Subasic, se potesse, probabilmente cancellerebbe sei minuti della finale di ieri. Ma i due errori non cancelleranno il suo grande Mondiale, e una delle storie più belle e significative degli ultimi anni
Se al genere umano fosse stata data l’opportunità, intorno all’ora del telegiornale di domenica 15 Luglio, di poter cancellare sei minuti della propria vita passata, con tutti i dolori, le delusioni provate, i ricordi collegati, probabilmente Danijel Subasic avrebbe tentennato un po’. Poi, forse, avrebbe scelto la parentesi tra le 18.20 e le 18.26 dello stesso giorno, quando cioè con due tiri da fuori area Paul Pogba e Kylian Mbappé hanno portato la Francia sul 4-1 contro la Croazia nella finale della Coppa del Mondo.
Due tiri contro i quali Subasic non ha potuto opporre che la propria fallibilità.
L’arrendevolezza di Subasic di fronte al tiro di Mbappé ci restituisce l’immagine di un atleta fragile, vulnerabile in maniera sorprendente, contraria all’idea di Subasic che ci siamo fatti durante tutto il Mondiale.
A cosa serve, allora, tutta la fatica?
La sua rapsodia minore, crollata proprio all’ultimo atto, Subasic ha cominciato a mandarla a memoria a partire dalla partita contro la Russia. Quando lo scontro con i padroni di casa stava già scivolando verso l’estensione dei supplementari, si è infortunato: ha sentito un dolore al tendine dopo aver provato a salvare un pallone che stava scivolando in calcio d’angolo. «Il fisioterapista mi ha massaggiato, come si fa ai pit-stop con una macchina da Formula Uno. Sono tornato come nuovo». Qualche secondo più tardi, durante il recupero dei tempi regolamentari, “Suba” nega il gol a Smolov.
Durante l’intervallo si scalda Lovre Kalinic, il secondo portiere. Subasic stringe i denti, e al settimo minuto del primo tempo supplementare Dalic è costretto a sostituire Vrsaljko con Corluka. È l’ultima sostituzione possibile. Se Subasic molla la presa, o il tendine lo abbandona, la Croazia si trova senza portiere.
Secondo la dottrina etica degli stoici, l’uomo pieno di virtù è colui che sa adeguarsi a ciò che accade, modellare le contingenze per adattarvisi. È un razionale, e in quanto tale ha completa comprensione della ragione di ogni cosa.
Subasic, al momento dell’ingresso in campo di Corluka, sa che dovrà resistere al dolore per altri ventitre minuti almeno. In qualche modo piega la sua resistenza al contesto, non sa ancora che salverà la porta croata da un tiro insidioso di Kuzaiev, e che capitolerà solo di fronte a un gran colpo di testa di Mario Fernandes, prima dei rigori.
Dopo l’ottavo di finale con la Danimarca, anche la gara contro la Russia si decide dagli undici metri, il territorio nel quale attecchisce meglio l’epica di un portiere, e soprattutto quella di Subasic a Russia 2018.
Danijel Subasic è tutt’altro che un portiere infallibile. Anzi, il pubblico ha sempre avuto l’opinione di trovarsi di fronte a un portiere fragile, che a tratti sembra spegnersi, scomparire dal gioco, volare - con la testa - da un’altra parte. Gli è successo nei sei minuti più bui, per la Croazia, della finale. Gli era successo sulla punizione di Trippier, in semifinale, e ancora prima contro la Danimarca, quando gli erano bastati cinquantasette secondi per trovarsi sul baratro dell'incubo.
Poi, però, ci sono le epifanie. I momenti in cui, come certe persone quando i figli sono in estremo pericolo, Subasic sembra trovare non si sa bene dove la forza, il coraggio, di compiere azioni semplicemente assurde, sbalorditive. Così lontane dalla logica che nell’istante in cui accadono, in qualche modo, non riesci neppure a coglierle.
Ad esempio, questa parata contro l’Inghilterra, in semifinale.
Subasic spunta dal nulla, come i supereroi. In tempo reale nessuno ha avuto la percezione che l’avesse toccata con la punta del piede, semplicemente perché era impossibile capirlo, a occhio nudo. Tutti hanno pensato solo a un errore madornale di Kane. Gli inglesi hanno maledetto il palo. L’esultanza di Subasic, allora, ci è quasi sembrata fuori luogo.
