L’irresistibile follia del primo Silvio

addio berlusconi
Giorgio Porrà

Giorgio Porrà

Nel ricordo di Giorgio Porrà la storia dell'ingresso nel mondo calcio di Silvio Berlusconi: la sacralità del Milan, la sua idea di rivoluzione, le intuizioni geniali e l'ossessione per la ricerca della perfezione

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“Eppure, ve lo assicura la Follia in persona, uno è tanto più felice quanto più la sua Follia è multiforme”.
Erasmo da Rotterdam (“Elogio della follia”)

L’irresistibile follia del primo Silvio. Che quando nel febbraio ’86, neppure cinquantenne, comprò il Milan salvandolo dal fallimento, prese l’abitudine di citare Erasmo da Rotterdam per spiegare la sua missione. Che oltrepassava la realtà, sconfinava nell’utopia. Berlusconi voleva cambiare il calcio dalle fondamenta, rimodellarlo a sua immagine e somiglianza, trasformarlo in un grande spettacolo televisivo. E il Milan doveva piacere a tutti, non solo ai milanisti. Perché sedurre il mondo con un gi(u)oco mai visto prima era la fiammeggiante ambizione che muoveva tutto. Un’eresia, per quei tempi, in quel calcio richiuso in se stesso, e infatti in tanti, all’inizio, sottovalutarono Berlusconi, ne irrisero le pulsioni rivoluzionarie, l’urgenza di modernità, legata anche al linguaggio, alla comunicazione. Beh, i successivi trent’anni di trionfi, attorno a quella visione avrebbero messo radici. 

"Solo il Milan è sacro"

I trofei, una valanga, la logica conseguenza di un’idea che poggiava su solidi presupposti, non solo sulla lucida furia rottamatrice di chi intendeva edificare un impero. E se il Milan di Sacchi, assieme all’Ajax di Cruyff e al Barcellona di Guardiola, verrà per sempre ricordato tra le squadre che hanno segnato un’epoca (con i principi di Arrigo a nutrire senza sosta tutte le avanguardie contemporanee), è anche perché Berlusconi non ha mai coltivato dubbi attorno al suo ruolo di presidente illuminato. E neppure lesinato energie. Il club doveva avere la sua faccia, la sua sostanza. “Tutte le cose di cui mi occupo sono profane. Ad essere sacro è solo il Milan”. Che per Silvio è stato esercizio di stile e di comando, oltre che divorante passione. Del resto è nel calcio che il Berlusconi più autentico si è rivelato. Più che in politica, dove era obbligato a seguire regole, protocolli mai compresi appieno. Il pallone ne incendiava la dimensione ludica, quella competitiva, la nostalgia legata al ricordo del padre, delle stelle rossonere, Gren, Nordhal, Liedholm su tutti. Poi, certo, è innegabile, il calcio contribuì alle sue fortune politiche, si rivelò funzionale macchina del consenso. Il successo alle urne nel ’94 fu in parte determinato dalle potenti suggestioni sprigionate dal suo Milan, in soli 8 anni dal rischio sparizione al tetto del mondo. Anche se è vero che a volte quella grandeur si trasformava in arma a doppio taglio. Quando vendette Kakà al Real, migliaia di elettori scrissero il nome del brasiliano sulla scheda, e il messaggio era più o meno: “Hai pensato più ai soldi che ai nostri sogni? E allora noi ti puniamo”. 

Il calcio come la tv

Berlusconi si applicò sul calcio con le stesse strategie perseguite nelle sue tv. Anche andando a trattare di persona i giocatori, come faceva con le dive del piccolo schermo. Stessa tecnica, da Grande Incantatore. Prese Donadoni dall’Atalanta, primo acquisto della sua gestione, soffiandolo alla Juve e suonando il pianoforte a Villa San Martino per l’allora presidente Bortolotti. Che ai giornalisti spiegò: “L’ho dato a lui perché mi ha invitato a cena a casa sua”. E quando intuì il devastante potenziale di Gullit, si precipitò in Olanda dai vertici della Philips: “Ditemi quanto volete, tanto con lui riempirò San Siro”. 

Berlusconi & Sacchi

Ciclonico, inesauribile. Più veloce dei sogni. Persino di quelli oggettivamente irrealizzabili. “Il mio – confessò una volta - è sempre stato quello di fare gol su lancio cartesiano di Rivera”. E visionario, sempre. Come Sacchi, che lo faceva godere anche quando dava ordini imperiosi ai giocatori urlando nel megafono a Milanello. Era la sua scommessa, il suo profeta, l’aveva scelto, lo difese sempre, soprattutto il primo anno quando il progetto faticava a decollare. E soprattutto ne assecondò i desideri, gli prese Rijkaard, rinunciando a Borghi, il suo pallino sudamericano. Ed anche Ancelotti, nonostante le perplessità legate al ginocchio malandato. Risultato, una squadra orchestra, un medagliere da urlo. Undici giocatori sempre attivi, accesi, con o senza palla, al servizio di una missione superiore. Parole d’ordine quali zona, pressing, fuorigioco, ripartenza, diagonale pronunciate con l’arroganza di chi sapeva di avere in pugno la pietra filosofale. Con la prima Coppa Campioni, nel maggio ‘89, vinta a Barcellona stritolando la Steaua, a rivelarsi il successo più appagante per coach e presidente. 

"Il calcio non sarà più lo stesso"

Fu in titolo de L’Equipe dopo quel 4-0. Tutto con Sacchi era pianificato, citava Bertold Brecht per spiegare l’ossessione per la ricerca della perfezione: “Senza copione c’è solo pressapochismo”. A Berlusconi piaceva che Arrigo avesse intrecciato con la sua creatura una relazione così stretta, quasi morbosa. Che la squadra sprigionasse quel furore algebrico, figlio del rigore tattico del suo comandante. Del resto, tra i segreti del dominio in Europa per quattro stagioni. 

Le diagonali di Van Basten

Era il rapporto conflittuale dell’allenatore con Van Basten a creargli qualche problema. Perché nel codice sacchiano Marco non era il più importante, anche se usava i piedi come Mozart le mani. L’olandese voleva divertirsi, anche assecondando l’istinto per il capolavoro. Il tecnico pretendeva soprattutto che pensasse. Mondi in collisione. E Berlusconi, spesso, si spendeva per riavvicinarli. Come quella volta al Bernabeu, aprile ‘89, nella semifinale d’andata di Coppa Campioni con il Real Madrid. Finì 1-1 con un lampo, magnifico, proprio dell’olandese, con tutto il Milan ad esprimersi al meglio. Ma nel post Sacchi si mostrò rabbuiatissimo. “Scusi Arrigo, ma non è contento? – lo incalzò Silvio – abbiamo pareggiato su un campo dove le italiane solitamente perdono, Van Basten ha segnato un gol divino, il Real è andato 23 volte in fuorigioco. Che cosa pretende di più?”. E Sacchi: “Vorrei che Van Basten avesse fatto meglio una diagonale che non gli è venuta bene. Ecco cosa vorrei presidente”. Per la cronaca, il Milan al ritorno avrebbe strapazzato il Real per 5-0, con l’olandese puntualmente tra i marcatori. La famosa partita perfetta, tra gli eventi epocali nel romanzo del football. E anche il vertice della visione berlusconiana, della sua irresistibile follia. E pazienza se nessuno, di quella sera, ricorda l’applicazione di Van Basten attorno alle diagonali.