Il Leicester e i miti alternativi della Premier

Siamo un po’ tutti come Martina, la più famosa tra le oche dell’esperimento sull’imprinting di Konrad Lorenz, l’etologo austriaco vissuto nel secolo scorso. Lorenz dimostrò che in alcune specie animali i pulcini, privi del sufficiente numero di informazioni a livello nervoso sulle caratteristiche della propria specie, identificano nel primo essere vivente che appare loro davanti la figura materna, ed è un’immagine - il processo non per nulla si chiama imprinting - che determina il loro atteggiamento e il resto della loro esistenza. Nel calcio, nello sport, in generale nella vita, l’oca Martina è quella che senza alcuna colpa identifica nel fenomeno del momento l’universalità, che colloca nell’assoluto il particolare. Che immagina eterno quello che le passa davanti, anche per caso. Tirando un po’ per i capelli il concetto, l’oca Martina esce alla luce nella primavera del 2016 e pensa che quel fenomeno che ha davanti, chiamato Leicester City, sia il modello da seguire. Sia il tutto, sia la consuetudine. Lo vede vincere il campionato e lo identifica come un punto fermo della propria esistenza. E non sa, perché non ha un passato innestato nella memoria, che si tratta di un momento transitorio. Che il Leicester City è un club importante, ma che per buona parte della sua storia è stato uno dei tanti: 55 stagioni nella massima serie, 63 nella seconda, una sola, 2008-09, nella terza. Miglior risultato, prima della straordinaria cavalcata di ormai nove anni fa, il secondo posto nel 1928-29, e promozione dalla seconda divisione in ben nove decenni diversi dal 1900 ad oggi. In più, cinque finali di Coppa d’Inghilterra di cui solo una vinta, l’ultima, nell’inutile semi-deserto di Wembley 2021. Ad eccezione di una bella doppietta in Coppa di Lega intervallata dalla finale persa nel 1999, l’emblema di un club perennemente in galleggiamento tra aspirazioni stroncate e mediocrità, con lampi negli anni Sessanta, quelli di cinque finali tra FA Cup e League Cup, di cui quattro perse, che portarono alla ribalta giocatori come Gordon Banks, il portiere dei Mondiali 1966 nato a Sheffield ma emerso nei Foxes, e il suo successore Peter Shilton, che a Leicester è nato. Bizzarro che da questa squadra, in quel grande ma poco fruttuoso periodo, siano arrivate 198 presenze complessive in nazionale diffuse nell’arco di ben 27 anni, tra l’aprile 1963 e il giugno 1990. Ancora più bizzarro il fatto che Shilton succedette a Banks anche nello… Stoke City, ma il solo fatto che due giocatori così fossero stati ceduti ad un club di media levatura racconta la difficoltà che il Leicester City storicamente ha avuto nel proporsi con continuità ai massimi livelli. Un racconto onesto che è però difficile far accettare a chi, senza alcuna colpa, si è trovato davanti un City fenomenale a metà dello scorso decennio, con personaggi come Jamie Vardy che ha trovato il tempo giusto e il momento giusto per diventare un mito vivente, dopo i difficili inizi e dopo il recente declino, non avanzato al punto da non fargli avere un nuovo contratto. Il debutto tardivo in Premier League nella stagione del ritorno, lunedì sera contro il Tottenham, sarà per moltissimi la ripresa di un filo interrotto in modo improvviso e brusco, quando in realtà si era trattato, nel grande disegno della storia, di uno dei tanti episodi di retrocessione. L’atmosfera al King Power Stadium sarà elettrica, mescolata alla preoccupazione che aleggia da parecchi mesi, solo in parte giustificata dalla possibile penalizzazione per la malagestione finanziaria degli ultimi anni, quella che ha costretto alla cessione di Kiernan Dewsbury-Hall, centrocampista moderno non solo nel doppio cognome ma nel gioco e nella mentalità: l’elevazione dell’asticella operata dal 2015 in poi ha illuso anche tanti tifosi locali, arrivati lo scorso anno a contestare il gioco della squadra, nel periodo in cui le idee di Enzo Maresca, dopo una brillantissima partenza, erano parse dissolversi in incertezze ed