Il rigore per i rigori
Secondo uno studio scientifico forse un po’ datato ma sempre attuale, i portieri durante il rituale di un calcio di rigore scelgono di buttarsi verso destra 19 volte su 20: il 40% delle volte è l’angolo giusto da coprire, e quando indovinano nel 30% circa dei casi riescono a respingere. La stessa percentuale di successo, praticamente, che un portiere riesce ad avere quando sceglie di rimanere al centro della porta.
Nei quattro rigori parati durante questo Mondiale, che fanno di lui il terzo portiere nella storia della competizione a esserci riuscito dopo Schumacher e Goycoechea, Subasic si è attenuto scrupolosamente ai risultati del test scientifico, come se ne fosse davvero a conoscenza. Rimanendo al centro della porta è riuscito a ipnotizzare Smolov, guadagnandosi una fama da pararigori della quale, in effetti, già godeva in Francia, dal momento che nell’ultima Ligue1 ha parato il 42% dei tiri da calcio piazzato subiti dal suo Monaco.
Ma soprattutto, nel micromondo che si spalanca quando l’arbitro fischia la fine dei supplementari, Subasic è diventato - durante questi Mondiali - il leader occulto della Nazionale croata. Luka Modric, dopo aver vinto la monetina prima dei tiri dagli undici metri contro la Russia, ha chiesto a lui «cosa facciamo? Tiriamo per primi?».
Nonostante sia provato che chi tira per primo abbia il 60% di possibilità di vincere, Subasic si è caricato sulle spalle tutta la responsabilità di caricarsi sulle spalle tutta la responsabilità. Ha corso un grande rischio, ma senza deludere nessuno. Ha iniziato la Russia, e sul panenka di Smolov il percorso della sua glorificazione.
Il calcio si gioca essenzialmente con la testa
Per una strana coincidenza, c’è una caratteristica che accomuna i portieri sconfitti nelle finali delle ultime quattro edizioni dei Mondiali. Fabien Barthez, Marten Stekelenburg e Sergio Romero, prima di Subasic, nel momento in cui si sono trovati a disputare una delle partite più importanti delle loro carriere, erano tutti - contingentemente - l’estremo difensore del Monaco. E tutti, nessuno escluso, sono usciti senza poter stringere la coppa tra i guanti.
Sebbene non sia sufficiente a definirlo maledetto, Subasic è, forse a livello europeo, uno dei portieri più continui, sia in termini di prestazioni che di fedeltà al club. Subasic difende la porta della squadra del Principato da sei stagioni.
Sotto la Rocher è arrivato senza clamore, da completo sconosciuto, ma spinto dalla motivazione di ritagliarsi un posto in Nazionale, nel 2012, dopo un’esplosione mancata in patria, rimbalzato tra Zara, la sua città natale, e Spalato, dove è stato il portiere dell’Hajduk. È stato uno dei primi acquisti di Dmitrij Rybolovlev, il magnate russo che aveva rilevato la società appena un mese prima, sotto consiglio di Dado Prso, suo concittadino. Marco Simone gli ha consegnato subito la titolarità, perché ha trovato in Subasic la concretezza che in qualche modo controbilanciava il gusto estetico, e le manie di grandeur artistica, del presidente.
A Monaco si è formato, a Monaco si è trasformato. E con i consigli di Amitrano, preparatore dei portieri e a sua volta fedele secondo di Barthez, è diventato un portiere diverso, più completo. «Non lo conoscevo per niente», ricorda Amitrano, «poi ho osservato alcune sue cassette e dopo appena un paio di allenamenti ho capito che aveva qualcosa di speciale: la velocità a terra, e una capacità di elevazione, una plasticità nelle uscite. Dice di vedersi sobrio, ma in realtà gli piace il lato spettacolare».
«Mi piacciono i portieri come Cech, Buffon, Neuer: non si tuffano mai se non è necessario. Mi piace il gioco semplice ed efficace», ha detto. «Certo», ha però ammesso, «poi ci sono i momenti in cui fai una parata per i fotografi. Ma non troppo spesso».
Non è mai stato, esclusa la parentesi con Marco Simone, la prima scelta. C’era Stekelenburg, sarebbe arrivato Sergio Romero. Nel mezzo, i rumor che a ritmi alterni accostavano alla porta monegasca i nomi più svariati: Rui Patricio, Steve Mandanda, Victor Valdes, lo stesso Hugo Lloris, Iker Casillas. “Suba” ha sempre saputo incassare il peso della pressione con serenità; ha imparato ad avanzare, stoico, per la sua strada. «Quando hai conosciuto la guerra, quando hai giocato in Croazia, non è che ci siano poi molte cose capaci di stressarti».
