Massimo Palanca, il ragazzo che voleva e riuscì a farsi re

“Io sono il quinto di otto figli… a quel tempo guadagnavo quindicimila lire e una parte di queste le mandavo a casa. Tutti si doveva collaborare e io che avevo la possibilità di guadagnare un po’, contribuivo alla vita della mia famiglia…”. Una famiglia numerosa. Papà Renato e mamma Liliana, poi sei sorelle e un fratello, Gianni, calciatore. Proprio come Massimo. Anzi no, bravo ma come Massimo no. Perché di Massimo ce n’era allora e ce n’è tuttora uno solo. Massimo Palanca. Loreto, nelle Marche, distante una mezz’oretta da Ancona, negli anni cinquanta del secolo scorso è già una delle mete principali del pellegrinaggio planetario dove accorrono fedeli da tutto il mondo per visitare il Santuario della Madonna, con dignità di Basilica minore, e chiedere una grazia a Maria Madre di Gesù. Per Massimo però non c’è mai stato bisogno di intercessioni. Lui un dono dal Cielo lo ha ricevuto alla nascita, anche se lo scoprirà qualche anno più avanti. All’età di dieci anni il papà lo iscrive al Settore Giovanile del Porto Recanati, dove Massimo resta fino all’adolescenza. A diciassette anni non ancora compiuti passa dall’Adriatica alla Passamonti di Camerino, adottato in senso calcistico dall’allora presidente Eligio Santacchi e improvvisamente si ritrova in Serie D. E’ un attaccante tutto mancino, dinamico e scattante. Infatti dalla tribuna in futuro gli urleranno “Massimé, Massimé, pari na molla, pari na molla…”. E il 18 ottobre 1970, in un anonimo Camerino-Fermana 0-0, Massimo debutta in quarta serie. Nel primo anno non è molto incisivo. Realizza appena due reti in sedici presenze. Poi affina il senso del gol e scopre quel dono che ancora non aveva realizzato di possedere e va subito in doppia cifra. Già l’anno successivo in 28 presenze va in rete per tredici volte. E l’anno dopo ancora in 27 presenze di reti ne mette a segno sedici. Complessivamente 29 reti in 55 gare nelle ultime due stagioni. Il calcio di allora era molto diverso da quello attuale. Si sparge la voce, aumenta la frequenza dei titoli sui giornali, da un campo sportivo all’altro il nome di Massimo Palanca comincia a varcare i confini delle Marche e destare l’interesse di squadre di Serie C e non solo, che spediscono i propri osservatori in giro per l’Italia per vederlo giocare. Massimo ha un piede piccolo, calza appena 37. E sarà la sua fortuna. Sui campi minori incominciano a chiamarlo ‘Piedino d’oro’. Nell’estate del 1973 il suo ex allenatore alla Passamonti, Gabriele Guizzo, gli combina un provino a Frosinone sotto gli occhi curiosi del tecnico Umberto Mannocci, ruvido livornese, ex calciatore di ruolo centrocampista, arrivato in Serie A con il Livorno e la Sampdoria. Mannocci, che allena già da sedici anni e ha guidato dalla panchina anche la Lazio, è uno che ha fiuto. Decide di schierarlo fuori ruolo, mezz’ala, dove Massimo fatica molto a mettersi in luce. Ma il ragazzo ha carattere e tecnicamente non è male, è uno che si dà da fare e poi c’è Guizzo che garantisce per lui. Mannocci si convince che l’affare c’è e il Frosinone così acquista il cartellino di Palanca per quattordici milioni e mezzo. E lo stipendio mensile di Massimo sale a 120mila lire. A venti anni Massimé è in Serie C. Dove Mannocci - saggiamente - decide di farlo ritornare a giocare nel suo ruolo naturale, quello dell’attaccante. Il 14 ottobre segna il primo gol da professionista. L’infortunio di un compagno gli spalanca le porte della titolarità nel reparto avanzato giallo-azzurro e Palanca si fa trovare pronto. Da quel momento il suo ruolo di punta non verrà più messo in discussione. Massimo è oramai un beniamino della tifoseria ciociara e lo diventa ancor di più conquistando il titolo di capocannoniere del girone C della Serie C. Un vero e proprio exploit che fa molto rumore nelle categorie superiori. E getta nello sconforto i frusinati. I tifosi del Frosinone sanno bene che una offerta importante porterà via Palanca dalla città. Il primo tentativo serio lo fa la Reggina, che strappa un’opzione. Poi però gli amaranto retrocedono e non se ne fa più nulla. Ma il destino di Massimo sembra dovere per forza incrociare la Calabria. In Serie B, oltre alla squadra dello Stretto, gioca anche il Catanzaro, da tre anni. Retrocesso