Il segreto del Bournemouth è l’allenamento della sera prima

Andoni Iraola non vuole essere chiamato allenatore. “Preferisco considerarmi un assistente dei giocatori”, disse nella passata stagione, quando il suo Bournemouth iniziava a stupire e noi iniziammo a interessarci al suo condottiero. Già in quel momento dovevamo sospettare che in lui ci fosse qualcosa di diverso, di speciale. E ora che il Bournemouth si sta ripetendo – è attualmente quarto nella classifica di Premier League – ci chiediamo: possiamo parlare di sorpresa? Probabilmente no, perché sorpresa lo è già stato nel passato campionato, chiuso al nono posto portandosi a casa gli scalpi eccellenti di Manchester City, Arsenal, Manchester United, Tottenham. E per definizione non si può essere “di nuovo” una sorpresa. Puoi sorprendere la prima volta, alla seconda ti stai già confermando. Obiezione, vostro onore: sì, ma in estate le big europee gli hanno smantellato la difesa, comprandosi tre quarti della linea titolare . In quanti avrebbero scommesso su una conferma dopo una rivoluzione del genere? In pochi: accolta. A questo punto, alla ricerca del “segreto” delle Ciliegie, bisogna andare su di lui: Iraola, l’allenatore-non-allenatore. E adesso si fa largo l’idea che di speciale, in questo nuovo “guru” della panchina, non ci siano solo le idee tattiche . È la psicologia di Iraola a stupire. Partiamo proprio da quel rifiuto dell’etichetta di allenatore, per dichiararsi “assistente dei giocatori”. Assistente, cioè “al servizio di”. Ossia colui che cerca di aiutare i giocatori a tirare fuori il meglio da loro stessi e, se ci pensate, proprio questa dovrebbe essere la funzione principale del “mister”, poi smarritasi tra manie di protagonismo e personaggi diventati più grandi della squadra che allenano. Iraola gira sempre con taccuino e penna in tasca, per appuntarsi le idee, convinto che le intuizioni migliori possano nascere in qualsiasi momento, anche fuori contesto, frutto dell’apertura mentale: osservando una partita di basket e traendo ispirazione per uno schema, guardando un film per rubare una frase motivazionale, facendo un giro al museo o tra gli scaffali del supermercato. Laddove spunta un’idea, Iraola estrae il taccuino e se la segna. Molto umilmente dice che la cosa che convince di più un giocatore non sono le parole di un allenatore, ma la vittoria: perché quella è la risposta concreta che ciò che si sta facendo è giusto. Per scegliere i giocatori sul mercato dà peso a una caratteristica che nessun altro considera, quando visiona i filmati: "Guardo come esultano quando la loro squadra segna un gol – dice – mi piace soprattutto quando lo fanno dopo un gol in cui non sono stati coinvolti personalmente o magari non hanno nemmeno toccato la palla". Nei suoi dodici anni trascorsi da giocatore all'Athletic Club è stato allenato anche da Marcelo Bielsa. Ricorda come il “Loco” ideasse esercizi in allenamento pensati per riprodurre movimenti o giocate fatti dalle migliori squadre e giocatori del mondo. "Poi dava agli esercizi il nome dei giocatori che guardavamo nel video", spiega Iraola. "Uno ad esempio era ‘il Riquelme’ perché era la riproduzione di qualcosa che gli avevamo visto fare al Boca Juniors. Usare esempi reali rende tutto più divertente e comprensibile per i giocatori". L’ultima trovata dello psicologo Iraola è l’applicazione al calcio delle tecniche di visualizzazione. In modo molto genuino, senza sedute a occhi chiusi o rilassamento. Semplicemente portando la squadra ad allenarsi nello stadio vuoto, la sera prima della partita. “Aiuta a fissare ricordi positivi, a prendere punti di riferimento, a riportare alla mente i ricordi di ciò che ha funzionato, per riproporlo. Quando ero un giocatore mi piaceva allenarmi nello stadio vuoto. È come dirsi: ‘Ok, si inizia oggi, la partita inizia ora. Anche se mancano 24 ore stiamo già giocando, perché è qui che giocheremo’. Immagini te stesso, provi delle giocate in quegli stessi posti in cui ti ritroverai a farle, provi un rigore dallo stesso punto in cui potresti trovarti a calciarlo. È più una cosa mentale che di allenamento vero e proprio”. È la riproposizione di ciò che atleti di discipline come sci, salto in alto, motociclismo – solo per citarne alcune – fanno da sempre, quando li vediamo ripassare a occhi chiusi il gesto o il percorso. Tecniche di imagery – così si chiamano nel gergo della psicologia sportiva – che raramente vengono applicate agli sport di squadra o più in generale alle discipline “open skill”, quelle cioè in cui non vi è una ripetizione del gesto, ma che dipendono anche da una miriade di fattori esterni e mutevoli: gli avversari, il meteo, il campo. Ecco, il campo: se almeno su quello si riesce ad “agire” un po’, limitando le possibili sorprese, è già un grande passo avanti. Al Vitality Stadium, contro il Fulham, nell’ultima giornata di campionato, Justin Kluivert si è inventato un gol meraviglioso. Dopo essere andato a prendersi la palla a metacampo, è partito puntando la porta come se conoscesse a memoria il numero di passi necessari per arrivarci. Con una serie di finte ha disorientato l’avversario che si trovava sulla sua strada, quanto bastava per vedere lo specchio e calciare dal limite dell’area, con una traiettoria imprendibile all’incrocio dei pali. Ci piace pensare che quella corsa, quelle finte, quel tiro, li avesse provati la sera prima, nello stadio vuoto.

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Vanni Spinella