcio lo sport come emblema della virilità fascista. E poi c’era quella fierezza antifascista così intrigante in quella giovane Rosetta Boccalini, che insieme alla sorella più grande Giovanna si era messa alla testa del movimento, da farle meritare gli onori della messa alla prova. Quando tutto sembra complicarsi, ecco però apparire un alleato inaspettato che offre il suo aiuto alle ragazze del GFC. E’ Leandro Arpinati da Civitella di Romagna, socialista, interventista, amico di Mussolini. presidente della FIGC e del CONI, tifoso del Bologna, che concede loro il permesso di giocare. La vita della squadra è tuttavia parallela alle lotte interne al partito, in particolare tra Arpinati e Achille Starace, fedelissimo del Duce che - avocati a sé tutti i poteri di gestione degli ambiti sportivi non appena nominato segretario del PNF - si muoverà in direzione ostinata e contraria a quella tracciata dal predecessore. Fino all’avvento di Starace, tuttavìa, il presente e il futuro del GFC sembrano dipingersi di rosa. Al punto che nell’inverno del 1933, le quattro sorelle Boccalini, Ninì Zanetti, Losanna Stringaro e un’altra quarantina di ‘atlete’ annunciano alla stampa di voler giocare. La speranza è che ci si possa ‘appoggiare’ alla necessità del regime di reperire atlete da convocare alle Olimpiadi di Berlino del 1936. Ma al PNF serve tutto meno che delle calciatrici. E poi questa cocciutaggine di voler giocare al calcio comincia ad apparire come un palese dissenso non solo verso il regime, ma anche verso gli stereotipi di genere. Visto che durante l’epoca fascista lo sport 'delle donne' serve essenzialmente a sviluppare il corpo femminile, non certo a favorirne l’emancipazione. In quest’ottica quindi va letta tutta la preoccupazione dell’epoca rispetto ai rischi legati alla possibilità che la palla sbatta - ad esempio - contro il seno. Oggi l’argomento non è più di attualità, ma dal 1933 sono passati novantadue anni e in Italia il calcio femminile è diventato professionistico soltanto dal 2022/23. Ma c’è voluto il 1986 per vedere il primo campionato ufficioso e il 1986 per il primo finalmente istituito da una Federazione strutturata. Comunque sia, tornando al GFC, mentre il PNF studia il caso e Starace ci ragiona su, Rosetta Boccalini e le sue compagne continuano ad allenarsi fra risolini di derisione da parte della gente e anche qualche riga irridente sui giornali sportivi dell’epoca. Rosetta, nonostante i suoi sedici anni, tira dritta come un treno con fare garibaldino, perché ama il calcio. Per la sorella Giovanna andare avanti è un gesto politico, per l’altra sorella Marta è una battaglia di libertà, la Ninì Zanetti è coraggiosa ed è quella che fissa gli allenamenti, Losanna Stringaro non ha famiglia e parla con i giornali, poi c’è quella lì, la figlia del Lucchi che scappa da casa e litiga col padre pur di stare nel gruppo. Tutte amiche fra di loro, sono la prima squadra di calcio femminile in Italia. E man mano che il gruppo si allarga, il regime si allarma. Per non indisporlo, le ragazze scendono in ogni caso in campo con i calzettoni e la gonna nera, così da non offendere la morale. Ma sono comunque donne e il calcio è uno sport da maschi. E la polizia politica gli sta addosso e sta addosso alle loro famiglie. Giuseppe, il marito di Giovanna, ad esempio finisce nei guai. E indirettamente viene radiografato tutto il GFC. E’ una storia di amicizia, di gioco e di lotta. Giovani donne pioniere del calcio italiano, tra poche vittorie, frustranti sconfitte, inattesi amici e irriducibili nemici. Una discriminazione ‘indotta da un tempo storico’ che andrebbe però giudicata con quegli occhi e non con quelli di oggi, come ogni avvenimento del passato, ma che induce pur sempre a una preziosa riflessione su una ingiustizia. Quando del GFC si accorge la rivista ‘Il Calcio Illustrato’ fondata da Leone Boccali, Rosetta Boccalini dichiara che “si tratta di un giuoco, un amatissimo giuoco, un amore tenace, non un fuoco di paglia. Le mie compagne hanno tanta passione e buona volontà: non tramonteremo mai”. Parla da ‘tifosina’, si sente ancora forte dell’appoggio di Arpinati che ha aperto a “un esperimento da tentare, pur riconoscendo che la sua diffusione non è opportuna, pertanto da svolgersi in privato, cioè su campi cintati e senza