«Monaco è una piazza ambiziosa, non mi sorprendo di niente». «È difficile, però», ha confessato una volta in un’intervista «perché ogni settimana si fa il nome di un portiere nuovo. Ma io resto calmo, nella mia testa ho solo il lavoro. Quando hai paura di perdere il posto, o che non ti rinnovino il contratto, allora sei portato a dare qualcosa in più».
Un concetto che ha ribadito a più riprese: «Il calcio si gioca essenzialmente nella testa».
Con il tempo, Subasic ha imparato a trasferire la sua personalità, e il suo stile, ai momenti passati in campo. Si è dimostrato capace di giocare il pallone con i piedi, come la contingenza storica richiede a ogni portiere. Ogni tanto, come a volersi ritagliare una piccola licenza frivola in un mare di castità stilistica, azzarda un dribbling sull’attaccante. «Mi sento in colpa per l’allenatore dei portieri ogni volta che dribblo un avversario, potrebbe esplodergli il cuore». Quando è in vacanza, racconta, gioca spesso a calcetto, e mai in porta. Nella sua prima stagione, in Ligue2, ha addirittura segnato un gol su punizione.
Boulougne sur Mer, Maggio 2012. Il campionato non ha più granché da dire, a quel punto, e Subasic ha scommesso con Amitrano che se gli fosse capitata l’opportunità avrebbe calciato una punizione. E l’avrebbe segnata. L’arbitro sembra il più preoccupato della scena, sembra volergli ricordare gli obblighi dell’etichetta, i rischi che si corrono così distanti dalla propria porta. Ma Subasic ha già il film scritto nella sua testa. L’uomo che corre ad abbracciare quando il pallone supera la barriera è il suo preparatore, mentore, principale sostenitore, Amitrano.
Subasic è una figura rassicurante. Vicino alle 100 presenze in Ligue1 ha stabilito un record: nessun giocatore con almeno 30 partite stagionali disputate in Ligue1, fino a quel momento, aveva mai raggiunto il suo tasso di conversione in parate, il 76% dei tiri totali subiti.
Ha sempre rifuggito la solitudine archetipica dei portieri. «Non penso mai “io, io, io”. Ma quale “io”! Senza i miei compagni di squadra, non sono niente. Me ne fotto dei premi ai portieri».
Nascosti dietro l’estrema concentrazione e dedizione al lavoro, sotto la coltre di una ritrosia per niente altezzosa o arrogante, Subasic, poi, si porta dentro i demoni. Così invadenti da farlo esplodere in lacrime in ogni intervista.
Ed è un problema non da poco, quando la tua filosofia poggia sull’assunto che il calcio si giochi, essenzialmente, nella testa.
Convivere con i fantasmi
Dopo la vittoria contro la Russia, che ha portato la Croazia in semifinale, Subasic in conferenza stampa si è commosso. Con la voce strozzata ha dedicato quel risultato insperato, per certi versi impronosticabile, a Hrvoje Custic.
Custic è morto in campo, dopo un infortunio di gioco. Subasic era suo compagno di squadra, ed è in qualche modo convinto che se l’attaccante oggi non c’è più sia un po’ per colpa sua.
Nell’aprile del 2008 lo Zadar sta affrontando l’HNK Cibalia. La partita è iniziata solo da pochi minuti, e Subasic indirizza un rilancio lungo verso l’attaccante, che nel tentativo di tenere il pallone in campo si sbilancia e sbatte la testa contro un muretto di recinzione a pochi metri dalla linea del fallo laterale.
«Me lo ripeto ogni volta: se non avessi giocato quel pallone verso di lui, oggi sarebbe ancora vivo». I medici si rendono subito conto della gravità della situazione: Custic viene trasportato d’urgenza in ospedale, dove viene sottoposto a un intervento d’emergenza al cervello, e gli viene indotto il coma. Sei giorni più tardi ne verrà decretato il decesso cerebrale. Un’infezione lo porterà alla morte di lì a poco.
«Subito dopo la partita ho sentito il bisogno di andarmene. Sono andato in America, ma facevo fatica a dormire. Il jet lag mi torturava. E ogni volta che mi svegliavo, in piena notte, mi tornava in mente quello che era successo. Mi chiedevo perché avessi giocato la palla lunga su di lui, perché non avessi rinviato a centrocampo». «Come aveva potuto, il fato, il destino, fare sì che succedesse?».
Ogni volta che scende in campo, “Suba” indossa sotto la divisa di gioco una maglia con la foto di Custic. Lo fa praticamente da sempre, e non ha intenzione certo di smettere ora, anche se la FIFA lo ha ammonito sulla contrarietà al regolamento di esporre messaggi personali in campo. «Non me ne frega niente», è stata la sua risposta laconica.
