Siamo d’accordo: i numeri bene o male li conosciamo tutti. Gli anni di presidenza, le coppe alzate al cielo, gli scudetti, i miliardi spesi poi diventati milioni, anche i rinvii del closing. Ma è con le lettere che si fanno le storie, ed è con le dieci lettere del suo cognome che Silvio Berlusconi ha scritto una delle più grandi storie del calcio
B
come Bellezza, ripetuto come un mantra. Il dogma del Bel Giuoco con la U, della vittoria abbinata allo spettacolo, del calcio offensivo delle due punte e del trequartista. La cifra esatta di un’intera esistenza: la bellezza in tv, la bellezza dei nuovi quartieri residenziali, la bellezza del Milan da opporre al difensivismo del calcio all’italiana.
E
come Elicottero, il simbolo del suo maestoso e prepotente ingresso nel mondo del calcio. Arena di Milano, 18 luglio 86, Cesare Cadeo che chiede di fare silenzio e il cielo di Milano che si squarcia mentre Wagner e la Cavalcata delle Valchirie accompagnano la discesa di tre Agusta, tra i quali quello che ospita il nuovo proprietario del Milan. E’ una clamorosa dimostrazione di forza, una sfida lanciata agli unici che all’epoca potevano permettersi qualcosa di simile: gli Agnelli. Intesi come membri della famiglia Agnelli, ovviamente.
R
come Record, quello dei 29 trofei vinti sotto la sua presidenza. La Supercoppa di Doha è stato l’ultimo, quello dell’aggancio a Santiago Bernabeu, che alla guida del Real ne conquistò altrettanti ma in 35 anni, 4 in più rispetto a quelli della presidenza Berlusconi.
L
come Legami: stretti, fortissimi, indissolubili. Come Odino con le sue Valchirie, che qui hanno sembianze maschili e nomi che sono attuali da più di trent’anni: Adriano Galliani, all’epoca fornitore di Berlusconi; Fedele Confalonieri, l’amico di una vita; e poi Gianni Letta, Marcello Dell’Utri… Tutti, chi più chi meno, sempre al suo fianco. In Fininvest, in politica, in tribuna a San Siro.
U
come Undici, il tormentone di 31 anni di presidenza. “Chi li sceglie gli undici?” ha attraversato tutti i 15 allenatori dell’era Berlusconi. Dal sarto Zaccheroni ad Ancelotti e le due punte, arrivando anche alla Nazionale, a Zoff e a Zizou Zidane. Tute e Physique du Role, comunisti e geniali intuizioni: con sullo sfondo la leggendaria panchina dell’Edilnord, la squadra allenata, negli anni sessanta, dal giovane e rampante Silvio.
S
come Sacchi, l’uomo che cambiò il calcio e la storia del Milan, ammirato e fortemente desiderato dopo una doppia sfida di Coppa Italia contro il suo Parma. Un rivoluzionario, per molti all’inizio un eretico, la zona e il gioco corto, il pressing asfissiante e le vittorie, una dopo l’altra, in Italia, in Europa, poi nel mondo. Insieme a Fabio Capello, ripescato negli uffici della Mediolanum, la più grande intuizione calcistica in 31 anni di Presidenza.
C
come Coppe dei Campioni, poi diventate Champions League. “Il Dna del Milan”, si diceva. Il 5-0 al Real, l’esodo di Barcellona, il Prater, le lacrime di Istanbul e la rivincita di Atene, già terra di conquiste nel 94. 5 coppe, 3 finali perse, “il club più titolato al mondo”. Il vero obiettivo che quei 3 elicotteri dell’Agusta, nel luglio dell’86, puntavano in fondo all’orizzonte.
O
come O, la vocale del dubbio. Vendo o resisto. I nuovi investitori stranieri o il Milan giovane e italiano. Chi gli è vicino racconta del grande dolore nel dover cedere la propria adorata creatura, il Manifesto di una vita di grandi ambizioni e altrettanti successi. Dei consigli di chi gli sta vicino, e del suo tentativo di resistere fino alla fine.
N
come novantaquattro, l’anno della discesa in Politica: quando Forza Milan e Forza Italia si fondono, insieme alle Campagne Elettorali e alle scelte di mercato, ai patti con gli italiani, con i milanisti, a promesse sondaggi e punti percentuali. Inevitabilmente, una parte del gioco.
E per finire
I
come Ibrahimovic: a conti fatti la prima vera firma sul closing, il primo passo verso il disimpegno e una nuova fase di ristrettezze. Il Milan aveva finito di spendere e investire, e in assenza di un vero piano B anche di vincere. I campioni non li prendeva più, ma se li aveva li vendeva. Ibra se ne andava con Thiago Silva dagli sceicchi di Parigi, dai nuovi padroni del calcio.
Era finita l’era dei mecenati, il grande Cesare Cadeo non si vedeva da un pezzo e l’Agusta non esisteva più. Rimane però una storia irripetibile, con le lettere che la compongono. Li ne ha appena due: il tempo ci dirà se saranno acronimo di Leggendarie Imprese o di Labili Illusioni.