Italia, contro Israele non è una semplice partita di calcio: è giusto giocare?

Israele-Italia lunedì 8 settembre a Debrecen, in Ungheria. Italia-Israele martedì 14 ottobre a Udine. Non sono solo due partite di calcio valide per le qualificazioni ai Mondiali del 2026, ma sono due eventi che portano con sé polemiche, riflessioni, dilemmi etici che vanno ben oltre l’aspetto sportivo. Della stretta parentela tra sport e politica abbiamo già scritto in passato su queste pagine e dunque è pleonastico ricordare il meccanismo di ‘guerra formalizzata’ che sta alla base dell’attività sportiva nei suoi antichi vagiti sino alla sua evoluzione in contrappeso della politica attraverso quel mantello valoriale che si è aperto nei secoli e che ha toccato l’apice con De Coubertin. Fratellanza, rispetto, amicizia sono oggi concetti che amiamo applicare allo sport, ricordando che le Olimpiadi antiche ‘fermavano’ le guerre . E tuttavia che lo sport continui ad essere fedele specchio della politica, soprattutto nelle relazioni internazionali, resta evidente anche ai giorni nostri. Dunque la domanda è legittima: si deve giocare quel doppio confronto? E se sì, è giusto farlo senza prendere alcuna posizione formale di fronte alla tragedia di Gaza? Cominciamo col dire che la vita di Israele è sempre stata complicatissima: la sua Nazionale era inizialmente affiliata alla AFC, cioè alla Federazione asiatica. Ma sin dalla crisi di Suez del 1956 molte Nazionali di Paesi musulmani si rifiutarono di giocarci contro. Al punto che nei gironi di qualificazione ai Mondiali di Svezia ’58, Turchia, Egitto, Sudan e Indonesia non scesero in campo ‘regalando’ teoricamente la qualificazione a Israele senza che venisse giocata una sola partita. Fu così che la Fifa si inventò uno spareggio col Galles, che vinse e festeggiò. Di lì cominciò la diaspora calcistica di Israele, inserita di volta in volta in contesti geograficamente stravaganti sino al suo ingresso nella Uefa nel 1994, concepita in base all’affinità politica e culturale con l’Europa. Dunque per anni gli israeliani hanno respirato anche nel contesto sportivo quella sindrome da accerchiamento che non poteva non produrre rabbia, risentimento e diffidenza rispetto ai popoli vicini. Ma nella matrioska della storia è sufficiente passare allo strato successivo per applicare la stessa progressione culturale ai palestinesi, infilati in una sorta di riserva indiana senza alcuna dignità statuale. Non è questa la sede per ricordare tutti i capitoli della endemica crisi mediorientale, ma certamente è utile indicare la data del precipizio della speranza e della ragione: 7 ottobre 2023, ovvero lo spaventoso e orribile attacco di Hamas ai cittadini israeliani che produsse la reazione cui stiamo assistendo ancora oggi. E qui la domanda è inevitabile: esiste una proporzione da rispettare tra offesa e contrattacco? E dove si pone quel delicato confine? Quanti innocenti, donne e bambini devono morire perché dalla ragione si passi al torto? Quando, insomma, ci si deve fermare? Per rispondere forse è bene ripartire da Tucidide, lo storico greco che ci ha tramandato un dialogo illuminante tra gli emissari degli atenesi e gli abitanti dell’isola di Melo durante la guerra del Peloponneso. Melo era una colonia spartana e dunque per sangue e ideologia aderente alla visione del mondo dei nemici di Atene. I suoi abitanti non avevano fatto nulla, nessun atto ostile. Semplicemente cercavano di mantenere con fatica una certa neutralità nella guerra, pur consapevoli che la loro ‘parentela’ ideologica e storica risultasse insopportabile a uno specifico attore del conflitto. Del resto Melo è nelle Cicladi, al tempo zona di influenza della Lega Delio-attica e dunque una teorica spina nel fianco di Atene, un po’ come Cuba per gli Usa ai tempi della Guerra fredda. Bene, alcuni passaggi dell’ultimatum sono assolutamente illuminanti: Ateniesi: “Noi dunque non vi offriremo una non persuasiva lungaggine di parole con l’aiuto di belle frasi, cioè che il nostro impero è giusto perché abbiamo abbattuto i Medi o che ora perseguiamo il nostro diritto perché siamo stati offesi; ma ugualmente pretendiamo che neppur voi crediate di persuaderci dicendoci che, per quanto coloni dei Lacedemoni, non vi siete uniti a loro per farci guerra o che non ci avete fatto alcun torto. Pretendiamo invece che si mandi ad effetto ciò che è possibile a seconda della reale convinzione che ha ciascuno di noi, ché noi siamo certi, di fronte a voi, persone informate, che nelle considerazioni umane il diritto è riconosciuto in seguito a una uguale necessità