Se potesse cancellare sei minuti della propria vita, forse Subasic sceglierebbe quel lancio lungo, quella rincorsa finita contro il muretto.
Per comprendere la portata devastante che la morte del compagno ha avuto sulla percezione della vita dentro e fuori dal campo di Subasic non bisogna dimenticare che nel momento storico in cui si è realizzata questa piccola tragedia, Subasic era appena uscito da un’altra situazione psicologicamente stressante.
Qualche mese prima, appena ventiduenne, ha deciso di sposare la fidanzata Antonija, che ha conosciuto all’università, ai corsi di filosofia. Ma il padre di lei, Ante, non è propriamente d’accordo. Perché “Suba”, nella visione di Ante, è un “mezzosangue”, un nemico, una specie di macchia etnica sulla patente sovranista della sua famiglia. Perché Subasic è figlio di un serbo, e Ante non può proprio accettarlo, un affronto del genere. «Se sposi un serbo», arriva a minacciare la figlia, «ti uccido». Antonija, spaventata, denuncia la lettera minatoria del padre al commissariato di Islam Latinski, il paese dell’entroterra zarino in cui vive. E il giudice per le indagini preliminari, a scopo precauzionale, ne commina l’arresto.
Contro il nazionalismo più violento
È un assunto così pacifico che nondimeno colpisce il modo in cui la figura di Subasic, nelle ultime settimane, si sia trasformata in Croazia in una specie di volano per una riflessione ad ampio respiro, che mina le fondamenta del sovranismo nazionalista e contribuisce a ridefinire la lettura dell’ultimo ventennio di storia del Paese. Un ruolo che speriamo non venga pregiudicato dalla brutta prestazione in finale, e che molti gli stanno già rimproverando.
Non c’è ritratto di Subasic che riesca a prescindere dall’emblematicità della sua storia personale, delle sue radici, delle sue appartenenze: e ogni storia risulta in un tentativo di legittimazione della vittoria del meticciato, dell’interculturalità, come se il successo sportivo in qualche modo servisse a sciogliere il nodo gordiano della sempiterna, intestina rivalità che cova in seno all’epicentro degli stravolgimenti balcanici degli anni Novanta.
Ante Tomic, du Jutarnj List, più di ogni altro ha centrato il punto: «In tutto il nostro paese hanno festeggiato quelli dell'HDZ, gli ustascia, le suore, le prostitute (...). Hanno tutti urlato di gioia nel momento paradossale in cui, accanto a più di 500mila ex combattenti della patria croata, a difenderla, la patria, c'era un serbo».
Il motivo per cui l’editoriale di Tomic colpisce nel segno sta tutto nel provare a immaginare gli effetti che la perpetuazione di una visione “negativa” di Subasic-in-quanto-serbo avrebbe riversato sulla realtà, distorcendola, causando un effetto simile al dissolvimento delle foto di famiglia di McFly quando si intromette nella storia d’amore tra i suoi genitori.
«In un qualche mondo parallelo, uno sconosciuto zaratino, Danijel Subašić, non sapeva giocare a calcio. È riuscito a finire le scuole, imparare qualche mestiere e diventare uno zaratino qualsiasi, un anonimo trentenne o poco più». Il mondo in cui Subasic è cresciuto, in effetti, non gli avrebbe di fatto permesso di lavorare nel settore pubblico. Non sarebbe mai potuto diventare un professore di storia, aprire un negozio: ogni strada gli sarebbe stata preclusa, o almeno gli avrebbe richiesto ennesime e reiterate manifestazioni di lealtà. Invece, la lealtà ha scelto di dimostrarla sul campo.
Il calcio è stato il grimaldello con il quale Subasic ha scardinato un destino altrimenti segnato: «cosa penseremmo di lui se non fosse un grande portiere, ma un idraulico o un impiegato? (...) O, a pensarci bene, se fosse rimasto “soltanto” un Serbo?».
Dopo la vittoria in semifinale con l’Inghilterra, “Suba” ha dedicato un pensiero alle madri che hanno perso i propri figli nel massacro di Srebrenica.
E sarebbe davvero ingeneroso se la prestazione un po’ sottotono della finale finisse per corrompere tutto il significato di Subasic per la Croazia, la maniera in cui un suo riflesso felino, o una deviazione in punta di piede su un pallone che poteva affossare ogni sogno, sono stati sufficienti a convincere alcuni croati che il nazionalismo, dopotutto, come ben dice Tomic, non è davvero che una tremenda stronzata.