eccesso di elaborazione tattica. Sarà una serata particolare anche per Steve Cooper, che ha sostituito Maresca: proprio al King Power Stadium, poco meno di due anni fa, i tifosi del Nottingham Forest avevano inscenato la prima, plateale manifestazione di sostegno al loro allenatore, messo sotto accusa dai media per la partenza poco brillante nella stagione di ritorno del Nottingham Forest in Premier League. Cooper avrà tanto da fare, e il fatto che appaia adeguato al compito non toglie che l’organico non sia all’altezza della lotta per la salvezza e che quindi si possa andare incontro ad un melodrammone. Termine che richiama il canto e anche qui il Leicester City certifica il suo status di club particolare, sfigato a lungo ma gratificato dall’eccellenza nel momento mediatico maggiore: uno dei canti tradizionali dei tifosi del Chelsea, ad un certo punto, dice ‘we all follow the Chelsea, over land and sea… and Leicester!’ e ha spesso suscitato curiosità. Perché mai c’è bisogno di aggiungere Leicester all’elenco generico di luoghi in cui i tifosi seguono i Blues? Ci sono tre spiegazioni, di varia credibilità e gusto. Secondo la prima, negli anni Settanta il gruppo più cinico di teppisti al seguito del City, poi divenuto noto con il nome di Baby Squad, ebbe numerosi scontri con il ruvidissimo contingente del Chelsea, capeggiato dagli Headhunters, e ne uscì spesso vincitore: nei vari forum tuttora dedicati a quegli anni si ricorda un 26 dicembre 1979, un Boxing Day, 1-1 in seconda divisione, che generò memorie e risentimenti. E allora il canto sarebbe risposta ad un ora meno praticato ‘Hark now hear the Leicester sing the Chelsea ran away, and we will fight forever more because of Boxing day’, che invita ad ascoltare il canto dei tifosi Foxes, ricorda una fuga dei tifosi Chelsea e la determinazione ad una battaglia ancora più prolungata per via di quel giorno di dicembre. La seconda teoria, politicamente scorretta, dice che ‘and Leicester’ indicava, come anomalia, la già numerosa popolazione locale di origine pakistana, come se dunque la città fosse un mondo a parte. Infine, la più suggestiva e curiosa: chi si recava verso nord, da Londra, ad un certo punto sull’autostrada M1 trovava un curioso cartello che indicava come direzione ‘The North and Leicester’, che sarebbe come trovare, a Firenze viaggiando verso nord, un’analoga segnalazione con ‘Nord Italia e Cremona’. Tesi che potrebbe essere valida considerando un altro fattore: che ‘and Leicester’ viene cantato anche da tifosi di altre squadre londinesi, non solo del Chelsea, e quindi verrebbe a cadere in parte il primo motivo, quello degli scontri, se non fosse che quando scendevano nella capitale i tifosi del Leicester City facevano danni non solo a Stamford Bridge e dintorni ma anche altrove. E attenzione, anche il Forest, citato prima, è un caso da oca Martina: un titolo, due FA Cup, quattro Coppe di Lega e ovviamente le due famose Coppe dei Campioni vinte, ma cinque di quei trionfi sono arrivati tra 1978 e 1980 e si tratta di un arco di tempo splendidamente ridotto ma tale da influenzare l’opinione e il ricordo. Chi ha assistito a quella manciata di stagioni strepitose, sotto la guida sfacciata e bisbetica di Brian Clough, non può non farsi condizionare, non può non celebrare il ritorno del club ai vertici, e le fiumane di articoli e speciali pubblicate nell’estate di due anni fa, compreso il Di Canio Premier Special con un Di Canio ad efficacissimo colloquio con John McGovern, il grande capitano di quel periodo, certificano questo atteggiamento. Ma bisogna appunto rendersi conto che il Forest è stato un club importante solo in un arco ristrettissimo di anni, così come l’Ipswich Town, anni però - quasi sovrapposti - in cui l’eco mediatica attorno al calcio cominciava a crescere anche all’estero, il campionato inglese stava diventando appuntamento televisivo importante nei paesi scandinavi e dunque il fuoco del momento marchiava la pelle e la memoria.

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