per le due parti, mentre chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede” Melii: “E che noi restando in pace fossimo amici invece che nemici, ma alleati di nessuna delle due parti, non l’accettereste?” Ateniesi: “No, perché la vostra ostilità non ci danneggia tanto quanto la vostra amicizia, manifesto esempio per i sudditi della nostra debolezza, mentre l’odio lo è della nostra potenza” In sostanza sin da principio si esclude esplicitamente il piano della ‘giustizia’ per portare la discussione su quello dell’ ‘utilità’. E la traduzione è semplice e sta in un solo concetto: tutto si basa sui rapporti di forza. E se ci chiedete perché vi attacchiamo, la risposta è semplice: perché possiamo. Quando, poi, i Melii provano a dimostrare che distruggere uno Stato neutrale potrebbe indurre tutti gli altri che si trovino nella stessa situazione a sposare la causa del nemico, gli ateniesi rispondono così: “Noi non consideriamo pericolosi quelli che, abitatori di qualche parte della terraferma, grazie alla loro libertà intatta si guarderanno bene dallo stare sulla difensiva nei nostri riguardi; al contrario, noi temiamo quelli che, da qualche parte, sono isolani e non soggetti al nostro impero, come voi […] Ché costoro, abbandonandosi a calcoli errati, potrebbero numerosissime volte esporre se stessi e noi a un manifesto pericolo”. Qui si parla di ‘terraferma’ e di ‘isole’ per definire con esattezza le zone di influenza e di interesse. Ma basta sostituire questi termini con Europa ‘orientale’ ed ‘occidentale’ e/o ‘Gaza’ e ‘resto del mondo’ per capire che questo schema logico, nocciolo duro ed essenziale della politica, è ampiamente applicabile anche alle crisi russo-ucraina e israelo-palestinese. E allora? La politica è tutta in questa deprimente e semplice regola? Beh, nel suo nucleo sì. Ma esistono molte altre variabili di cui tener conto, certo: i valori della Rivoluzione francese, la Carta dei diritti dell’uomo, la Grundnorm di Kelsen e la forza del diritto. In una parola, tutte le faticose conquiste intellettuali del genere umano nel corso della storia. E tuttavia queste influiscono sulle dinamiche ancestrali della politica solo e in quanto generino equilibrio nei rapporti di forza, perché altrimenti rischiano di diventare semplicemente materiale di sterile propaganda. Ci vorrebbero molti volumi per trattare seriamente questo argomento, ma qui ci basti ricordare che nel mondo dello sport la forza del diritto non ‘tiene’ fino in fondo. E’ vero, come affermato dal Ministro Abodi, che tra la situazione russa e quella israeliana esiste una differenza derimente: la Russia è aggressore, ed ecco che in punta di diritto è giusto escluderla dalle competizioni sportive, mentre Israele è aggredito, circostanza che ribalta la prospettiva. E’ certamente una posizione coerente e che aiuta a spiegare perché sì, l’Italia contro Israele ci deve e ci vuole giocare. E tuttavia permane il rischio che il gioco di specchi tra rapporti di forza e forza del diritto confonda i piani e intorbidisca le acque: perché resta il sospetto che la Russia sia stata sanzionata per la grande pressione di tutto il mondo occidentale e che invece Israele sfugga alle sanzioni a causa della minima pressione sin qui esercitata dal resto del mondo. Perché in effetti, sempre ‘in punta di diritto’, la distinzione aggressore/aggredito non esisterebbe per altre guerre regionali di cui si è parlato pochissimo, come quella dell’Arabia Saudita contro lo Yemen nel 2014 o quella dell’Azerbaigian contro gli armeni, solo per citarne alcune. Ma chi si aspettava qualche azione sanzionatoria nei confronti di questi Stati, è rimasto deluso. Dunque è legittima l’impressione che il diritto assuma valenza effettiva solo quando ritenuto funzionale nei rapporti di forza internazionali. Anche perché il diritto sportivo, quello cui si ispirano le istituzioni mondiali e continentali, contemplerebbe interventi laddove vengano uccisi atleti e distrutti impianti. E tra le tante storie tragiche di Gaza ce ne sono molte legate allo sport, buon’ultima quella di Souleiman Al-Obaid, definito il Pelè palestinese, ucciso il 6 agosto dall’Idf mentre si trovava a un punto di distribuzione del cibo. Lutto, tra i tanti, che ha spinto molti atleti ad assumerlo come paradigma del massacro e a chiedere formali spiegazioni al Governo di Tel Aviv. E che ha indotto la Uefa a dedicargli un ricordo sui suoi social, malgrado non si trattasse di un giocatore europeo. Ecco, la Uefa. Che posizione ha preso? Cosa pensa e cosa ritiene di fare in questo contesto? Per molti mesi il suo