l’ammissione di pubblico”. Anche se alle ragazze viene richiesto un ‘certificato medico’ da rilasciarsi dal dottor Nicola Pende, Direttore dell’Istituto di biotipologia Individuale e ortogenesi di Genova’, perché attesti che nessun danno derivi alla linea estetica del corpo, né allo statico degli organi addominali femminili e sessuali in ispecie, da un gioco del calcio razionalizzato e non mirante a campionato, che richiede sforzi di esagerazioni di movimenti muscolari, sempre dannosi all’organismo femminile. Insomma, si giochi a calcio per diletto e con moderazione ma solo se si hanno fra i quindici e i venti anni di età. Il regime ha il terrore che il calcio possa compromettere la fertilità delle giocatrici, in ogni caso una volta diventate madri lo sport è precluso. La stampa dell’epoca parla di una buffonata all’americana, di anti-sport e di imbarazzi nei periodi lunari. A primavera inoltrata le ragazze si sentono comunque pronte alla prova del nove e decidono di mettere in piedi la loro prima partita vera. La prima partita di calcio femminile in Italia. Difficile organizzarla in un luogo cintato e riservato, perché ormai intanto si è parlato così tanto di loro che sono diventate famose e la curiosità ha attirato tifosi da ogni parte. Nel frattempo il gerarca Starace è diventato capo del Coni, defenestrando Arpinati. Il suo metro è essenzialmente politico: lo sport deve fornire solo campioni che diano lustro al regime. Un po’ difficile che di qui in avanti la GFC possa rientrare nelle sue simpatie. Comunque sia, l’11 giugno del 1933 si gioca la prima e ultima partita di calcio del Gruppo Calcistico Femminile milanese, fondato da Giovanna Boccalini, sposata e madre di due figli e per questo già impossibilitata a partecipare, composta da atlete fra i quattordici e i venti anni. Già il 1° aprile la ‘Gazzetta dello Sport’ aveva annunciato la partita a porte chiuse, con il permesso di Arpinati. E pure ‘Il Tifone’ di Roma ne aveva parlato. Non è più un progetto segreto, insomma. Le ragazze scendono dapprima in campo con una maglia a strisce verticali bianche e nere ispirata a quella della Juventus. Il campo è il ‘Fabio Filzi’ di Milano, una struttura sportiva del Gruppo Rionale Fascista, allòra sita in via Melchiorre Gioia, nell’area oggi prospiciente al complesso ecclesiastico S.Agostino/Salesiani. Arriva così per le atlete il momento di dividersi in due gruppi: il GS Ambrosiano, in maglia a strisce nerazzurre, e il GS Cinzano, in maglia a strisce oblique rosse e blu. In porta - come richiesto - si sistemano due baldanzosi adolescenti maschi in forza all’Ambrosiana Inter. Vince il GS Cinzano 1-0 con gol della capitana Mina Bolzoni nel finale, dopo due tempi di trenta minuti. Carlo Brighenti de ‘Il Calcio Illustrato’ e la testata locale ‘Voce di Giovinezza’ danno ampio risalto al match con fotografie e cronaca. Dopo soli otto mesi di vita, la squadra ha vinto la sua partita ma non sa ancora che però sta per perdere la sua battaglia. I sogni delle ragazze vengono infatti poco dopo interrotti bruscamente. L’Italia fascista ha bisogno di buone madri, non di virago calciatrici. Così Achille Starace impone la chiusura del Gruppo Calcistico Femminile e spedisce i funzionari del Coni milanese a saccheggiare le squadre per trovare ragazze da trasformare in atlete di altri sport, meglio se olimpici. Del Gruppo Femminile Calcistico rimane dunque solo il caparbio tentativo di fare la storia del calcio femminile in Italia, peraltro ben riuscito. Una delle calciatrici, Maria Lucchese, quattro anni più tardi, sposerà Ugo Cardosi, primo allenatore della squadra . La pratica GFC era stata liquidata da Starace con un commento breve ma lapidario, “Il calcio non è cosa da signorine, ve lo dovete mettere in testa. L'entusiasmo di queste ragazze verso lo sport è lodevole e sano, ma va arginato e reinstradato verso altri sport più consoni alle fanciulle”, poi beffardamente smentito dalla storia. Ma soprattutto da quelle parole, che rimangono eterne, pronunciate davanti a un giornalista curioso da Antonietta -mamma di Rosetta Boccalini: “Mia figlia da quando giuoca sta meglio, mangia di più, non frequenta le sale da ballo, dorme come una talpa ed è più buona. Giuochi pure, giuochi ancora”.

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