nel 1971 dalla Serie A e che in attacco cerca soluzioni. Gori, Spelta e Petrini funzionano. Galli e Marsico no. La proposta è allettante. I giallorossi offrono ben 120 milioni di lire al Frosinone. A muoversi è il presidente Nicola Ceravolo in persona per anticipare eventuali mosse di altre società. E lo stipendio di Massimo sale a un milione di lire al mese. Sulla panchina delle ‘Aquile’ c’è Gianni Di Marzio al quale si chiede di riconquistare la promozione in Serie A. Massimo è frastornato, a Frosinone si trova bene, ma l’occasione è ghiotta e poi non può rifiutare. “Ho cercato sulla cartina geografica dove fosse Catanzaro. Nel primo viaggio in treno da Roma ho poi dormito con la testa sulla valigia. Dopo un viaggio di dodici ore andai in bus fino alla sede. In stazione non c’era nessuno. Avevo decuplicato lo stipendio senza passare dalla solita guerra con presidenti e dirigenti per strappare 100mila lire in più”. Palanca ancora non lo sa, ma sta per avere inizio la storia della sua vita. Il nuovo Catanzaro parte da un grande rinnovamento nella ‘rosa’. Della vecchia squadra sono rimasti in otto: Pellizzaro, Gori, Silipo, Maldera, Banelli, Spelta, Braca e Garito. Fra i nuovi acquisti i più attesi alla prova del campo sono Vichi, Ranieri e proprio lui. Non sa ancora, Massimo, che nello spazio di tre stagioni a Catanzaro sfiorerà la Serie A e diventerà capocannoniere anche della Serie B. Diventando negli anni l’imperatore del capoluogo calabrese. Eh sì, perché nel corso degli anni trascorsi in Calabria, anche gli appellativi di Palanca subiscono interessanti trasformazioni. Da Piedino d’oro a Piedino di Fata, da Imperatore a O’Rey. Il suo mancino numero 37 diventa leggendario. Il laboratorio dell’azienda artigianale ‘Pantofola d’oro’ - che fra i clienti ha già avuto John Charles e Omar Sivori - gli forgia scarpini su misura. E Sandro Ciotti, che aveva definito Johan Cruijff ‘il profeta del gol’, lo inserisce fra i migliori sinistri d’Europa. Fra alti e bassi Massimo costruisce un ‘piccolo grande mito’, che inizia con una distorsione a una caviglia causata da un brutale tackle subìto da Burgnich contro il Napoli, passa per il primo gol in giallorosso in campionato contro l’Atalanta allo storico e ventoso Stadio ‘Militare’ di Catanzaro, incespica sullo spareggio per la A perso a Terni contro il Verona e culmina nella sua prima stagione calabrese sulla promessa di un grande campionato l’anno successivo. E siccome è un uomo di parola, l’anno successivo ripaga le attese realizzando undici reti, con le quali trascina la squadra alla seconda storica promozione nella massima categoria, un lustro dopo la prima. E’ il 1976 e Catanzaro impazzisce… “è pazzesco, ovunque ricevimenti… ci hanno affittato un trenino di quelli per i bambini per farci fare il giro della città, c’è un entusiasmo incredibile”. E lui, Massimo Palanca è il protagonista numero uno. Ancora ottobre, il 3, del 1976. E ancora di fronte il Napoli. Massimo Palanca fa il suo esordio in Serie A. Il campionato è difficile, molto più difficile della Serie B e i calabresi retrocedono subito. Ma l’anno successivo ritrovano la promozione dopo un’altra esaltante stagione nel campionato cadetto. Terza esperienza in A e seconda promozione per Massimo, che addirittura diventa capocannoniere con diciotto reti, realizzando una impresa memorabile. Ma non l’unica. L’altra la realizza all’Olimpico, quando il Catanzaro centra una spettacolare vittoria per 3-1 contro la Roma, in trasferta e Palanca segna una tripletta indimenticabile, mettendo in rete un pallone - fra gli altri - direttamente dalla bandierina. Un gol da calcio d’angolo. Un marchio di fabbrica, una specialità della casa resa possibile proprio da quel piedino numero 37 con il quale sa fare miracoli. In quel campionato si ripete altre due volte, sempre disegnando parabole assurde. “Io ci provo, a volte i tiri passano alti sette o otto metri sopra la traversa. Ma io ci provo. E poi c’è Claudio Ranieri che si mette a saltellare davanti alla porta avversaria e per un attimo nasconde la palla al portiere e lo spiazza. Però io mi alleno su questi tiri. Sfrutto il vento di Catanzaro…”. Massimo diventa capocannoniere anche in Coppa Italia, porta il Catanzaro in semifinale contro la Juventus e a cavallo