silenzio ha fatto il paio con quello della Fifa, presso i cui uffici si è arenata la causa intentata contro Israele da parte della palestinese PFA. Del resto, i prossimi Mondiali si disputeranno negli Usa, gli alleati più granitici di Israele, circostanza che impone prudenza. Ma nelle ultime settimane qualcosa, almeno a livello continentale, è cambiato: prima della Supercoppa Europea tra Psg e Tottenham, il 13 agosto scorso, la Uefa ha fatto esporre a centrocampo uno striscione che recitava “basta uccidere bambini, basta uccidere civili”. Sembra poco, ma costituisce la prima presa di posizione formale di un’Istituzione sportiva su questo tragico e intricatissimo tema. Tanto più che lo stesso Ceferin, a margine, si è esposto in un’intervista: “Dobbiamo smettere di fingere di vivere su un altro pianeta”. Certo, si tratta solo di parole, che anche in questo caso rappresentano un fedele riflesso dei mutamenti politici: alcuni Paesi europei, tra cui la Francia, hanno recentemente riconosciuto lo Stato palestinese come forma di pressione sul governo israeliano. E in seno alla Uefa ha assunto un certo peso Nasser Al-Khelaifi, proprietario qatariota del Psg, per estrazione culturale non esattamente allineato a Tel Aviv. E tuttavia ancora una volta si sentono riecheggiare le parole dei messi ateniesi: “Non temiamo coloro che, tra le braccia della loro libertà intatta, si guarderanno bene dall’offenderci realmente”. Solidarietà, empatia, appoggio morale e ideale sono splendidi concetti che sgorgano dalla cultura delle democrazie liberali. Sono fondamentali per portare aiuto e infondere senso di giustizia. Ma purtroppo non sembra essere su questi che riposa la capacità di convincimento che, per essere davvero tale, necessita di una dimensione ‘coercitiva’. E tuttavia possiamo porci ancora una domanda: che cos’è Gaza oggi per noi? E’ certamente il covo di Hamas, organizzazione terroristica che, a proposito di rapporti di forza, se avesse avuto i mezzi avrebbe spazzato via Israele dalla faccia della terra. Ma in queste ore Gaza sta diventando anche un rendering occidentale, un murale surreale che dipinge un mondo finto e arrogante spalmando su rovine e storie spezzate una mano di vernice kitsch, belletto di un corpo martoriato e abusato, ispirato al business più volgare. Infine Gaza è anche la terra di milioni di persone innocenti, il recesso degli incubi più feroci della coscienza del mondo. Dunque la domanda resta: che fare? E la risposta è resa più ardua dalla storia e dai rischi ideologici. E’ bastata quella presa di posizione di Ceferin per scatenare le reazioni in alcuni stadi israeliani: “Due cose sono da distruggere: Uefa ed Hamas” recitava uno striscione degli ultras dell’Hapoel Be’er Sheva. E ogni critica, tanto più se netta, alle azioni del governo di Tel Aviv diventa spesso pretesto per appiccicare etichette di antisemitismo. Qualche volta, per altro, non a torto. E tuttavia, di fronte a una tale enormità, non è più possibile accettare frasi come “io mi occupo solo di sport, non ho le competenze per esprimere opinioni”. Perché qui si tratta di affrontare un’emergenza umanitaria di proporzioni bibliche. La Norvegia, anch’essa avversaria di Israele nel girone di qualificazione mondiale, ha già fatto sapere che devolverà l’incasso della partita in aiuto al popolo palestinese. E noi? Israele è e resta una democrazia. E al di là delle tendenze che in ogni parte del mondo sembrano trasformarla in ‘democratura’ quel popolo ci è affine, ha uno stile di vita prossimo al nostro e malgrado le follie della storia ci è ‘fratello’. Le oceaniche manifestazioni di dissenso messe in atto dai cittadini per le strade della capitale, che altrove verrebbero represse con violenza, dimostrano vitalità e capacità di dibattito, di confronto. Un valore da proteggere. Perciò forse sì, contro Israele si può e si deve giocare. Ma lo si può fare appoggiando quest’onda, perché la dimensione ‘coercitiva’ del convincimento e della deterrenza nelle democrazie , passa anche attraverso l’instancabile volontà, la forza delle idee e l’espressione delle opinioni. Mauro Berruto proponeva un’iniziativa che rievocasse le magliette rosse di Panatta e Bertolucci in Cile nella finale di Coppa Davis del 1976. Perché no? Ciò che importa è evitare di voltarsi dall’altra parte. Perché l’indifferenza non è solo un’offesa alla ragione, ma anche una colpevole deroga alla propria libertà. Se è vero, come diceva Gaber, che “la libertà non è star sopra un albero….libertà è partecipazione”.

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Alessandro Biolchi