fra il 1979 e il 1980 si accorge di lui anche Enzo Bearzot, Ct della Nazionale. Il 15 dicembre 1979, a Genova, Massimo Palanca indossa la maglia di una Nazionale ‘sperimentale’ impegnata in amichevole contro la Germania Ovest. La sua carriera azzurra però termina qui. In Serie A in quella stagione tocca per la prima volta la doppia cifra, segnando 10 reti, ma non basta. Anche se la squadra si salva chiudendo la stagione al nono posto. Quando nel 1981-82 passa al Napoli il ‘dono’ sembra essere svanito, Massimo è l’ombra di sé stesso. In tre stagioni lungo l’asse Napoli-Como-Napoli arrivano solo quattro reti in sessanta presenze. Il bomber è irriconoscibile… va al Foligno per ritrovarsi e in due campionati segna diciotto gol in 47 partite. Poi, nel 1986, decide di tornare nella sua città. No, non Loreto. Ma Catanzaro. E nelle ultime quattro stagioni di calcio giocato un po’ ritrova la fiducia perduta: quarantanove reti in centoventisei partite. Ormai ha trentasette anni, è ora di dire basta. Ogni tanto ripensa a papà Renato, custode dello stabile dove vivevano tutti insieme e che dava sul campetto di calcio dove aveva mosso i primi passi, all’arrivo a Catanzaro a ventuno anni. A quel palo colpito a Cosenza nel derby, alle tredici reti segnate dalla bandierina, alle soddisfazioni e agli abbracci dei compagni. All’amore dei calabresi per lui. E a quella città che aveva cercato sulla cartina geografica e che ora gli è entrata nel cuore, nell’anima e non lo lascia più andare via… “Io sono un povero diavolo, io vivo alla giornata, in provincia… Lontano mille chilometri dai grandi centri. Ma la sera quando torno a casa, Catanzaro per me diventa Parigi, Roma, New York. So che sembrerò matto… ma per me è così…”. In quella ‘sperimentale’ che batté i tedeschi dell’ovest c’erano con lui anche Cabrini e Altobelli, che sarebbero poi diventati campioni del mondo… “ma non è un rimpianto, è stata una grande gioia quella partita, il risultato di tutti i sacrifici”. Chissà, forse sarà stato bello, per un puro come lui, anche sapere che grazie alla sua cessione il Catanzaro costruì la squadra che - chiudendo al 7° posto in campionato - disputò la miglior stagione di sempre in Serie A. Ma Massimo sa che nessuno gli toglierà mai i gradi di ‘leggenda’ nella città che lo ha amato di più al mondo e ancora lo ama. A Catanzaro ha amici, estimatori, gli hanno conferito la cittadinanza onoraria, hanno aperto un club e persino un bar che portano il suo nome. Perché Palanca, pur essendo tornato a Camerino dopo avere smesso di giocare, da Catanzaro non è mai andato via. E Catanzaro non esce dal suo cuore. 331 partite e 115 reti non si dimenticano e neanche l’applauso di uno stadio intero al bomber che scoppia in lacrime per avere sbagliato un rigore decisivo per la A al 90’ contro la Triestina. Perché Massimo Palanca non è stato solo un calciatore, ma l’amico di tutti. Sempre pronto a fermarsi a parlare con la gente, a confrontarsi. E’ il numero 11 giallorosso per sempre, che a 72 anni ancora ringrazia Pippo Lupini ed Emidio Lazzarini per aver fasciato i suoi piedini fatati rendendoli unici. Dal Conero ai Due Mari, sognando la Juventus, senza mai sfiorarla. Dall’oratorio di don Ennio Borgogna a un passo dal Mondiale di Spagna. Massimo dai riccioli lunghi e i baffoni imponenti, dal privato riservato e dal pubblico aperto a tutti, dallo scatto rabbioso e dalla balistica impossibile. Il ragazzo che voleva e riuscì a farsi re. Non c’è catanzarese giovane o vecchio che non lo conosca, non abbia visto anche solo in foto i suoi gol. Se a Torino c’è il dieci di Platini, a Napoli il dieci di Maradona, a Roma quello di Totti e a Milano il sei di Baresi, a Catanzaro c’è l’undici di Palanca e non si tocca! Da qualche anno a Catanzaro stanno ricercando vecchie maglie della squadra, collezionisti che impazziscono per rimettere insieme la storia. E per trovare – a qualunque prezzo- la maglia di Palanca. Quel Palanca che manca ancora oggi a una squadra che vorrebbe tornare nel calcio che conta e che - ogni volta che c’è una punizione, un rigore o un calcio d’angolo - fa sussurrare a denti stretti ai più anziani poco prima del tiro… “’ccà ci volera Massimé”… ‘qui ci vorrebbe Massimo’…

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Lucio Rizzica